30/12/20

Fuori sfila il lago


Ha parlato tutto il tempo di mutui, di una donna con una pensione misera, di un imprenditore insolvente e del consiglio di chiudere la patita Iva, di un’avvocata di Brescia idiota. Ha ripetuto più volte “che gentaglia!”, scusandosi che la linea andava e veniva. Poi dev’essere caduta.

Ha richiamato per dire che forse era meglio sentirsi una volta arrivato a destinazione. Ora guarda fuori dal finestrino il mattino soleggiato, il lago che sfila prossimo alla fine, il paesaggio di filari di viti, morbido, i pioppi, i platani, qualche cipresso. Ha la barba di tre-quattro giorni, i capelli grigi in via di diradarsi un po’ unti e con la scriminatura a destra, una camicia chiara, una giacca di buona fattura ma di taglio non recentissimo, uno zainetto elegante, di marca, e, ora che non parla più, che è solo con il suo sguardo incollato all’esterno, un’aria completamente disarmata.

Si abbandona al ronzio senza sussulti del treno e presto sonnecchia. I lineamenti prendono allora un’espressione serena, le labbra piegate come in un accenno di sorriso. O forse è la campagna veneta, le colline all’orizzonte, la memoria dei quadri che sto andando a vedere (a rivedere) che me lo mostrano così. Oppure è il sonno a pacificare i lineamenti, a essere di per sé una difesa, una patria.

 

20/12/20

Georges de La Tour, L’educazione della Vergine

Suonatori ciechi di ghironda, mangiatori di piselli, ubriachi che litigano; zerbinotti gabbati da bari e donne di mondo che si scambiano maliziosi sguardi d’intesa; soldataglie che giocano ai dadi in una taverna; santi che sembrano contadini, dalle mani grosse, le dita nodose e sporche, che impugnano come armi, o falci o randelli gli emblemi che dovrebbero farli riconoscere; donne con infanti sul grembo o in compagnia di bambine o che deridono il vecchio marito, e altre, che al lume di candela, scarmigliate, con specchi, teschi e grossi libri accanto, sembrano meditare su “trascorsi che non sarà bello tacere”, per dirla con Gozzano. Questi i principali soggetti delle opere di Georges de La Tour, ora di nuovo visibili nella mostra di Milano a Palazzo reale, finalmente riaperta e prorogata fino al 27 settembre. De La Tour in Francia è una vera e propria gloria nazionale, oggi ormai ammirato ovunque come lo era in vita, dopo la riscoperta iniziata nella prima metà del 900 che ha fatto seguito a un oblio totale di tre secoli, ma ancora per vari aspetti sconosciuto. Nonostante i ritrovamenti di alcuni documenti e i molti studi e relative scoperte e ipotesi, permangono infatti riguardo la sua vita e la sua formazione ampie zone oscure, come nei suoi quadri: quali sono stati i suoi maestri? a parte uno attestato a Parigi, quali viaggi ha fatto, con che altri artisti si è confrontato? ha compiuto quello canonico in Italia come altri lorenesi suoi conterranei e avuto esperienza diretta del Caravaggio o almeno delle sue opere romane e dei suoi seguaci che tanto sembrano aver influito sulla sua opera? Nato nel 1593, un precoce viaggio a Roma non sarebbe impossibile. Alcuni documenti sembrano descriverlo come persona cinica e feroce, ma una loro diversa lettura attenuerebbe di molto il giudizio, soprattutto alla luce dei tempi, quelli sì ferocissimi, tra distruzioni, conflitti, carestie, saccheggi e incendi (l’inizio del Seicento e soprattutto la Guerra dei Trent’anni: basta dare un’occhiata alle incisioni che le ha dedicato Callot), con una famiglia di dieci figli da mantenere, 7 dei quali morti per le ricorrenti epidemie, come poi la moglie e l’artista stesso nel 1652. La presenza di tanti bambini, a differenza per esempio di Vermeer che pure ne aveva avuti numerosi, sempre rappresentati con tenerezza rattenuta, senza smancerie, indurrebbe a pensare a una certa affettuosità (si veda il magnifico San Giuseppe falegname), per quanto l’amore paterno e la sua esternazione non fossero a quei tempi scontati, e all’importanza attribuita alla vita famigliare. Anche i suoi tratti ci sono ignoti, a dispetto del tentativo, peraltro iconologicamente non peregrino se raffrontato con altri autoritratti di pittori del tempo, di riconoscere il suo volto nel giovane Baro con l’asso di fiori dall’aria maliziosa nell’omonimo quadro del museo di Fort Worth.


Sono poche anche le opere giunte fino a noi, una cinquantina, delle quali un terzo, tutte di pregio, quelle presenti nella mostra di Milano, arricchita da opere anche di altri autori, come Trophime Bigot, Franz Hals, Paulus Bor e vari maestri italiani, che aiutano a comprendere il contesto artistico storico e, in parte, il personale percorso del pittore, che per il resto permane in buona misura misterioso come la sua figura, cosa che non nuoce al fascino che esercita. Le opere da sole, a quanto pare, non bastano al marketing dell’arte, per quanto numerosi siano i quadri che per vari motivi non possono lasciare indifferente anche lo spettatore odierno: alcuni per il loro realismo, per la rappresentazione di figure del popolo come raramente se ne erano viste prima: scene crude, non derisorie, feroci nella rappresentazione e nella stessa pennellata eppure in qualche modo liriche; altri per la natura enigmatica delle scene rappresentate o per il virtuosismo con cui sono dipinte le ombre e le loro fonti luminose (le candele dei vari interni e delle sue notissime, splendide Maddalene, lampade ad olio, fiaccole...), di cui il pittore francese è stato maestro al pari di Caravaggio o di Gherard van Honthorst (Gherardo delle notti), presente in mostra con due opere notevoli, ma in modi del tutto suoi peculiari; altri per i caratteri più propriamente stilistici, come la semplificazione e quasi l’idealizzazione delle forme e delle figure, o come le ampie stesure di colore che nelle ultime opere caratterizzano gli ambienti e che dotano di una consistenza e tattilità straordinaria i tessuti e insieme sembrano dar luogo a frammenti quasi astratti (per esempio le due gonne o piuttosto grembiuli della moglie che deride Giobbe e di Donna anziana), a seconda che lo si veda, come dice Anna Ottani Cavina in Una panchina a Manhattan, come “un pittore realista o un formalista supremo”.




Tra tutte quelle presenti in mostra però, le opere che mi hanno suscitato le emozioni più intense sono stati un San Sebastiano curato da Irene, di cui ho già parlato qui, e una tela con una donna e una bambina che regge una candela: una scena semplice, spoglia, tutta concentrata sui due personaggi e i pochi oggetti, la candela, una cesta, un libro, i panni morbidi ma dalla linee semplici degli abiti, le due fasce che li ornano: una scena chiara e insieme di difficile interpretazione, al di là di quella letterale, ma di successo, a giudicare dalle numerose versioni in nessuna delle quali è rintracciabile l’originale (il che nulla toglie all’alta qualità di alcune, come quella del Louvre, e di gran parte di quella in mostra, proveniente dalla Frick Collection di New York, dove viene presentata, ovviamente, come del tutto autografa).

 


Una bambina sta in piedi con in mano una candela che scherma con l’altra, davanti a una donna seduta con un libro aperto in grembo. Nient’altro. Cosa stanno facendo? È un momento di vita domestica. La donna ha smesso da poco di leggere (per sé o anche per la bambina?), e ora, presumibilmente, sta pensando a quello che ha letto. Il suo sguardo non si fissa su nulla, va lontano, forse senza vedere niente. O viceversa è rivolto all’interno, a scrutare ciò che di confuso, di incomprensibile, si muove al fondo di sé. Immagina, o riflette: quello che ha letto la fa sognare oppure le ha suscitato apprensioni, sul presente o sul futuro, o le ricorda qualcosa di passato, non si sa. Non si capisce nemmeno di che tipo sia il libro, come gli altri che ritroviamo in molte altre opere dell’autore e che oltre a caratterizzare la scena e il loro possessore (molti sono aperti, ma raramente letti, a differenza dei volumoni che nello stesso periodo leggono alcune figure di Rembrandt o quella in mostra del suo amico e sodale della giovinezza Jan Lievens) servono anche a esibire la maestria del pittore, la sua abilità nel rappresentare, negli angoli, tra o sulle pagine appena aperte o, come qui, spalancate, le sfumature della luce morbida, dai toni caldi, le piccole ombreggiature dipinte sovrapponendo numerose velature alla maniera dei fiamminghi. La bambina è concentrata su ciò che sta facendo. “Stai lì buona”, le ha detto la donna, probabilmente la mamma. “Attenta a non far spegnere la candela e a non scottarti! E soprattutto non sporcare con la cera fusa il vestitino!” Sono entrambe ben vestite, senza lusso ma con buone stoffe; sono ben coperte, e quindi in casa caldo non fa: non sembra di essere in un paese mediterraneo, o forse è inverno: oltre alle due figure non ci viene detto niente dell’ambiente, a parte un cesto in vimini che proietta la sua ombra sul muro... Non si può dedurre molto altro. Con sicurezza, niente.

Poi però mi accosto al pannello illustrativo e leggo che la scena rappresenta l’Educazione della Vergine, anche se nulla nel quadro permette di decidere in questo senso, tanto più se si confronta la resa del soggetto con altre opere del 600 e 700 quando il tema acquistò una certa notorietà (Rubens, Jouvenet, Reni, Velásquez, Maratti, Tiepolo). Tuttavia è innegabile che qualcosa di incantato, o di sacrale, ne promani. Come per Caravaggio, “una delle caratteristiche più sorprendenti di La Tour – scrive Gail Feigenbaum nel catalogo – è la capacità di rimanere in equilibrio tra il sacro e il profano”. Se accettiamo questo titolo, cambia tutto, o quasi. Ci sono altri quadri che mostrano scene di interni, e intime, che potrebbero essere rappresentazioni realistiche ma la cui lettura religiosa è autorizzata da qualche indizio, come la cosiddetta Adorazione dei pastori, bellissima, e quindi anche per quest’opera la lettura non è del tutto arbitraria nonostante l’assenza di indizi espliciti.

Torniamo allora alla scena adattandola a questo titolo. Le due figure si stagliano in uno spazio quasi o nulla definito, affinché niente possa sviare l’attenzione, la concentrazione assoluta dello spettatore, simile a quella della bambina, e la sua meditazione, come quella della donna (forse sua madre, Sant’Anna, che però avrebbe dovuto essere molto più anziana): nessuno sfarzo, nessun artificio, se non quello supremo che nasconde se stesso. L’ambiente stesso è quasi sparito, a parte il basso bracciolo di una sedia (o è solo il bordo?), la cesta posata su un tavolo di cui si scorge il profilo sul margine sinistro dietro la bambina, e la sua ombra proiettata sul muro (l’unica ombra disegnata, a parte quelle del panneggio e del libro e quella dell’abito di Anna, se è lei, che si apre sul grembo che a Maria ha dato vita e che ora assolve a un compito insieme gravoso e glorioso, educare chi è più di te, la cui nascita è già un miracolo, la cui presenza dà un senso a tutto ciò che sei stata, anche alla pena, alla vergogna di non aver partorito se non in tardissima età, e già ti giustifica e redime.

Se la paragoniamo alle altre versioni della stessa scena, questa di La Tour si distingue, come per quasi tutte le sue altre opere di oggetto religioso, per l’assenza di qualsiasi tratto ultramondano o numinoso e di ornamenti sfarzosi, e soprattutto per l’essenzialità non inficiata da nessun aneddoto (come sarà in Vermeer), tanto che sembra colta in un tempo sospeso, quasi assoluto, un tempo fuori dal tempo.

Lo sguardo dello spettatore è focalizzato sulla due figure in primo piano, che occupano tutta le tela, e sulla loro relazione, con un procedimento tipico di Caravaggio, che l’ha reso noto e ne ha dato la versione più pregnante e di maggiore impatto, se non l’ha proprio inventato: la “drammatizzazione del primo piano”, come l’ha chiamata Irving Lavin nel suo Caravaggio e La Tour. In questa versione, la donna, che è la stessa dell’Adorazione dei pastori e di Sant’Anna con Gesù bambino di Toronto, con quel viso tondo e un accenno di doppio mento, si direbbe ipertiroideo, ha uno sguardo mite, sereno, un po’ ebete; mentre nella versione del Louvre (figura 3) gli occhi appena socchiusi che negano di vedere il suo sguardo sembrano proiettare sulla postura intera una grande tristezza, ma serena, composta, quasi che la donna fosse in preda a una lunga stanchezza che finalmente può manifestarsi ed essere così alleviata, o come se viceversa presagisse eventi futuri tragici, un destino grandioso e terribile da cui lei sarebbe però esclusa.

 


È il momento dopo la lettura, l’interruzione. Quello in cui a volte subentra come una dolce spossatezza, o il sollievo dell’abbandono.

Mi piacerebbe leggere la pagina aperta. Qualcuno ha decifrato le scritte? Non credo sia possibile. Si può solo immaginarle, sognarle, come faccio io ora che interrompo un attimo di scrivere, dando la forma dell’alfabeto delle mie fantasie ai segni tracciati sulla sua chiara superficie, che possono essere solo quelli del pennello e della materia, traducendo in parole ciò che è solo intraducibile pittura, e riempiendo di altre figure il riquadro nel basso della pagina, al cui interno forse un’immagine c’è, una miniatura, ma indecifrabile, affondata nel bianco. Non potendo leggerla, la scrivo.

 


La bambina è di profilo al pari di tanti altri bambini nelle opere del maestro lorenese, ha un viso tondo, le labbra piene e disegnate come con un rossetto, lunghi capelli lisci, percorsi solo da un riflesso della candela, un abitino viola, pure liscio, ravvivato da una fusciacca rossa. La mano che regge la candela, la sinistra, è del suo stesso colore, o pallore, come quello del viso, a parte la punta del pollice, scura, forse sporca, come due unghie di quella, traslucida, quasi alabastrina, che scherma la fiamma (come quelle di Gesù bambino in San Giuseppe falegname, che peraltro le somiglia molto). Il viso è immobile, inespressivo nel complesso, senza un tratto che lo caratterizzi al di là della linea di contorno che risalta netta, disegnata solo dal contrasto con lo sfondo scuro che è quello, appena velato, della preparazione della tela; niente intacca la pelle luminosa, l’incarnato liscio, uniforme, idealizzato, lontano da ogni preoccupazione realistica come molti altri dell’opera più tarda del pittore, e come molti abiti del resto, dai panneggi ridotti all’essenziale, spesso privi, per la scelta di materiali lisci e rigidi, come il cuoio, il ferro delle corazze, o panni di lana morbidi ma pesanti, che cadono verso terra senza assecondare le forme dei corpi quasi irrigidendoli in posture immobilizzate anche se in genere il panno è dipinto con una tattilità che vien voglia di carezzare.

La postura della bambina, della Vergine bambina, è ferma ma non rigida: composta, giudiziosa. L’unica tensione è quella dell’anulare della sinistra, mentre il resto del corpo sembra quasi rilassato, anche la mano che si curva morbidamente a schermare la candela e a proteggere la fiamma senza bruciarsi evitando che si spenga, come se quel compito la assorbisse tutta e la identificasse: ipotesi peraltro ragionevole se si considera che sarà lei a portare la luce della salvezza nel mondo, dando appunto alla luce il Salvatore.

È solo alla candela che sembra rivolgersi il suo sguardo, ma forse, mentre guarda la fiamma nella sua testolina si stanno agitando le parole che ha appena ascoltato. Chissà cosa ha capito, così piccola. Eppure qualcosa le deve essere arrivato, forse la semplice storia, o un pensiero ancora non formato, una certezza oscura, dai confini indefiniti, per darle quell’aria che ora, a ben guardare, sembra compunta, pensosa. La lettura non è ancora finita, se nessun movimento sembra annunciarsi. La luce illumina la cesta, che probabilmente allude a un’altra parte fondamentale dell’educazione che le viene impartita, il cucito, che non a caso sostituisce il libro in un’altra versione di questo tema, ora a Venezia, di proprietà dell’Ordine di Malta. Lei però è la candela che continua a fissare, da cui tutta la luce si irradia.

L’insistenza sulle candele nelle opere di La Tour e di alcuni suoi contemporanei non deve meravigliare in un’epoca in cui nelle case, specie quelle dei poveri, il buio regnava sovrano. Ci sarebbe semmai da riflettere sul fatto che fosse così scarsa nella pittura precedente, ma non poi tanto, se si tiene conto che la luce vi giocava un altro ruolo, formale e simbolico. Anche qui per il pittore è importante, più che per il richiamo realistico, per la luminosità incerta e variabile che diffonde, per le ombre che proietta, per i dettagli che permette di mettere in rilievo o di fare affiorare, e insieme per ciò che nasconde, e che a volte possiamo intuire o immaginare, ma per il resto è confinato nel buio, che pian piano ineluttabilmente si estenderà, perché mentre la candela illumina, la cera si consuma; più fa luce, più l’ombra avanza e il buio si avvicina. E però, penso poi, se l’ombra nasconde, custodisce anche, e protegge, come San Giuseppe, “ombra” di Dio Padre, il Figlio non suo.

Allora mi distolgo dalle figure e guardo il buio da cui emergono, le sfumature dell’ombra, in cui mi allontano anch’io e relego tutte le ipotesi che si affacciano alla mia fantasia e offuscano il mio sguardo, la teologia, i simboli, le storie dell’infanzia di Maria e tutto il loro superbo corteo, e tornato al quadro vedo solo una donna stanca, e una bambina intenta al suo compito elementare, attenta a fare bene quello che le è stato chiesto, solo quello, che non è poco, e però basta; che è niente, e però è tutto.

 

 

La Tour. L’Europa della luce, Palazzo Reale, Milano, apertura prorogata fino al 27 settembre 2020, a cura di Francesca Cappelletti e Thomas Clement Salomon, che hanno curato anche il sontuoso catalogo, edito da Skira, con numerosi saggi e belle schede per ogni opera in mostra, a cui sono debitore di gran parte di ciò che ho scritto.

 



19/12/20

Cervelli e lumache (uno spunto per il cenone di Natale o Capodanno)

 

Faccio spurgare il cervello
come le lumache
nella segatura
poi, come le lumache,
me lo mangio.
 
 
(Una delle 3 o 4 poesie, diciamo così, scritte negli ulti 50'anni. Questa ne avrà una trentina, più o meno)
 
 

15/12/20

Fare buio al buio. Su un libro di Francesca Rigotti

Neanche il buio è più quello di una volta. Se l’illuminismo ha vinto molte battaglie ma a quanto pare ha perso la guerra, l’illuminazione ha stravinto su tutti i fronti. “Ogni cosa è illuminata”, nel senso che più niente sfugge alla luce. Le cose, le case, le strade, le campagne, il cielo. Si cerca la luce per sentirsi sicuri, per esorcizzare la paura e la morte. “Infuria, infuria contro il morire della luce”, diceva Dylan Thomas. Ma il buio non è solo minaccia, è anche protezione, riposo, possibilità di riflettere, di isolarsi, di negarsi. Il buio è anche ciò che custodisce il segreto, che nasconde e accoglie; è la paura, ma anche, a volte, il rifugio; il pericolo, la minaccia e la difesa; l’aggressione e l’intimità, degli amanti e di ciascuno con se stesso...

Ma negarsi alla luce diventa sempre più difficile. Sottrarsi alla vista, cercare zone d’ombra, angoli bui, è già un atto sospetto di per sé. Di noi, tutto deve essere visibile e tenuto sotto controllo, solo così possiamo essere protetti. E solo protetti in ogni momento della giornata (del giorno che include la notte, come la donna è inclusa nell’uomo e non viceversa) e da ogni parte, possiamo sentirci non minacciati, privi di ansie, sicuri. Solo se controllati, liberi, quindi. Niente deve restare nascosto. Se ti nascondi sei pericoloso, sei tu una minaccia.

Allora si deve portare tutto alla luce. Ma “povera è la vita di chi vende la libertà, il silenzio e il buio per egoismo e paura” (p. 106), scrive giustamente Francesca Rigotti (filosofa, metaforologa, docente dell'Università della Svizzera italiana dopo avere insegnato presso l'Università di Göttingen, autrice di numerosi libri, da ultimo De senectute, Einaudi 2018 e Migranti per caso, Cortina 2019), nel suo ultimo vorrei dire luminoso libretto, Buio (Il Mulino, 2020, p. 135), se il suo stesso contenuto non rendesse ancor più cauti del solito nella scelta delle immagini, che non sono mai innocenti.

 


“Il buio è bello, lo sappiamo tutti” (p. 9). Per trovare il buio si intraprendono lunghi viaggi, verso i monti più inaccessibili, i deserti, il mare aperto, con il cielo stellato sopra di noi, quella minuscola porzione di universo che già ci sembra infinita, inimmaginabile, e l’oscurità tutto attorno, con i suoi rumori, le sue voci, diverse da quelle diurne, finalmente udibili, fasciate di silenzio, nette, singolari e pur sempre misteriose. E anche così, a volte non basta, si cerca un buio ancora più scuro, grotte, foreste impenetrabili, vasche di deprivazione sensoriale, dove l’assenza di stimoli si traduce nel beneficio di un grandissimo rilassamento, una specie di nirvana termico. Chi può esce persino dall’atmosfera, nella notte delle notti, nell’oscurità della materia, nel regno inavvertibile della materia oscura.

 

Nel buio totale si perde l’orientamento, e a volte persino l’equilibrio; non si ha più la percezione del proprio corpo, si è insieme pesanti e smaterializzati, la pelle è come se si volatilizzasse, ma in compenso si percepiscono gli organi interni, alcuni quanto meno; invece del volume del corpo si sentono i suoi rumori, i liquidi che scorrono, il cuore che batte, l’aria che entra e esce dai polmoni che si dilatano e restringono, le tempie che pulsano, il sangue che formicola alle estremità. È un buon esercizio. Sospendere tutto, cambiare prospettiva, ripensare diversamente. Il buio si addice alla meditazione. E molti filosofi e poeti lo hanno infatti notato. La parola stessa “non è soltanto sinonimo di luce, ma anche di buio; e non esiste solo il canto notturno, nella notte, ma anche il canto della notte” (p. 93). E lo stesso vale per il pensiero.

Per questo ne abbiamo bisogno, come del silenzio, al quale pure Francesca Rigotti ha dedicato un volumetto (Metafore del silenzio. Il silenzio per immagini, Mimesis 2013). Piuttosto che niente, a volte chiudiamo gli occhi, per provare a dormire nella luce, per concentrarci, per toglierci dal mondo, almeno per un po’.

Ricordo un’opera di una ventina di anni fa alla Biennale di Venezia che mi ha molto turbato: oltre una tenda nera, si percorreva un lungo corridoio non illuminato pieno di angoli, che diventava man mano più buio, finché non si sbucava in uno stanzino con un’immagine sulla parete di fondo, o forse era solo una scritta, che informava che il tempo del percorso, una ventina di secondi se ricordo bene, era quello durante il quale il cervello di una testa decapitata, e forse gli occhi e gli altri sensi, continuavano a essere attivi, prima di spegnersi progressivamente, per sempre. Una soluzione poco consigliabile, però.

Ci sono tanti aspetti positivi del buio, eppure normalmente ad esso si associa tutto quanto vi è di negativo: il male, l’ignoranza, la paura, l’errore, la superstizione, la morte e l’oltremorte, con alcune ottimistiche eccezioni. Pur essendo le tenebre accreditate da prestigiose tradizioni di precedere il mondo e la luce, raramente vengono però ritenute una sostanza a sé, autonoma e anche positiva, almeno in parte, come illustra benissimo Francesca Rigotti con una dovizia di esempi scelti soprattutto tra i testi fondativi della cultura occidentale, la Bibbia e Omero, fino a Camilleri (mi scuso per l’accostamento), da cui poi si diramano brevi incursioni, quasi dei raid, che di essi hanno tutta la rapidità e l’efficacia, in tutta la nostra storia culturale, e li articola gli uni agli altri, li contrappone o li mette in reciproca tensione, in urto e in frizione. Per fare luce senza togliere nulla al buio. Per fare buio sul buio.

 

Il buio non viene considerato niente in sé, è solo il contrario della luce; la sua comprensione e valutazione ne dipendono in tutto e per tutto: se qualcosa di esso viene detto o visto, è solo alla luce della luce. Le parole non ingannano. Cioè, ingannano, ma, a prestarvi attenzione, dicono anche l’inganno. Cosa che Francesca Rigotti sa fare con sapienza e acume. Non sopravvalutare la lettera, ma nemmeno trascurarla; la metafora dice quel che dice, non solo quanto d’altro significa o implica. Non è tanto la letteralizzazione delle metafore, è la loro stratificazione, la loro storia, il loro intreccio, e il modo in cui alcune di loro, specie quelle che danno luogo alle coppie concettuali di cui è intessuta la cultura occidentale, sono diventate lettera, che contiene, magari nascosta, sepolta nell’oscurità del tempo e dell’uso, la complessità delle proprie origini e parentele. Come quella che lega bianco e nero nell’alto tedesco (blach e blanck) e nel medio inglese (blaek e blank) per dire rispettivamente il nero “luminoso” e il bianco “brillante”, già evidenziata anche da Pastoureau nel suo Nero (trad. it. Ponte alle grazie, 2013).

Francesca Rigotti analizza le coppie concettuali e le associazioni che ne derivano, le catene analogiche che ne dipartono (buio-notte-donna-errore-male/luce-giorno-uomo-verità-bene) che condizionano il nostro modo di pensare e di costruire la realtà facendoci apparire scontato, “naturale”, ciò che invece è pesantemente condizionato. Per districare queste reti, non abbozza tuttavia una storia culturale del buio, e nemmeno sociale, come invece ha fatto Nina Edwards con la sua Storia del buio, recensito su doppiozero da Michela Dall’Aglio, ma ricostruisce l’area semantica e la costellazione (ahi!) concettuale che peraltro nella storia dei termini che le definiscono in buona parte si radicano. Da sola la luce, come tutti i corni positivi di ogni coppia, possiamo azzardare a pensarla: e come altro nome della verità è ciò che la filosofia da sempre cerca di fare; la tenebra no. Essa è la negazione, la perdita, l’assenza della luce. Da solo, il buio è im-pensabile: in-visibile, forse addirittura ir-reale. Il prefisso negativo dice già tutto. Prima della luce, cioè prima del mondo, prima della creazione, dicono le religioni, c’erano le tenebre; ma queste tenebre non erano niente, perché niente c’era: dunque esse stesse non esistevano. Solo dopo che la luce fu, ci furono anche le tenebre. Separate da essa, da essa estratte, rese differenti, opposte, e già subordinate. Già vinte. Il male che in esse si incarna è quello che si oppone alla luce: e non a caso nella religione ebraico-cristiana il portatore e signore del buio è l’angelo più luminoso caduto, Lucifero. Colui che porta la luce; ma non la è. Che voleva esserla e ne è stato escluso. Altrimenti dovremmo ammettere (ipostatizzare) un male che ha potuto essere prima del bene, o accanto, assieme, come diceva il profeta Mani la cui immensa opera non a caso è stata del tutto cancellata (ricacciata nel buio), e pertanto ad esso almeno pari, se non superiore. Ciò che è chiaramente impossibile. Lo vedono tutti. Provare a pensare il buio da solo è uno sforzo immane quanto vano. Sarebbe pensare l’impensabile, dicevo. Alcuni ritengono che per questo è uno sforzo da rigettare, dannoso più ancora che inutile; per altri invece l’unico pensare che valga davvero la pena è proprio quello che con l’impensabile si misura. Che si immerge nel buio e vi resta senza rifuggirlo. Anche se questo corrisponde, in più di un senso, al morire. (Pensare sarebbe dunque stare nella morte senza essere (ancora) morti?)

Francesca Rigotti ha ben presente queste cose, ma sceglie di imboccare un’altra direzione, quella di dare sostanza al buio ponendolo allo stesso livello della luce senza con questo volerlo separare da essa e anzi mostrandone la pari dignità e la complementarietà, come nella volta stellata, “che tiene insieme il buio e la luce... che si alternano nelle posizioni attore/sfondo in relazione alla prospettiva di chi guarda” (p. 113 ). E lo fa cominciando a pensare ciò che in esso vi è di positivo andando a rintracciarne semi e ricorrenze nella storia della cultura occidentale, attraverso esemplificazioni di grande spessore e fascino, con una scrittura limpida e varia, e a volte (giustamente, dato che si tratta anche di decostruire pregiudizi diventati abitudini di pensiero consolidate e irriflesse) persino maliziosa, con un’arguzia che purtroppo non è molto frequentata dai filosofi, forse per il timore di sminuire il lor pensiero, di apparire poco seri. Il pensatore non ride. A ridere è la servetta tracia, quell’oca giuliva.

Ogni cosa è un buon motivo per essere tristi. (Ma questo non c’entra: è finito qui per caso.)

 

Il buio preso a sé è qualcosa che ci sfugge, è l’estraneità che resta sempre tale. Come la luce più intensa, peraltro, che non si può fissare senza accecarsi, cioè senza sprofondare nel buio, che ci impedisce di guardare il volto delle cose e degli esseri umani. Hanno la stessa ambivalenza, come sapevano bene gli antichi, che alla cecità associavano doni di preveggenza, come per Tiresia, o di visione, come per Omero, cioè di una vista oltre la vista. Dice Lévinas: “Il viso entra nel nostro mondo avanzando da una sfera assolutamente estranea, ossia, precisamente, da un assoluto, che è poi il nome stesso dell’estraneità più profonda” (devo la citazione a Enrico Manera: grazie!). L’estraneità più assoluta è ciò che si manifesta nella sua massima evidenza restando incomprensibile; è l’incomprensibile, l’incommensurabile di tutto ciò che ci circonda dandosi a vedere nella luce più abbagliante, e lasciandoci al contempo al buio più completo. Che è come dire che viviamo letteralmente immersi nell’assoluto, circondati, e a contatto di miriadi di assoluti, destinati a restare tali, e che tuttavia si offrono a noi nella loro distanza, ci disorientano, ci interpellano e, più ancora, ci sfiorano. Ci scuotono e ci accarezzano.

 

Resta il fatto che, a ben pensarci quindi (a ben guardare), restiamo all’oscuro di tutto. Non sappiamo niente. Sappiamo quel che sappiamo. E quel che sappiamo è niente. Ma non dobbiamo spaventarci. Non del tutto, quantomeno. Perché essere all’oscuro è un grande dono che ci è stato fatto: cercare di capire portando un po’ di luce ci tiene occupati, ci dà una specie di scopo. O meglio: la possibilità che noi ci diamo un compito. Il più alto dicono alcuni. Esagerando. Portare un po’ di luce non elimina il buio. Da ogni parte, attorno, il buio permane. Però, facendolo, creiamo ombre, sfumiamo i suoi orli, smangiucchiamo i margini a noi più prossimi, come si fa con le unghie. E con la stessa soddisfazione (e dolore, quando esageriamo, e mordiamo la pelle, la carne: allora esce il sangue, e questo, anche questo, ci fa sentire vivi). Però anche allora, sempre, ovunque si spinge lo sguardo, il buio resta infinito.

E meno male. Non tutto è perduto, allora. Come dice l’altro Dylan, Bob, “It’s not dark yet, but it’s getting there”. Anche se non è ancora qui, il buio sta arrivando. Sempre imminente. L’intonazione è libera.

 


11/12/20

Il futuro anteriore (da Racconti immobili) con appendice 2020


Amo il futuro anteriore, trovo bello che ci sia questa possibilità di immaginarsi, e quindi in qualche modo già di essere, postumi a se stessi; la possibilità di pensare già da ora come compiuto qualcosa che è ancora in atto o che addirittura non ha ancora conosciuto l’inizio; di poter esprimere non l’intenzione o la speranza o la previsione solo in rarissimi casi certa come nel futuro semplice, ma l’inesorabilità del già accaduto, e il compiacimento che lo sia, col sigillo del passato, per ciò che ancora non lo è, per ciò che ancora contiene tutte le possibilità della vita e non la definitività della morte. “Avrò fatto”, “sarò stato”, “avrò amato e sarò stato amato” comprendono la consolazione dell’opera e dell’esistenza e insieme la gioia di saperle ancora in corso, e più ancora quella che si proverà nel viverle. C’è naturalmente, nella parola “consolazione”, un che di malinconico, ma si tratta di una malinconia dolce, quella di chi non si fa troppe illusioni sul tempo e sa che ogni cosa deve finire, ma che invece di misurare ciascuna dalla chiusura ne gusta ogni volta il percorso.

Di questo tempo amo anche l’inesorabilità, quando cioè enuncia la sofferenza del negativo come una pena che si deve ancora tutta scontare, che niente sembra poter evitare e che nessuna fine potrà cancellare o redimere. Anche in questo caso esprime una condizione di postumità, ma rispetto a una vita mai vissuta, il rimpianto già postumo di chi non è mai nato mentre ne aveva il costante desiderio: presa alla lettera, la mortificazione. “Non avrò fatto” significherà allora il fallimento di colui che avrebbe voluto e forse anche potuto fare: la condanna; e “avrò sofferto”, “non avrò fatto che soffrire”: la desolazione.


***

Si tratta, si sarà trattato, semplicemente di fare qualcosa, una cosa dopo l’altra, minuto dopo minuto, ora dopo ora, fino a sera, a notte, e poi dormire, e il giorno dopo lo stesso, e poi ancora, finché una buona volta non si farà, non si sarà fatto, più niente, più niente sarà stato fatto.

2020

03/12/20

Non vedersi non vedere


È notte fonda e, contrariamente alla moglie che è tanto stanca da non riuscire a prenderlo pur essendone schiacciata, non ha ancora sonno. Legge. Se non legge non si addormenta, secondo una perversione ormai inveterata: gli sembra che la testa necessiti sempre di un supplemento di attività, prima di cedere. Altrimenti si troverebbe spaesato di fronte a un vuoto impossibile da colmare, sul lato faticoso della quiete. Leggendo, invece, si dimentica nelle parole, il corpo si rilassa e, tutte le difese allentate, il sonno può cominciare a invaderlo, dai piedi su su fino alla testa ormai popolata. Non cede subito però, vuole almeno finire il capitolo, non importa con quale profitto. Sa che le prime avvisaglie non contano, quindi resiste: solo quando il libro gli cadrà di mano sarà pronto e spegnerà la luce. Reprime gli sbadigli che con ritmo sempre più serrato lo sorprendono, anche per non disturbare la moglie che si avvia al primo sonno, così leggero in lei. Poi gliene sfugge uno secco e piuttosto rumoroso. Più che uno sbadiglio vero e proprio è l’effetto, e il concentrato, di tutti quelli che finora ha represso, quasi un rantolo spezzato, la loro vendetta. Subito la moglie si sveglia, si innervosisce e perde il sonno: ma insomma, un’altra volta! La coscienza della colpa e l’agitazione della moglie che egli assume e amplifica come a volerne liberare lei, a questo punto, fanno perdere il sonno anche a lui, che proprio in quel momento stava per posare il libro e spegnere la luce. La fuga dello sbadiglio infatti non era che l’atto finale della sua resa. Tanto più gli passa poi il sonno, quanto più si irrigidisce e, tardivamente, si controlla per non provocare altri rumori. Così, attonito e ansioso, osserva l’evolversi dei pensieri che la colpa ha innescato, fino a che, presto, si esauriscono.

Allora chiede, inutilmente, che qualche altro venga come un buon samaritano a visitarlo; quindi osserva la sua vana attesa e comincia a descriverla. È ancora, tanto è normale questa descrizione, una riproduzione del vuoto, ma proprio perché si tratta insieme di un vuoto, di un’azione e di un’attesa, forse, ecco che si fa strada qualche storia che, sempre invano, aveva inseguito durante il giorno, o se non quella, un’altra, magari migliore. Difficile giudicare però: è troppo eccitato! La segue sorpreso e per un po’ si lascia trascinare dal corso delle parole finalmente sbloccate, ripromettendosi di alzarsi non appena la moglie si è addormentata a fondo e di trascriverla. La segue ancora per un po’ per sicurezza, non si sa mai, poi ritorna alla frase iniziale, la più importante, per memorizzarla parola per parola, e su qualche particolare, per specificarlo o apportare improbabili migliorie, ma quando si alza, naturalmente, o tutto è svanito o ha perso rilevanza. Alcune scaramucce per rinfrescare il ricordo finiscono di svegliarlo, ma, a dispetto di uno strascico di desiderio che persiste vacuo, resta ancora al tavolo solo per inerzia e prostrazione: anche di leggere gli è passata la voglia, o la forza. Si guarda attorno: il tavolo, i libri, i quadri, il soffitto, i fogli, la stilo, per un ultimo, penoso, tentativo, e decide di tornare a letto. Lo fa con circospezione, a tentoni nel buio, attento a non svegliare di nuovo, e questa volta irrimediabilmente, la moglie, che già per l’eco negativa, per dir così, dei rumori soffocati dell’accostamento cambia posizione sbuffando nel sonno. Anche lui, sul materasso rigido e per fortuna silenzioso a causa dell’asse sottostante, cambia spesso, ma delicatamente, posizione, alla ricerca di quella giusta, ma nessuna lo è, dato che il sonno è definitivamente scomparso. Torna a irrigidirsi, supino, ad occhi aperti, scacciando parole e mezze frasi alle quali non intende dare più credito. Non vuole più ascoltarsi né ascoltare: guarda nel buio, e non vede, il soffitto, e sente che anche il soffitto lo guarda, a sua volta senza vederlo. Meno male. Chiude gli occhi per non vedersi non vedere. È disperato. Sorride e si addormenta.

01/12/20

Ragazze e ragazzi entrano in carrozza.

 


Sono entrate in carrozza dodici ragazzine sui 14-15 anni (le ho contate). Mi sono sfilate accanto, una dopo l’altra, chiassose senza esagerare, vivaci, come giusto, qualcuna in silenzio, ma non triste. Tutte brutte.

È rilevante? No. Eppure sul momento mi è sembrato che lo fosse. Che significasse qualcosa di preciso, o fosse un indizio, nemmeno troppo difficile da interpretare: che fossero, tutte, l’esatto prodotto della campagna dove sono salite, della periferia. Come se da lì, dalla sua storia recente e remota, non potesse venire altro. Perché così era stata e era la vita, da generazioni.

I ragazzi che sono passato dopo non li ho contati. Non ho prestato loro attenzione e quindi non ho notato se erano brutti anche loro. Meno delle ragazze, in ogni caso. Più atletici, più vitali nei movimenti, se non nelle parole, più disinvolti, mi è parso. Un po’. Ma non mi importava.

A breve saranno le ragazze ad alzare la voce. A decidere. A dare l’indirizzo, dettare i modi. Il tono. Per comandare. Loro alzeranno le mani. Per afferrare, o offendere, alcuni. Il resto per arrendersi. Nessuna parità. Non se ne parla neanche.

A volte l’inferiore reagirà con violenza. Oppure si terrà dentro tutto. A breve, a lungo o per sempre. Sfogandosi in qualche modo, quasi sempre sbagliato.

Non so perché mi hanno suscitato questo piccolo delirio. E sì che stavo bene. E lo sto ancora. Cosa sarà successo? Niente. Reagisco anch’io in modo sbagliato. Magari a quello che stavo leggendo.

Ci penso un po’. Poi più a niente.

All’arrivo, nel sottopassaggio che portava all’altro binario, alla coincidenza, mi sono parse tutte, in qualche modo, belle.

I ragazzi, tutti insignificanti.

Come me. Mi sono detto allegro e baldanzoso.