29/09/17

Posso dirlo? 2 – non ricordo cosa mi era preso quel giorno


         e beh sì, certo, è un sintomo, c'è dentro, e attorno (ma non sotto, non sia mai...) qualcosa di importante, di grave anche, e tutti, o quasi, dicono ma insomma, vestite in acqua..., e l'altro eh beh... anche le suore, e certo!, e le signore di inizio 900, ma anche i signori se è per questo..., e poi l'altra dice, con faccia ironica e piuttosto schifata: esibiscono la merce, io no invece, mi rifiuto, mica mi lascio degradare io, e vado fiera della mia bardatura (non dice questa parola, l'altra non la ricordo), e nessuno le risponde, giusto, giusto, ma la tua merce, anche a esibirla..., perché non è corretto, non sta bene, e del resto certe pance, certe cubature di adipe, tese come tamburi o bitorzolute, si può dire o no, e vene varicose grosse come canne da fucile, e non meno micidiali, e tutti quei tatuaggi orrendi, e quelle scritte che uno deve leggerle anche se non vuole, vomitevoli (è un giudizio letterario, quindi mi concedo di esprimerlo), e più tu mi dici di no e più a me vien voglia di farlo, e te lo sbatto in faccia così impari... e i giornali e telegiornali e commentatori e teologi e politici, sì, anche loro, che possono dire la loro anche su questo, devono nazi![1], è il loro mestiere, perché il loro è un mestiere..., e il Corriere in prima pagina e la Repubblica, e non mi esprimo sul cosiddetto Giornale perché quello non so, posso dirlo cosa mi suscita?, no, meglio di no, e tutti per strada, nei bar, nelle sale da pranzo... in spiaggia non so, non ci vado e non ci voglio andare... e insomma, un po' le palle, chiedo scusa, me le hanno rotte... un po', eh... aspetto solo che dica qualcosa anche Grillo, o l'ha già detta?, se no paziento ancora, non è la pazienza che mi manca, e poi quando l'ha fatto, se mando a fanculo tutti, sì, allora sono proprio tutti... mi spiace tanto, non è da me, lo so... chiedo scusa, però... posso dirlo?, perché se non posso, parola torna 'ndré... ritiro tutto, vi voglio bene e ubriacatevi di sciroppo tutti quanti

  20 agosto ‘16


[1] E’ un refuso, doveva esse “anzi”, ma mi pace e allora lo lascio.
 
 
 

27/09/17

Stile? (un appunto provvisorio)



… che poi è verissimo che quel che conta, lo stile o comunque lo si voglia chiamare, è se si ha qualcosa da dire: si tratta di vedere che cosa è la cosa che, o su cui si ha da dire. Lo stato del mondo o dell’umanità; cosa è bene e cosa è male; o lo stato di quel tipo o oggetto o relazione in quel dato momento e luogo, e cosa pensa o fa, o su una papera, o un albero o un sasso, quello lì proprio allora, o prima, o cosa prevede di fare, o altro, dopo.
“Qualcosa da dire” per me e buona parte della mia generazione suona tanto “messaggio”, “idea di fondo”, “contenuto”. E lo stesso suona il discorso che misura il “cosa” da dire dal suo peso, di qualsiasi tipo esso sia: politico, morale, filosofico ecc.
Se qualcuno è in grado di parlarne in modo che non prevalga sul resto, ha tutta la mia ammirazione. Ma è così difficile… impossibile, o quasi (e il “quasi” lo aggiungo per non cadere nello stesso difetto che qui segnalo). Perché quel che conta non è ciò che uno sa e ha da dire (da insegnare: perché trasmettere è insegnare), ma quanto sa imparare, quanto è disposto a imparare, dagli altri, dal mondo, ma anche da ciò che lui stesso è, e fa, e diviene, senza saperlo (senza saperlo prima, una volta per sempre): quanto e come, nei modi in cui già si trova immerso ancor prima di cominciare, in quelli che gli sono offerti e che lui stesso scopre, inventa e tenta. Come, per esempio, scrivere. (Cosa e come è importante, ma non qui.)

21/09/17

Su una lettera di Kierkegaard (senza tener conto del resto che ha scritto)



C’è, in un romanzo peraltro deludente, e anzi che mi ha fatto spesso incazzare (* si può leggere anche dopo), incentrato sulla vita di Kierkegaard (Stig Dalager, L’uomo dell’istante. Un romanzo su Søren Kierkegaard, Trad. it. I. Basso, 2016, Iperborea), anche se ovviamente in Danimarca ha vinto premi importanti (e ti credo!), e forse anche altrove, una lettera che parla dell’amore.  Una lettera d’amore: perché se uno scrive una lettera che parla dell’amore, in realtà è una lettera d’amore che sta scrivendo, che lo sappia o meno torto che non farò di certo al suo autore. La riproduco qui in fotografia.


È una lettera molto bella ma non voglio parlarne per ciò che dice dell’amore (ne ho piene le palle di leggere su questo argomento, e non intendo infierire sul lettore accrescendo il ciarpame, perché di meglio io non saprei fare), e tantomeno analizzarla all’interno della concezione che ne offre il filosofo danese, su cui sono state scritte tonnellate di carta, anche ipotizzando una grammatura molto bassa, quanto per come mi sembra sia stata scritta, per alcuni meccanismi che ho avuto l’impressione di scorgere… La lettera infatti è un esempio eccellente di dove possano portare l’esaltazione e le parole a cui si lascia briglia sciolta, cioè la possibilità che hanno le parole, paradossale per un filosofo così sottile e attento a ogni sfumatura e implicazione di ciò che scrive, di andare per proprio conto una volta imboccata una strada (una direzione) senza altro controllo e solo in perfetta sottomissione e aderenza alla loro logica del momento, parzialissima e insieme assoluta, delirante di desiderio e volontà di distinzione (di personalizzazione: di unica, inconfondibile individualità: io sono così; io, e io solo), che si autoalimentano, una dopo l’altra, in costante rilancio che innesca la successiva con impeto inarrestabile sempre più intenso. Cosa a cui peraltro ambisce quasi sempre chiunque scrive, perché comporta insieme una grande forza e un’estrema arrendevolezza, resistenza e cedimento intrecciati, indiscernibili (per la lucidità c’è sempre tempo).
E questa intensità trascina anche chi legge, finché non alza la testa, tira il fiato stiracchiandosi per dare sollievo al collo e alle sue povere, deboli spalle, e si dice: alt! un momento… pensiamoci un po’ sopra, proviamo a ragionare… È così, ha ragione, pensa , l’amore è questo, è proprio così che funziona, è così che vogliamo essere, accettarlo, coltivarlo, servirlo. Però…
Però no: in realtà si vuol solo far colpo (sedurre, anche quando si pongono degli ostacoli, quando si vuole attrarre e al contempo respingere, allontanare, negarsi, sottrarsi, fuggire, come farà anche un altro K.), si stanno mettendo in atto delle strategie lucidissime anche se a volte involontarie, almeno in quel momento, e insieme si vuole credere a ciò che per sedurre si dice. E magari si è convinti di crederci per davvero. Gli scrupoli a posteriori, i ‘se’ e i ‘ma’, i ‘però avrei potuto’, gli ‘era meglio se’ ecc., derivano da questo: non da un eccesso di buona coscienza e delicatezza (troppo bello!, è ancora debitore della stessa logica), ma dal senso di colpa, dalla cattiva coscienza, dalla consapevolezza, in alcuni acutissima, della falsità, perché è impossibile sedurre, volere far colpo, e essere sinceri, immacolati. Allora si rilanciano le parole, ci si abbandona, smemorati, fiduciosi, alla loro corrente, e con esse, o subito dopo, si cade in balia proprio di ciò che si intendeva più di tutto rifuggire, la cattiva coscienza. Per le anime sensibili (e quale innamorato non lo è?), l’autoflagellazione.
Se uno si autoflagella è perché ne ha tutte le ragioni.

*
Il libro, con accorgimento banale, ripercorre la vita e il pensiero di Kierkegaard partendo dagli ultimi giorni, alternando la narrazione della fine a quella del passato che, tra sogno e ricordo e allucinazione, viene ripercorso in senso rigorosamente (e un po’ ridicolmente) cronologico. Già è difficile attribuirla ai ricordi, ma immaginare sogni e più ancora allucinazioni che infilano le perline nel filo della linearità è pretendere un po’ troppo dal lettore, patto o non patto stipulato… Le due linee temporali, entrambe al presente, si alternano in modo piuttosto meccanico, per quanto l’autore, che non è certo uno sprovveduto e ha numerose qualità, si ingegni a variare i passaggi dall’una all’altra, le suture e le lunghezze, il respiro delle rispettive sequenze.
Per forza che il tempo deve procedere lineare dall’inizio all’anticamera della fine, si dirà: è una biografia; e invece no: è un romanzo, che utilizza con sicura competenza i sempre interessanti e talora bellissimi documenti e le opere del filosofo danese per ricostruirne sentimenti, pensieri, psicologia e esperienze, cercando di uniformare, di rendere omogenei, senza eccessivi dislivelli e gradini, citazioni dirette o indirette e ricostruzioni fattuali, documentate o immaginariamente ricostruite, in un tono unitario, ovviamente più narrativo che saggistico, immergendo così tutto nel brodino della facilità romanzesca di stampo ottocentesco, nonostante le malizie della modernità, con tanto di narratore onnisciente (ma ben nascosto in un’aura di oggettività), personaggi impacchettati nella loro bella caratterizzazione, descrizioni liriche e documentarie, e il sempre benvenuto colore locale e storico e paesaggistico. Stonato, oggi, se non falso. Anzi: falso, e quindi stonato. Anche se in letteratura si dovrebbe dire il contrario: stonato, e quindi falso.

Con tutto questo l’ho letto fino in fondo (416 pagine). Kierkegaard merita qualche penitenza.



15/09/17

Aldo Zargani, In bilico (noi gli ebrei e anche gli altri)



In Aldo Zargani sembra resuscitare la figura del Narratore, che Walter Benjamin dichiarava ormai estinta ottant’anni fa per la scomparsa dell’esperienza dal mondo contemporaneo. Così non è, anche se purtroppo a farla rinascere non ci ha pensato l’incanto della novella da cui muoveva il discorso del grande studioso (Il viaggiatore incantato, di N. Leskov), bensì l’orrore; e questo in aperta contraddizione a ciò che un non sempre sollecito amico dello stesso Benjamin, T.W. Adorno, aveva decretato impossibile dopo Auschwitz, evento che avrebbe dovuto ridurre al silenzio ogni velleità di poesia e di racconto. E se anche per alcuni davvero così è stato (quanti superstiti hanno preferito non dire una parola per tutta la loro restante vita, aggiungendo al dolore di ciò che avevano vissuto quello di non poterlo, o volerlo, condividere), per altri invece il lager si è trasformato in urgenza di parlare, raccontare, gridare, descrivere e addirittura cercare di capire. Per alcuni questo impulso, come sappiamo da Primo Levi, si era già fatto strada mentre erano ancora all’inferno e non sapevano se ne sarebbero usciti, e nonostante temessero, se sopravvissuti, di non essere creduti, come predetto dagli aguzzini, tanto inverosimile avrebbe potuto sembrare agli ascoltatori.
A Zargani per sua fortuna la tragedia dell’internamento è stata risparmiata, ma non quella della perdita di tanti famigliari e amici e, più ancora, quella vissuta direttamente dalla sua famiglia dopo le leggi razziali e durante la guerra, fino alla liberazione, come raccontato in quel grande libro che è Per violino solo (Il Mulino, 1995), e nei primi anni del dopoguerra, nel suo degno seguito, Certe promesse d’amore (Il Mulino, 1997). La prospettiva da cui lo scrittore parla è almeno duplice, perché oscilla senza confonderli tra i punti di vista del bambino, che viveva queste esperienze anche come scoperta e avventura, e dell’uomo maturo, che ne ha attraversato tutte le metamorfosi e che ha preso a raccontare le sue esperienze fondative solo una volta raggiunta la pensione, cioè cinquant’anni dopo. Sguardo del bambino che non lo ha abbandonato nemmeno nella sua verdissima età di 84enne attuale, e che fa la ricchezza del suo modo di raccontare, in cui un grande ventaglio di sentimenti, dalla paura all’entusiasmo, dall’empatia all’ira (quella giusta però, di dantesca ascendenza), convive con una memoria infallibile che niente vuole dimenticare, nemmeno quando sarebbe più facile abbandonarvisi. Il discorso è permeato da una grande saggezza, con il distacco che essa implica, che non preclude però un sempre rinnovato, sorgivo stupore; e il radicale scetticismo, ma anche l’ironia, che dalla saggezza derivano, non impediscono la gioia, e il suo riso aperto, divertito, né, con paradosso solo apparente, una lucida speranza che non nasce solo dalla volontà ma anche da un’apertura alla vita originaria, una vocazione inscalfibile alla felicità. È come se la maturità non fosse stata conquistata da Zargani liberandosi dall’infanzia ma restandovi radicato e conservandola in sé come la propria onnipresente, inesauribile e sempre attuale, risorsa: come qualcosa che non è mai acquisito una volta per tutte, quindi, ma è sempre da conquistare e rinnovare. È dall’insieme di questi fattori, dal loro intreccio, ma anche dal loro contrapporsi e arricchirsi vicendevole, ciascuno con il suo tono, grave e acuto, divagatorio e essenziale, ma sempre leggero, che derivano la capacità di narrare di Zargani e al contempo di fare esperienza, che egli, scriva o parli o reciti o ricordi, riesce a trasmettere, viva, freschissima e ricchissima, in chiunque lo legga o ascolti, con la stessa reazione, anche lui (anche noi), del bambino che chiede di andare avanti ancora e ancora.
Tutte queste caratteristiche si ritrovano, con esiti ammirevoli, anche nel recente volume In bilico (noi gli ebrei e anche gli altri), che raccoglie i racconti scritti da Zargani in questi ultimi anni. In essi vengono ripresi alcuni dei temi presenti nei libri precedenti, a partire dagli anni della guerra, della persecuzione e della fuga (non a caso il libro si apre e si chiude con il settembre del 1939 con due racconti che sono dei veri e propri capolavori: “Profumo di Lago” e “Sicilia”), e del periodo immediatamente successivo, arricchiti di nuovi episodi di volta in volta terribili o divertenti, e spesso terribili e divertenti insieme, fino ai nostri giorni e agli eventi che continuano a sollecitare lo scrittore e la sua passione etica e civile.  Passione che emerge quasi ad ogni pagina, sia che si parli di una visita in Israele o in Australia, sia che incontri dei bambini in una scuola romana per portarvi la propria parola non di testimone ma di “attestatore” ricevendone viceversa una lezione sul significato della nostalgia (si veda il bellissimo racconto che ha questo titolo): perché è solo quando si è aperti ad apprendere dall’altro a cui si parla che anche la tua parola può passare e farsi esperienza per entrambi.
Uno dei nuclei più significativi ha per oggetto la Germania, che l’autore narra giustamente umiliata dopo la sconfitta e poi conosce nella sua nobiltà riconquistata durante un tour promozionale per la traduzione della sua Sonata, o nella famigliola in vacanza all’isola del Giglio dello straordinario, breve quanto folgorante, per usare una volta tanto in modo appropriato questo aggettivo, “Berlinesi”.
Ma da tutti i racconti arriva qualcosa che ci fa sentire appagati, anche se a volte sgomenti, più lucidi e insieme più appassionati, risvegliati nelle nostre emozioni elementari che spesso crediamo estinte o sopite. Segno che l’esperienza è passata, che il narratore ha colpito nel bersaglio e che questo ne è stato modificato, non è lo stesso di prima, e gliene è grato.
Nel racconto di chiusura, “Sicilia”, che narra l’umiliante trasloco del padre musicista in una provincia siciliana arretrata ma anche incantata e mitica, che per il piccolo Aldo è anche l’ultima stagione innocente e insieme anche la scoperta della morte, lo scrittore narra un episodio che gli è accaduto in occasione di un suo ritorno nell’isola ormai adulto, con la sua famiglia, composta da moglie e figlioletta, e quella di un amico.  Dopo un avventuroso salvataggio del gruppo che si era sventatamente avventurato in mare nonostante l’avvicinarsi di una tempesta, ad Aldo, che timidamente ringrazia il salvatore e gli chiede “Potremmo... offrirvi... qualcosa?”, questi risponde “Perché? Quanto pensi che valga la vita d’un uomo?”. Nel racconto il protagonista non sa rispondere, né il narratore aggiunge altro, ma credo che il lettore, chiudendo questo libro, lo sappia, ora, un po’ di più.

Aldo Zargani, In bilico (noi gli ebrei e anche gli altri), Marsilio, 2017, p. 187
Articolo pubblicato su Pagine ebraiche, agosto 2017, che ringrazio.




06/09/17

Lezioni di volo



A quarant’anni ho deciso di concedermi il tempo di camminare. E ci ho preso subito gusto, favorito dalla sopravvivenza nella mia zona di scampoli di campagna residua che mi offrono l’opportunità di fare lunghe passeggiate senza incontrare anima viva, che è una discreta terapia per la sopravvivenza. Potrei seguirla anche chiudendomi in casa, ma non sarebbe la stessa cosa: si ha bisogno di aria e di spazio per sentirsi vivi, e della compagnia silenziosa delle cose. Poi posso tornare tra la gente come se niente fosse, un uomo gentile e cordiale. Paziente.
Una bella domenica autunnale, nella tarda mattinata, dopo un’abbondante colazione e una bella sigaretta, appena lasciate alle spalle le ultime case ho imboccato per puro capriccio una stradina che ero convinto terminasse di lì a poco in qualche campo, nei pressi di un canale che di solito attraversavo più a nord, sull’unico ponte di mia conoscenza. Invece la stradina si snodava per tre chilometri ai piedi di uno zoccolo di pianura, che nei tempi antichi probabilmente era il bordo di un lago formato dal fiume che bagna il mio paese, fino a una cascina quasi addossata al terrapieno del canale e seminascosta dalla vegetazione che vi sorgeva ancora molto frondosa. Poco prima della cascina, una deviazione piegava tra gli alberi, dove si intravedeva un ponticello di cemento largo non più di un metro che immetteva su un sentiero che si inoltrava nell’aperta campagna. Mi è venuta allora l’idea di non abbandonare, per quel giorno, le carraie usate solo dai contadini e con mia sorpresa mi sono accorto che potevo proseguire indefinitamente senza attraversare quasi mai strade più ampie o asfaltate, come se i miei passi, negli interstizi della consueta geografia, ne cucissero una diversa, autonoma e parallela anche sotto l’aspetto temporale.
E indefinitamente ho proseguito, per vedere dove sarei arrivato. Ho fatto una breve sosta attorno alle due per mangiare il panino e il frutto che avevo messo nelle ampie tasche della mia giacca da passeggio, e per il resto ho camminato di buona lena, spensierato, guardandomi attorno con entusiasmo crescente a ogni angolo nuovo che incontravo, fino a quando, poco prima del tramonto, non ho sentito che le gambe stentavano a rispondermi, gonfie di acido lattico. Mi sono fermato e, mentre mi accorgevo di ignorare dove fossi, sono rabbrividito, non tanto al pensiero di non trovare la strada per il ritorno, perché conosco bene la mia zona e per orientarmi sarebbe bastato raggiungere i paraggi di qualche centro abitato, anche se il buio mi avrebbe creato qualche problema, quanto a quello della fatica e del tempo che mi sarebbero occorsi. Il mattino successivo mi attendeva un impegno inderogabile e non è mia abitudine presentarmi al lavoro in condizioni meno che decenti. Di chiedere un passaggio tuttavia, o chiamare un taxi o un conoscente qualsiasi perché mi raggiungesse alla prima casa che avrei incontrato, non mi sfiorava nemmeno l’idea. Mi sono quindi seduto contro un albero per prendere fiato e fare qualche esercizio per sciogliere i muscoli, ho mangiato una barretta di cioccolato e dato fondo alla borraccia che avevo a tracolla e dopo un po’ ho ripreso la marcia, lentamente e con tenacia. Ma non ci è voluto molto perché la stanchezza tornasse ad assalirmi; e se da una parte ero troppo stanco per continuare a camminare, dall’altra non volevo arrendermi. Allora ho cominciato a volare.
Mi è venuto spontaneo; mi ero fermato per riprendere fiato e, mentre mi voltavo ad ammirare il profilo scuro di alcuni gelsi lungo un fosso, ho pensato: adesso volo. E l’ho fatto. Così, come se niente fosse. Ho spiccato un saltello quasi in stile Fosbury e mi sono ritrovato a muovermi a un metro e mezzo da terra, con la faccia rivolta verso il cielo. L’unica sorpresa l’ho provata quando mi sono accorto di volare all’indietro, forse a causa dello stile adottato per il salto. Ho percorso una cinquantina di metri a modesta velocità, più o meno quella delle corsette fatte in souplesse, e poi sono atterrato sulla schiena, morbidamente.
È stato solo dopo l’atterraggio che lo stupore quasi mi ha paralizzato, ma non abbastanza da impedirmi di riprovarci. Mi sono guardato attorno per controllare se ci fossero stati testimoni e per indagare, alla scarsa luce lunare, il tragitto che mi aspettava e gli eventuali ostacoli, e ho spiccato un nuovo salto nell’identica maniera di prima. Per evitare inconvenienti, dato che il sentiero più in là voltava verso il filare dei gelsi, ho scelto di sorvolare un grande prato popolato soltanto da stoppie di granoturco. Quando è stato il momento di atterrare, dopo qualche centinaio di metri stavolta, ho cercato istintivamente di frenare piegando le gambe verso il basso, attento al momento in cui i piedi avrebbero raggiunto il terreno per appoggiarli in modo saldo ma elastico, così da non ruzzolare. In capo a pochi tentativi, durante i quali finivo per lo più seduto, sono riuscito a fermarmi quasi alla perfezione, con tre o quattro passettini di assestamento. Il segreto era raggiungere gradualmente una posizione perfettamente verticale, rallentando e scendendo di quota man mano che l’inclinazione del corpo aumentava. In tal modo, alternando voli più lunghi a brevi marce quando scorgevo in lontananza un luogo abitato o dovevo attraversare strade trafficate, in breve tempo (in quello che a me è parso un tempo breve) sono arrivato alla periferia del mio paese, da dove ho raggiunto casa a piedi.
Confesso che a causa dell’ebbrezza una volta sono finito tra i rami di un gruppo di acacie, in parte ancora frondosi ma fitti di spine. Per fortuna ero ancora ai primi tentativi e volavo piano e basso, così che ci ho rimesso solo qualche graffio e dei piccoli strappi alla giacca, peraltro già trasandata. Successivamente, presa confidenza, ho provato anche a aumentare la velocità, fino a una trentina di chilometri orari credo, e ad alzarmi un po’ più da terra, ma mai oltre i sei-sette metri, anche dopo aver perfezionato la fase di atterraggio. Nonostante tutto non mi sentivo ancora sicuro, e ancor meno ero sicuro che la facoltà di volare non sarebbe svanita da un istante all’altro, senza preavviso, provocando una caduta rovinosa. Non sono un eroe (casomai il contrario), e proprio non mi solleticava trovarmi con qualche osso rotto, di notte, in aperta campagna. In realtà, appena cominci a volare ti accorgi che è come andare in bicicletta e che sarai sempre in grado di rifarlo; a trattenermi era piuttosto la vertigine degli inizi, quella che ti porta a esagerare, a rifarlo fino allo sfinimento (non so se mi spiego…).
In casa, mi sono abbandonato esausto sulla poltrona davanti al televisore con l’intenzione di seguire qualsiasi programma fino a che non mi fossi addormentato, quasi per non pensare a ciò che era successo. L’acido lattico un po’ l’avevo smaltito, ma in compenso c’era ancora in giro parecchia adrenalina. Pensare alla chimica corporea può essere consolante, a volte. Ho lasciato la mia mente fluttuare tra le immagini del video e il basso materialismo, finché non mi sono trovato a volare verso la cucina. Probabilmente il corpo, affamato, aveva deciso per conto suo. Meno male che il tragitto è rettilineo e ho potuto fermarmi senza danni, né alla persona né alle cose. Però questa intraprendenza autonoma un po’ mi ha allarmato e mi sono ripromesso di stare più attento. Ho mangiucchiato qualcosa, sono tornato (a piedi) alla poltrona e ho seguito un programma su un canale sportivo fino a che sono crollato. Non ricordo di essermi coricato, ma quando è suonata la sveglia ero nel letto col pigiama addosso e tutte le luci scrupolosamente spente.


Sono andato regolarmente al lavoro e al ritorno mi sono dibattuto, mentre mi rassettavo, se uscire o no: ovvio che alla fine, prima che fosse buio, ho preso la via dei campi. Per tutta la settimana mi sono dedicato a perfezionare i vari aspetti del volo, in primo luogo le fasi del decollo e dell’atterraggio, quindi a accelerare e rallentare a piacimento, a scendere e a salire sfruttando ogni refolo di vento, e poi anche in assenza di vento, eccetera. Dovendo esercitarmi al buio, non mi allontanavo troppo dai dintorni del paese, che conosco a menadito, ma a causa dell’inquinamento luminoso restavo sempre  entro spazi circoscritti che prima avevo ispezionato minuziosamente per non incappare in qualche coppietta appartata o nei contadini che irrigavano di notte. In genere sceglievo grandi campi circondati da alberi e non mi alzavo quasi mai sopra le loro cime, e solo quando ho raggiunto una certa abilità sono entrato in un boschetto di betulle canadesi, piantate a distanza sufficiente perché potessi muovermi a mio agio tra l’una e l’altra, affinando cambi di direzione, le conversioni e i movimenti laterali, come su una pista di slalom.
Nonostante tutte queste precauzioni, è improbabile che qualcuno non mi abbia visto, magari di sfuggita, ma la notizia non si è sparsa o non è stata creduta. A mia conoscenza c’è stato solo un contadino che mi ha intravisto, sopra le cime degli alberi, dalla finestra della sua camera una notte molto tiepida che provavo un’ascesa repentina: l’uomo si era alzato a causa della cattiva digestione e, mentre andava a cercare una pastiglia tutto  insonnolito, mi ha scoperto a volteggiare nel mio Bolscioi celeste, ma prima ancora che si decidesse a svegliare la moglie io ero scomparso; ragion per cui, quando ha provato a raccontarlo, lui stesso è stato il primo a non esserne convinto e presto, su ingiunzione della moglie rafforzata da minacce molto dettagliate, ha smesso di insistere per evitare il ridicolo. Qualcuno però lo ha intravisto le notti successive che si aggirava per la campagna in cerca di conferme della sua visione; se non che io avevo prudentemente diradato le mie esercitazioni, o altrimenti andavo a farle in zone lontane che raggiungevo in macchina, cambiando sempre destinazione.
Le notti serene guardavo le stelle muovendomi a bassa velocità, sdraiato nell’aria. Ammetto a malincuore (perché questo implica una significativa e prolungata omissione precedente) che era come se le vedessi per la prima volta, e forse lo era davvero; ruotavo in lunghi cerchi senza stancarmi di cercare le costellazioni che a casa memorizzavo sulle mappe, o solo di ammirarle con lo stupore incantato di un adolescente, senza i suoi interrogativi però. A restare fermo invece, librato nell’aria, non sono mai riuscito (evidentemente la specialità è riservata ai mistici); ci sono solo arrivato vicino, all’incirca come quando si fa il morto in acqua, che per restare a galla basta dare ogni tanto dei colpetti con le mani e con i piedi. È strana questa necessità, perché altrimenti non è che ci si deve agitare in volo: solo quando si vuole frenare, svoltare o scendere, bisogna fare qualche movimento, e anche allora modesto, minimo, come piegare le mani e i piedi, nelle varie combinazioni, assieme o separate, avanti o indietro, a destra, a sinistra, verso l’alto, verso il basso, e con le differenti angolazioni. Richiedono invece un movimento appena più accentuato delle mani l’accelerazione e la frenata brusca, che si potrebbero effettuare anche aiutandosi con le braccia, con un gesto un po’ plateale ma bello e rilassante. Filogenetico.
Ma più strano è che per molto tempo, nonostante il virtuosismo conseguito, mi sia limitato a volare in posizione supina, certo più contemplativa ma spesso scomoda, come se voltarmi fosse impensabile. Solo per caso ho imparato a voltarmi: un giorno che ero andato in montagna per sbizzarrirmi, mentre sorvolavo una stretta vallata sono stato attratto dal rumore di una cascatella che non avevo visto arrivando, forse nascosta dalla vegetazione; allora, d’istinto, ho girato la testa per guardare e il corpo ha seguito il movimento. Per un attimo mi sono sentito disorientato, ho perso alcuni metri di quota e ho creduto di precipitare (volavo a una cinquantina di metri, sopra gli alberi), ma mi sono subito ripreso e poi ho mantenuto la nuova posizione, allungando il braccio destro come Nembo Kid, felice come una pasqua. È bello potersi voltare, anche perché, oltre naturalmente a permetterti di controllare sempre dove diavolo stai andando, pone rimedio a quella che è forse la maggiore scomodità del volo supino, una certa rigidezza del collo, con compressione delle vertebre cervicali e affaticamento dei muscoli dorsali, e conseguenti dolori di schiena, non acuti ma noiosissimi (il che, peraltro, mi offriva la scusa per andare a visitare una certa massaggiatrice thailandese di mia conoscenza; ma di scuse ne potevo facilmente trovare altre).
Non è che da allora abbia rinunciato alla posizione originaria, per la quale anzi nutro la naturale predilezione che si prova per il primogenito: sdraiato nell’aria, le mani dietro la nuca, uno stuzzicadenti in bocca e i piedi incrociati, me la prendo comoda, con solo il cielo sopra di me, senza altre distrazioni. Do libero sfogo a fantasie da perfetto fannullone, senza prestarvi troppa attenzione; sonnecchio; canto a voce spiegata; leggo il giornale; fumo una sigaretta; mastico caramelle o mangio dolcetti; improvviso filastrocche; imbastisco un breve corso di nuvologia; faccio il cialtrone. Le altre posizioni hanno tutte un che di funzionale, e col tempo ho imparato a distinguerne le sfumature e a sfruttarle secondo le finalità del momento, incluse quelle del capriccio; questa conserva la leggerezza e l’arbitrarietà del desiderio da cui è nata. È come incorporea: il corpo si sente così bene che non prova il bisogno di sbandierare la propria esistenza. Nelle altre invece, per un verso o per l’altro, qualche segnale lo manda, in particolare nelle uniche due che ho scoperto essermi vietate, l’accartocciata e la verticale, che trascinano verso il basso in una specie di risucchio, le prime volte, sconvolgente. Perché poi ho finito per giovarmi anche di esse: a volte infatti, dopo essermi portato a notevoli altezze, mi azzardavo ad assumerle per il puro gusto della vertigine, dello smarrimento, per sollecitare appunto il corpo in altro modo, sentire gli organi interni scombussolati, lo sfintere vicino a trasmigrare armi e bagagli nell’intestino, i polmoni che premono come un masso contro la gola, il cervello ridotto a un foglio (bianco) incollato alla calotta cranica; ma all’inizio non era raro che mi ritrovassi a vomitare, il respiro latitante e la testa che vagolava per proprio conto, col rischio di non riuscire più a controllare la caduta e a riprendere il volo. E siccome la ripetizione mi annoia (al pari degli eccessi), ho smesso molto presto.

Con l’approssimarsi dell’inverno si è posto il problema del vestiario. Mentre scemava l’entusiasmo iniziale che mi rendeva tollerabile ogni disagio, il freddo ha preso a penetrarmi le ossa, una volta fino al limite del congelamento, con conseguenti difficoltà nelle operazioni di volo. Il mio guardaroba si è subito rivelato inadeguato, perché non potevo certo volare infagottato, con tre magliette e due mutandoni di lana, due paia di guanti e altrettanti maglioni, cappotto mistocachemir, borsalino e compagnia bella (per la verità ci ho provato, e non sarebbe bastata la goffaggine dei risultati, sia detto a mia eterna ignominia, a indurmi a desistere, se non avessi incontrato gravi ostacoli sia in fase di decollo e atterraggio sia a mantenere una decente velocità di crociera, perché l’aria che si insinuava nei vari strati degli abiti mi frenava, facendomi perdere progressivamente quota); così mi sono dovuto procurare un equipaggiamento di tute, calzature, guanti, tessuti di microfibre, berretti e maschere, da spedizioni artiche e himalayane, il più leggero e meno ingombrante possibile: tutta roba molto costosa e che inoltre, superate una certa velocità e una certa altezza, a più di tanto non serviva (tenendo anche conto del mio fisico non certo da grande atleta).
Ho preso in considerazione l’ipotesi di trasferirmi ai tropici o in qualche paese subsahariano, ma a fare che? Se fosse servito a qualcosa, che so?, a migliorare la mia vita o quella degli altri, d’accordo; ma subordinare ogni mia scelta alla facoltà di volare sarebbe stata una sciocchezza. Non sono un fanatico. Volare sembra chissà che, e in un certo senso lo è, ma quando lo fai abitualmente alla lunga è solo volare. I grandi viaggi sono lunghi e spossanti, data la ridotta velocità di volo: la mia di crociera si aggira tra i quaranta e cinquanta orari, con punte  attorno ai sessanta che però non sono in grado di mantenere per più di un quarto d’ora (forse dipende dai miei scarsi requisiti, non saprei); non ci si può caricare di oggetti troppo pesanti, al massimo uno zainetto o un bagaglio a mano, perché altrimenti si cade; e pertanto non sono moltissime anche le cose che si possono fare mentre si vola, se non ci sono ostacoli di mezzo. Si può leggere, scrivere, telefonare, usare un pc portatile, fare la calza, intrecciare piccoli oggetti di vimini e poco altro: tutta roba di poco conto insomma. Lavorare sul serio è escluso, ammesso che uno lo voglia fare (un pazzo).
Se tutti volassero, certo si risolverebbero molti problemi, in primo luogo quello del traffico e di conseguenza, in parte, quello dell’inquinamento, e forse la gente, con questa bella soddisfazione in più, sarebbe un po’ più tranquilla, meno pronta ad attaccar briga; nondimeno, fattoci il callo, la maggior parte delle cose resterebbe com’è: un enigma per lo più insolubile, anche se non spetta a me dirlo. Ci sarebbe inoltre, tanto per fare qualche esempio, la soddisfazione di vedere alcuni potentati economici abbassare un po’ le ali (eh eh); si guarderebbe forse meno la televisione (ammesso che sul mercato non siano immediatamente lanciati dei modelli “da volo”); l’obesità diminuirebbe; l’architettura e l’arredamento si modificherebbero in modo sostanziale e gli urbanisti avrebbero finalmente l’opportunità di applicarsi a qualcosa di serio e di utile, invece di fare solo danni (ma scommetto che ci riuscirebbero lo stesso); si dovrebbe adattare il codice della strada e riprogettare gli spazi urbani tenendo conto del volo (ma ci sarebbero anche zone vietate, aumenterebbero forse gli attentati e gli abbattimenti in volo sarebbero di routine, anche da parte di qualche stordito cacciatore); l’incubo dei parcheggi diventerebbe una leggenda metropolitana e le città guadagnerebbero molti spazi verdi (a meno che gli sfollati non ritornino di corsa dalle periferie: con gran sollievo dei vecchi paesani, peraltro); nessuno resterebbe più bloccato negli ascensori, perché uffici e abitazioni avrebbero anche un accesso esterno (con guadagno dei ladri e soprattutto dei costruttori di sistemi di sicurezza, e corrispettivo detrimento dei giallisti e dei produttori hollywoodiani, che tuttavia sarebbero costretti a darsi una mossa per inventare dei surrogati, purché suscettibili di assurgere immediatamente a clichés): insomma, qualche vantaggio ne deriverebbe, questo è sicuro, ma se la vita di qualcuno è di merda, come pare succeda, dubito che subirebbe qualche essenziale trasmutazione alchemica. Volare è sempre meglio di un calcio nel sedere, comunque.
Comunque questi interrogativi li ho rinviati a più tardi. Convinto che la facoltà di volare fosse solo mia, nonostante sia un chiacchierone e come tutti mi piaccia essere ammirato, ho cercato di evitare ogni pubblicità. Un segreto! Non stavo nella pelle dalla voglia di spiattellarlo a qualcuno: mi figuravo le mille varianti della rivelazione, le strategie retoriche a seconda dei casi, i preamboli o la frase buttata lì come per caso, oppure che mi sarei semplicemente alzato da terra senza profferir verbo volteggiando attorno all’interlocutore allibito (questo coup de théatre, nelle mie fantasie più faraoniche, lo avrei però riservato alle belle donne, confidando nel suo potere seduttivo, in assenza di uno mio); eppure sono riuscito a mantenerlo.
Ero orgoglioso di me, e questa soddisfazione compensava tutte quelle a cui rinunciavo con il silenzio. Non è che mi capiti tutti i giorni di esserlo. Tuttavia a trattenermi era più che altro il pensiero dei fastidi che la sua divulgazione mi avrebbe rovesciato addosso; non riuscivo a immaginare quali e quanti sarebbero stati, figurarsi se avrei saputo superarli. Essendo la cosa più grande di me, la pubblicità avrebbe provocato certamente effetti che non sarei stato in grado di controllare, e se da un lato la mia libertà avrebbe subito restrizioni, cosa che bene o male avrei potuto sopportare, dall’altro temevo che la mia stessa sopravvivenza avrebbe corso dei pericoli. Non mi sentivo pronto al trapasso, e non credo che lo sarò mai. La vita mi piace troppo. Adoro il mondo.
Del resto, non ho avuto nemmeno il tempo di prendere in esame le varie implicazioni perché una notte è venuta a farmi visita in camera della gente mascherata, che mi ha imbavagliato prima che potessi aprir bocca, mi ha narcotizzato, legato come un salame e portato via senza che nessuno se ne accorgesse. Qualcuno ha persino chiuso a chiave la porta e tanti saluti. I miei vicini, coi quali di rado ho scambiato più di tre parole, non vedendomi hanno certamente creduto che fossi partito in vacanza o per uno di quei noiosissimi viaggi di lavoro che ogni tanto mi dovevo sorbire; in ditta hanno invece pensato a un colpo di testa, che qualcuno ha giurato di essersi sempre aspettato da un momento all’altro da un tipo come me (perché, che tipo sono io? se qualche stranezza mi si può attribuire, quale però non saprei, non si discosta da quelle che tutti manifestano agli occhi degli altri: banale e stupida quanto incomprensibile) e soltanto quattro o cinque tra lontani parenti e amici, coi quali peraltro avevo allentato i rapporti da tempo, all’inizio mi hanno cercato senza troppo insistere.
Quella che ha avuto più sospetti e non ha mai smesso di indagare su di me è stata una collega con la quale avevo avuto una breve relazione, terminata, credevo, per volontà più sua che mia e senza strascichi di sorta, tanto che avevamo conservato rapporti amichevoli, senza nessuno sforzo da parte mia e nemmeno da parte sua, con mio discreto stupore, trattandosi di una donna (per il poco che ne so, ti serbano rancore anche quando a lasciarti sono loro, se non ti dimostri affranto per la perdita ogni volta che le incroci). È persino andata alla polizia, dove, non essendo né mia parente né altro, è stata trattata con cortese ironia: lei che credeva che gli investigatori dotati di umorismo fossero confinati ai libri. La vita è piena di sorprese. Quando ho saputo di questa sua tenacia (di questa sua affezione), una vampata di calore mi ha gonfiato il cuore; l’ho cercata e ho scoperto che aveva accettato il trasferimento, con promozione, presso la sede centrale e che si era sposata. Eh sì, la vita riserva sempre sorprese.
Quando mi sono svegliato ero nudo, completamente rasato e depilato, legato a un lettino con dentro e addosso tutto un armamentario di aghi, cannucce, sonde e elettrodi che andavano a finire in monitor e macchinari che nessuno controllava di persona. Erano connessi senza dubbio a dei terminali situati in un locale adiacente, separato dal mio da una parete composta per metà di un grande vetro a specchio, dietro il quale chissà chi mi stava sorvegliando. Mi sono riaddormentato e svegliato per brevi intervalli non so per quanti giorni, finché non mi sono ritrovato, sempre nudo ma sotto un lenzuolo, in un’ampia cella molto alta e ben riscaldata il cui unico mobilio, oltre al letto in cui giacevo finalmente libero di muovermi, consisteva in un wc, in un lavabo e, molto probabilmente, in microtelecamere mimetizzate nei muri e nel soffitto. Sono rimasto per alcuni minuti a guardarmi attorno e poi mi sono alzato e ho abbozzato un paio di esercizi per sgranchirmi i muscoli, leggeri, perché mi sentivo piuttosto debole. Se mi sono chiesto dove ero, che cosa ci facevo lì e chi mi ci aveva portato e perché, dev’essere stato solo per un attimo, dal momento che non ricordo niente né del disorientamento né del panico che comportano abitualmente domande metafisiche di questo calibro. Probabilmente ho capito subito che sforzarmi sarebbe stato inutile e ho rinunciato ad arrovellarmi a vuoto: quello che avrei potuto sapere me lo avrebbe comunicato a suo tempo e luogo chi mi aveva sequestrato.
Dopo qualche ora, da uno sportello rasoterra la cui apertura era manovrabile solo dall’esterno è passato un vassoio, fatto di qualche carta speciale come le stoviglie, il coltello e la forchetta, con cibo e bevande. Acqua, vino rosso, spezzatino e spaghetti. Spaghetti al pomodoro fresco con due foglioline di basilico! Che meraviglia! Ho mangiato tutto di gusto, senza preoccuparmi che potesse essere drogato, e così ho fatto anche nei giorni seguenti. Dedicavo il tempo da sveglio a camminare tranquillo e a esercizi ginnici, i pochi che conoscevo e ero in grado di sostenere. Pensare, il meno possibile; immaginare, meno ancora. Volare, assolutamente niente. Non ho neppure tentato di verificare se ne ero ancora capace: lo sapevo e basta.
Assieme al cibo, un giorno è filtrato dallo sportello un sacchetto di cellofan contenente degli abiti: mocassini, pantaloni e casacca, tutto di tela color cielo (niente mutande, chissà perché). Ho aspettato un po’ a indossarli, tanto per lasciare in sospeso i miei sorveglianti, e infine, sorridendo tra me e me, mi sono vestito e avvicinato alla porta, che si è immediatamente aperta. Ad aspettarmi c’erano due signori dai modi gentili che mi hanno invitato a seguirli in un italiano pressoché perfetto (ammesso che qualcuno sappia com’è) e senza particolari inflessioni. Io non ho detto niente: non per dispetto, ma perché non avevo niente da dire. E poi fatico sempre, all’inizio, a conversare con gli estranei; in compenso, una volta cominciato fatico a smettere. Mi hanno guidato attraverso lunghi corridoi deserti e silenziosi finché si sono fermati davanti a una porta. La porta si è aperta, io sono entrato e loro sono spariti.
Nella stanza c’erano tre persone dalla diversa tipologia fisica e, come poi ho scoperto, mentale, che mi hanno fatto accomodare su una seggiola pieghevole e, non prima di essersi informati come stavo (Benissimo, grazie), hanno cominciato a chiedermi alcune cose banali. Ho risposto a tutte le domande in modo schietto e esauriente: del resto erano facilissime e quasi tutte dal soggetto estremamente interessante, cioè il sottoscritto. Mi ha fatto anche piacere che fossero così informati sul mio conto: semplici dati, è vero, senza sfumature ideologiche o morali, però tanto minuziosi da risultare in qualche modo affettuosi (o almeno è così che li ho interpretati io: è sempre gratificante verificare che interessi a qualcuno. Mi hanno congedato dopo un’oretta. Forse temevano di stancarmi. Fuori dalla porta sono ricomparsi i due di prima che mi hanno riaccompagnato, stavolta in silenzio, al mio alloggio. Li ho salutati come vecchi amici.
Questa routine è durata per un paio di settimane: le domande diventavano man mano più complicate, alcune erano persino buffe a mio modo di intendere (per esempio: Ero stato rapito dagli Ufo, o lo credevo o lo avevo sognato? Risposta: No. Aggiunta non richiesta: Non credo agli Ufo né ad alcunché d’altro. Scambio di sguardi dei miei interlocutori. Timido sorrisino mio), ma che in ogni caso non erano mai al di sopra della mia mediocre portata. Quando non sapevo cosa rispondere o avevo qualche dubbio derivante da eccessiva distanza temporale o da esperienze che scioccamente avevo considerato secondarie e quindi dimenticato, lo ammettevo senza timore. Se sostenevano che era impossibile che non lo sapessi o me ne fossi dimenticato, mi applicavo coscienziosamente e una cosuccia o l’altra mi tornava in mente. Niente che avrebbe cambiato la mia cognizione dell’esistenza comunque. Questo loro desiderio di fare luce su ogni dettaglio della mia vita mi commuoveva e io cercavo di venirgli incontro con tutto me stesso. Ah, ho detto la mia su tutto e tutti, e quando c’era da andar giù pesante non mi sono risparmiato! In più di un caso li ho fatti ridere (era gente alla buona), e solo raramente invece li ho fatti arrabbiare, senza alcuna mia intenzione peraltro. In genere, credo che fossero soddisfatti di me, perché non mi hanno mai punito né somministrato farmaci (che io sappia, almeno). Per quanto strano possa sembrare, sono certo che si fidavano di me.
Nelle occasioni in cui si sono arrabbiati, manco a dirlo, le domande concernevano il volo; in un caso mi sono arrabbiato anch’io (Se vi dico che non lo so come faccio a volare, vuol dire che non lo so, porcaccia la miseriaccia!). Con il tempo, e nonostante i miei propositi iniziali, ho ceduto a tutte le loro insistenze e alla fine ho persino accondisceso a dare qualche dimostrazione e a permettere che mi monitorassero in lungo e in largo: alla gentilezza non so resistere. Con quali risultati lo ignoro, perché, una volta appurato per la millesima volta che non avevo informato nessuno delle mie doti, che non avevo documenti che testimoniassero le mie facoltà (a parte quelli in loro possesso), che non avevo intenzioni bellicose o qualsivoglia progetto di sfruttamento di quello che loro chiamavano il mio potere, che non ero affiliato a nessuna associazione o partito e via di questo passo, per un certo periodo mi hanno lasciato in pace, tanto che pensavo che si fossero dimenticati di me.
Per riempire le lunghe giornate di segregazione ho chiesto e ottenuto che mi fosse dato qualcosa da leggere. I libri li sceglievano loro, a caso, saccheggiando le loro bibliotechine domestiche o su consiglio di mogli e amanti, che notoriamente hanno un sacco di tempo da gettare, o più probabilmente con criteri sperimentali che mi sfuggivano, magari con l’intento di studiare le mie reazioni alle diverse tipologie: che so? fantascienza, gialli, romanzi storici o di costume; tutti comunque di autori a me sconosciuti, perché al di fuori dell’aggiornamento per il mio lavoro di solito leggevo pochissimo, e tutti, senza distinzione, ugualmente belli, interessanti e divertenti, con mio grande stupore. Non sospettavo che il mondo rigurgitasse di tanto talento. Mi avevano dato persino del materiale per scrivere, ma non l’ho mai usato se non per fare scarabocchi volutamente insensati e contraddittori che poi affidavo alla loro giusta destinazione, il water. Non dubito che attraverso i monitor i miei sorveglianti e i loro collaboratori li abbiano registrati e studiati minuziosamente: il pensiero delle loro eventuali deduzioni mi ha fatto molta compagnia.
Periodicamente, forse in seguito ai risultati più recenti delle loro indagini, tornavano alla carica con inedite strampalate richieste che esaudivo con la solita cortesia, e poi mi lasciavano di nuovo in pace. Credo che finii per essere dimenticato sul serio. Finché un giorno, dopo molti mesi o forse un paio d’anni, non mi hanno liberato, non senza avermi calorosamente ringraziato della mia collaborazione. Sono stato di nuovo narcotizzato e riportato, ancora di notte e furtivamente, a casa mia.


Nella tarda mattinata successiva sono stato svegliato come dal brusio di una folla educata ma impaziente. Quando ho acceso la luce, si è levato un boato seguito da un lungo applauso. Ho pensato che la sordità della mia vicina, che si degna di tenermi costantemente informato sulle sue preferenze musicali e televisive, fosse peggiorata e, scuotendo la testa, sono andato in bagno. Appena accesa la luce del bagno il boato, come se fosse connesso agli interruttori, si è trasformato in un urlo da stadio che scandiva il mio nome. Il mio nome proprio!, indice di una familiarità di cui ignoravo l’origine. Un po’ eccessiva però per la mia riservatezza, anche se appena adeguata per la mia megalomania, di solito contenuta e ben mascherata.
Con questo accompagnamento che l’acqua corrente non riusciva a sovrastare, ho fatto la doccia e poi la barba. Quindi mi sono asciugato i capelli, pettinato, profumato e, infine, vestito con uno dei vecchi abiti trovati nell’armadio così come li avevo lasciati (solo impregnati di odore di chiuso e forse impolverati: difetto a cui ho rimediato con una nuova spruzzata di profumo). Quando sono andato in cucina per farmi un caffè e ho alzato la persiana della porta che dà sul balcone, il boato è cresciuto ulteriormente. Allora ho scostato la tenda per dare un’occhiata: santo cielo!, la palazzina era circondata da una folla enorme, tenuta indietro a fatica dalle forze dell’ordine e da automezzi di ogni genere, da cui spuntavano antenne e gente con cuffie e microfoni e telecamere orientate verso il mio appartamento. Sono corso all’ingresso e ho sbirciato dallo spioncino: davanti alla porta c’erano altri gendarmi e il corridoio era intasato dai miei vicini accompagnati da vari parenti (loro).
In breve: era grazie a tutta quella gente che ero stato liberato. Pare che qualcun altro fosse in possesso di filmati che mi riguardavano (pur con tutta la mia paranoia, avevo trascurato l’esistenza dei satelliti spia); probabilmente costoro avevano su di me le stesse mire dei miei sequestratori e hanno cercato di mettersi in contatto con loro per spartire le informazioni, ma, vistesele negare e vistisi persino negare che ero nelle loro mani, hanno divulgato tutto il materiale di cui disponevano; loro, o qualche cane sciolto che ha aperto il rubinetto di sua iniziativa, così che gli altri non hanno potuto che seguirne l’esempio.
C’è stata una campagna di stampa; sono spuntati parenti, amici, conoscenti, excompagni di scuola, dall’asilo in su, che si sono fatti miei paladini, disseppellendo ricordi e notizie la cui veridicità mi sono ben guardato dal controllare; mi sono state dedicate trasmissioni televisive, siti internet, servizi di ogni genere, con grande spargimento di sapienza da parte di studiosi di ogni disciplina ma tutti ferrati in mestessologia; infine sono sorte sette new age che mi hanno eletto loro profeta, presto divise in fazioni in lotta per l’ortodossia o per l’ufficialità della denominazione e dei marchi. I membri di alcune tribù del deserto, notoriamente più visionarie delle popolazioni stanziali, hanno giurato di avermi visto che accompagnavo in volo le loro migrazioni; le santerie brasiliane e caraibiche hanno subito sintetizzato la mia immagine con quella di alcuni potenti demoni di cui hanno l’esclusiva; un grande psicanalista junghiano mi ha salutato come la più attendibile reincarnazione del trikster archetipico; alcune decine di persone si sono ferite gravemente, e quattro purtroppo sono morte, cercando di imitarmi. E adesso tutti erano lì fuori (a parte i quattro sciagurati) a pretendere il conto.
Intanto il caffè era traboccato dalla cuccuma: ho bevuto il poco che era rimasto, dal sapore bruciaticcio e ammuffito, e poi ho scostato un po’ la porta richiamando l’attenzione dei gendarmi che vi stavano quasi spiaccicati contro. Ne ho fatti entrare due e ho chiesto lumi su ciò che potevo fare per evitare tutta quella ressa. Loro hanno chiamato rinforzi e, facendomi scudo, mi hanno scortato verso un mezzo corazzato che stazionava nel parcheggio condominiale.
Nonostante il cordone protettivo, ho corso il rischio di venire travolto, ragion per cui ho mulinato le mani per farmi spazio. Immediatamente alcuni dei più vicini si sono lasciati cadere in ginocchio, ringraziandomi per la benedizione, altri hanno fatto il segno della croce o baciato la terra che avevo calpestato, e un piccolo gruppo ha intonato un inno in cui ricorreva il mio nome, con un flebile coro che si è propagato a tutta la folla, o quasi, come a un concerto rock. Non ho visto fiammelle di accendini o candele agitarsi nell’aria; forse perché c’era un sole caldo, e pure abbagliante. Quindi era estate.
Devo dire che la polizia italiana mi ha protetto come meglio non si sarebbe potuto. Mi ha portato in una località segreta e informato di quanto era successo. Io ho informato loro per filo e per segno di quanto era successo a me e ho chiesto di organizzare alcuni incontri con la stampa e gli altri media, durante i quali ho negato risolutamente ogni diceria apparsa su di me e sulle mie presunte facoltà. Tutte le notizie che erano state diffuse erano pure invenzioni o vaneggiamenti, i filmati erano tutti truccati, le testimonianze fasulle, i miei cosiddetti seguaci dei poveri di spirito, molti dei veri e propri cretini. Chiunque chiedesse qualcosa a mio nome era un truffatore e chiunque si proclamasse mio parente o amico un millantatore. Ogni setta, gruppo o partito che facesse in qualsiasi modo riferimento alla mia persona era da considerarsi a pieno titolo un’associazione a delinquere; tutti i soldi che, come venni a sapere, erano stati depositati su conti a me intestati andavano restituiti ai donatori o, se impossibile, devoluti in beneficenza. Nessuno mi aveva rapito e quindi nessuno poteva arrogarsi il merito di avermi fatto liberare: durante il periodo in cui si era persa ogni traccia di me, mi ero semplicemente fatto i cazzi miei, come avevo sempre fatto in passato e avevo intenzione di fare anche per il resto della mia vita. E che mi lasciassero in pace una volta per tutte.
Per avvalorare le mie parole e screditare ogni leggenda ho accettato di fare qualche campagna pubblicitaria, molto ben remunerata, a prodotti scelti con cura tra i più risibili e scadenti, con la clausola che fosse evidente e dichiarato che ogni ripresa in cui avrei volato fosse un trucco dozzinale. I pubblicitari, gente smagata e cinica, non hanno sollevato obiezioni di sorta: a loro bastava usarmi; esattamente quello che bastava a me. Col ricavato mi sono sottoposto a una elaborata plastica facciale in una riservatissima clinica, manco a dirlo svizzera (ah, gli svizzeri!), e già che c’ero mi sono fatto dare una sistematina anche da qualche altra parte. Dopo qualche tempo, per maggior sicurezza, sono andato in un’altra clinica, di un altro paese, a farmi ritoccare i ritocchi. Ho approfittato della compiacenza delle autorità locali per dotarmi di nuovi documenti adatti ai diversi lineamenti. In qualche archivio giace persino un  nuovo certificato di nascita. Adesso sono più bello, ho un nome straniero e mi è persino avanzato un gruzzoletto che, sommato ai precedenti risparmi, alla liquidazione e ai proventi della vendita di ogni mia proprietà, ho investito presso una banca per puro caso svizzera e mi permette di vivere di rendita, sia pure modestamente. Poi sono sparito.



Da allora, in genere, vivo un po’ qua un po’ là tra l’Amazzonia, alcune isolette del Pacifico e la Siberia (d’estate) e volo quando mi pare. Infatti gli abitanti di questi luoghi ci sono abituati: i loro sciamani sostengono di volare da millenni e loro danno per scontata tale facoltà, tanto che li declasserebbero immediatamente (se non peggio) se ne fossero sprovvisti. Nonostante questo, presso alcune tribù sono assurto al rango di un modesto dio locale, condizione tutt’altro che sgradevole a non volerne approfittare troppo (gli dei sono notoriamente invidiosi). A volte è capitato che alcuni miei sedicenti discepoli abbiano convinto i rispettivi gruppi di essersi messi a volare pure loro, anche se io non li ho mai visti: per evitare scaramucce di potere e altri fastidi collaterali me ne sono andato anche da lì, e per sempre.
Ogni tanto torno in Italia e, ultimamente, mi sorprende il desiderio di farlo stabilmente, anche perché questa vita alla lunga mi sta annoiando. Sono stufo di novità che finiscono per assomigliarsi tutte e non vedo perché dovrei rincorrere lo shock del continuo cambiamento. Sento nostalgia del normale tran-tran; ho voglia di parlare del più e del meno nella mia lingua con chiunque abbia voglia di farlo con me e di muovermi in uno spazio che senta mio centimetro quadro per centimetro quadro. Ho persino intenzione di riprendere a lavorare, il che è tutto dire. Bramo la quiete della ripetizione. Tanto ormai nessuno mi riconoscerebbe e forse col tempo la gente potrebbe fare il callo sia a me che alle mie innocue abitudini. Del resto, vaffanculo: se volare è una cosa che si può fare, e è scontato che sia possibile dal momento che ci sono riuscito io, probabilmente qualcuno l’ha già fatto prima di me e certamente qualcun altro lo farà anche in futuro. Prima o poi ci riusciranno tutti, forse. Allora diventerà scontato e non se ne parlerà più di tanto. Per il momento quanto ho scritto qui dovrebbe essere sufficiente. È tutto quello che so: per conto mio, basta e avanza.