30/07/18

Farnie, paulownie e gelsi secolari


 
Le farnie del Cerreto hanno 198 anni.
A quella sulla sinistra un recente temporale ha spezzato un grande ramo, mostrando che è molto malata. Probabilmente verrà tagliata, dice il tecnico che abbiamo incontrato stamattina. Anche un'altra sembra malata, e allora... Mi vien da piangere. 
 
Il tecnico fa delle considerazioni sul fatto che accettiamo come normale che una persona centenaria muoia. La riteniamo fortunata di aver vissuto tanto, anzi. (Io no. O perlomeno faccio abbondanti distinzioni) Mentre un vecchio albero che muore ci addolora, come se avessimo pensato che fosse eterno, o potesse durare indefinitamente, molti secoli, millenni. E' vero, un grande albero che muore addolora con un'intensità sorprendente, senza che ci sentiamo in colpa come se avessimo sottratto questo dolore a un essere umano. Come se fossero due dolori differenti, essendo però lo stesso. Un lutto in qualche modo, per l'albero, più ancestrale, però. Che comunque molti non provano, senza stupirsene. Mi stupisco io per loro. E anche per me.

Poi il tecnico (uno che sembra sia stato nominato più volte tra i migliori giardinieri pubblici italiani, o qualche onorificenza o carica del genere), ha detto che in un cortile qua vicino c'è una paulownia tomentosa registrata nel catasto teresiano (1718-60). Erano sei pochi decenni fa. Ora ne ha accanto solo una molto più giovane.
 
 
Gli parlo di alcuni grandi gelsi che ho visto, e lui mi dice che nel cortile di una cascina semiabbandonata a pochi chilometri da qui ci sono due gelsi del 1630, pare.
Nei prossimi giorni li fotografo e pubblico.
Prima che spariscano.
Come se una foto potesse salvarli.
 
Comunque eccoli qui:
 
 
ps. 2022. Le farnie nel frattempo si sono ridotte a due. Vissute 200 anni ne sono morte 2 in due. 
E' una desolazione.

26/07/18

Musei italici



Sono un vizioso impunito dei musei. Ho preso la malattia da piccolo e non ho mai cercato di guarirne. Ci vado volentieri, ogni volta che posso. Ovunque. Persino in Italia. Dove ci sono sì alcuni dei musei più belli del mondo, ma dove spesso i visitatori sono trattati peggio. Bestie paganti senza diritti, se non quello della muta, devota transumanza.
Non solo i biglietti sono carissimi e a volte includono pure supplementi obbligatori per esposizioni che non vuoi vedere (il trucco è mettere una mostra temporanea nelle sale d’ingresso o interne al museo stesso; all’estero spesso è il contrario: il biglietto della mostra, in sale separate, vale anche per il museo); ma si paga tutto, e il prezzo è in ragione inversa della qualità, per esempio alle caffetterie e nelle librerie. Chiamarli Bookshop mi ripugna (per la parola); tanto più che sembrano negozietti di souvenir. E’ già tanto che il pudore impedisce, per il momento, di allestire bancarelle risparmiando su locali, luce e riscaldamento. E personale, come richiedono i tempi. Un po’ di pazienza e ci si arriverà; in attesa che chiudano tutto.
Le sale sono quasi sempre prive di sedie o panche dove fermarsi a riposare o a guardare con calma quello che interessa, o a fare uno schizzo o prendere appunti. O solo chiudere gli occhi. Riposare la vista. Non vedere. Asciugarsi la lacrimuccia. Immaginare il visto. Sognare il da vedere. 


Ribadisco: con calma, non mi azzardo a dire con comodo: l’idea che un museo sia un luogo di piacere temo che appaia blasfema a molti (in barba a tutti, però, io godo; e siccome sono un sentimentale, spudorato oltretutto, mi commuovo pure). Una volta ho litigato con i sorveglianti di un museo totalmente deserto per difendere i miei studenti che, pur rispettosi e senza eccedere, giravano liberi e divertiti per le sale. Ecchecavolo, mica siamo in chiesa o al cimitero! Non sarà un parco divertimenti, d’accordo; però… (Eppure l’idea del parco…)
La cosa che però meno gli perdono, agli italici musei, e anche alle chiese già che ci sono (a parte il fatto che mi costringono a incazzarmi e a ripetere banalità, che sono tali perché vere in questo caso; ma non lo sono banali per il fatto di esserlo, vere), è che non si possono scattare fotografie, nemmeno senza flash.


Oppure si può, ma come un ladro nella notte, di nascosto, furtivo e quindi malissimo, approfittando dello schermo della fola, della sonnolenza o della distrazione del  custode (sulla categoria, in particolare sulla sottospecie genovese, ho già scritto: cfr. il racconto breve dal lungo titolo: “Evoluzione dei custodi (A far scuola non sono stati gli angeli, però. O magari sì, in un modo che non so.)” che si può leggere qui, o dei momenti in cui sia alza per andare nell’altra sala di sua competenza (di solito ne ha due) o a parlare con un collega, o mentre legge o gioca o messaggia con lo smartphone o se ne serve per lunghissime, appassionate, segrete sussurrate telefonate, tutte cose proibite in quei sacri luoghi ai semplici mortali, ma mettendo anche in conto di essere richiamato e bacchettato se il cerbero alza gli occhi o rientra all’improvviso, con il sottoscritto che sfoggia la sua espressione più candida, ora favorita dai capelli di colore simile, e dal tono o dalla gestualità di contrizione, affinati in decenni di pratica. Molto convincente! Passo per uomo buono, e con l’espressione da buono adeguata (quella che muove al compatimento). E spero anche di esserlo: mi compatiscano pure. Non è però lontano il giorno, tempo, in cui troverò la mia faccia sul vetro delle biglietterie, con scritto sopra, o sotto, o sopra e sotto, WANTED, in lettere giganti, rosse, grondanti sangue, con un ‘espressione, io, truce, la sclera venata, barba di tre giorni, bocca storta e uno sguardo così feroce che supera persino le mie ambizioni più efferate.
Eviterei volentieri questi miserabili sotterfugi (divertenti però, ogni tanto: come quasi tutti i riflussi dell’adolescenza), se potessi trovare le riproduzioni di ciò che mi interessa nei cataloghi o come cartolina. Tanto più che spesso mi servono solo dettagli. Ma non trovo mai niente, anche a prescindere dal costo, come si diceva. Di tutte le foto che ho scattato nell’ultimo museo che ho inutilmente saccheggiato, nessuna opera era riprodotta in cartolina e solo 3 sul catalogo, in piccolo o male. La mia rabbia, o è la giusta nemesi?, è che le immagini si sono poi rivelate inutilizzabili, sfuocate o con tutta la sala e il sottoscritto riflesso, a causa dei vetri e dalla fretta. L’unica cosa a cui mi sono servite è stato rimpinguare la mia galleria di autoritratti riflessi e confusi (esattamente come sono io). Quelle fatte all’estero invece, a dispetto della mia imperizia, sono molto meglio (cfr. esempi qui sopra).


Tornato a casa ho consultato l’archivio fotografico dell’importantissimo polo museale in questione: molto ricco, in quanto a numeri, ma metà delle immagini sono ripetute, quasi tutte sono di dimensioni filateliche e a bassissima risoluzione, e anche lì, sorpresa!, c’è pochissimo di quello che cercavo. Decidono loro cosa riprodurre, ovvio. E’ quello che la consuetudine ha portato a vedere di più; a vedere perché ti hanno detto che va visto: quello che è “importante”, consolidato, facile. E più facilmente vendibile: come se fare delle riproduzioni richiedesse chissà che investimenti da cui rientrare quanto prima!
Pur sapendo come andrà a finire, continuo comunque a spulciare, inutilmente, la libreria dei musei italici. Se le confronto con quella dell’Alte Pinakothek, che ho appena rivisto per l’ennesima volta, la delusione mi stringe la gola e piango: il catalogo completo (ma completo davvero, anche se in bn), con una scheda per quadro, per un totale di 600 pagine, ha un costo risibile; senza contare che ogni sezione del museo ha il suo catalogo dettagliato a colori con schede e saggi, sempre a prezzo economico, per chi fosse interessato solo a una o due di esse per esempio: e i visitatori sono sempre stati meno numerosi di quelli che trovo di solito non dico agli Uffizi o ai Musei vaticani, ma persino nella galleria di Palazzo Pitti (meravigliosa peraltro). Ho chiesto aiuto alle ragazze dietro i banchi, ma le poverette mi hanno guardato come violate nella loro sfera più intima. E avevano ragione: ero io l’indelicato. Ho comprato lo stesso un paio di cartoline, come a risarcimento del loro onore. Economico, questo (il risarcimento intendo: economico come tutti quelli simbolici).
Io da qui a mani vuote non me ne vado!, ho pensato allora. Ma non mi riferivo alle cartoline. E così sono tornato indietro, ho ripercorso quasi tutte le sale, approfittandone per scattare altre foto malandrine (e maldestre) e sono sceso nel sottosuolo, alle toilettes. Ho percorso i corridoi e sono arrivato a due salottini che introducevano ai bagni veri e propri, non belli e invitanti alla lettura come quelli della Biblioteca nazionale di Dublino (cfr. foto), ma molto puliti e decorosi, a modo loro eleganti, e lì, sotto gli occhi esterrefatti di un inserviente indiano, saltellando qua e là come un indemoniato, mi sono sfogato a fotografare a raffica tutto il fotografabile.
Manco a dirlo, non c’è una foto che non sia sfuocata.

2012




24/07/18

Saluta i vecchietti!


 
Sono a passeggio con A., di ritorno dalla visita periodica al "nostro" orto per verificare come procedono i lavori di fine inverno. La nuova stagione è alle porte, mica vorremo farci trovare impreparati! L'orto è nostro nel senso che l'abbiamo adottato: già ci piaceva e ci fermavamo a ammirarlo ad ogni passaggio, con ampi apprezzamenti anche per le galline razzolanti, le capre nel prato contiguo, l'ordine della legna accatastata, la pulizia del vialetto, la cura degli attrezzi, senza dimenticare la maestà del concime accumulato pudicamente dietro un muro e visibile solo una volta entrati (semi-illegalmente, perché dovrebbe essere proprietà privata: del prete però) nel vialetto dell'aglio selvatico, da cui parte anche una ripida discesa verso il fiume lungo la riva traforata di grotte (una abitata da una Madonna piuttosto ritrosa; scontrosa o timida, non saprei: appartata e solitaria comunque); ma poi abbiamo anche conosciuto il contadino, che ci ha informati sulla sorte dei prodotti, non in vendita come speravamo perché tutti riservati alla famiglia allargata, sui metodi di lavoro rigorosamente biologici che hanno incantato A., che sull'argomento è un oltranzista (io me ne frego: per me l'orto ha una valenza estetica prima che etica: mi incanta e commuove; lo ammiro come una forma di auto-organizzazione della terra, una geometria spontanea di cui l'uomo è solo uno strumento la cui fatica è irrilevante anche per lui, e anche per lui leggera e gloriosa) e che da allora ci saluta sempre e talvolta arresta persino il lavoro per scambiare qualche parola con noi, mentre A. accarezza il cane che lo ha subito adorato: e tanto è bastato perché l'orto fosse ufficialmente anche nostro. Il nostro bambino di pensionati in cammino. Io, che non ne ho; A. che invece ne ha due, e ora anche una nipotina, bellissima e dal nome bellissimo: Irene. 


 
Sì, ma non era di questo che volevo parlare... Riprendo il filo: abbiamo da poco lasciato il vialetto dell'aglio selvatico ancora non fiorito eppure già profumato, e l'orto dissodato ma vuoto, e il cane che prende il sole in mezzo alla strada chiusa, e stiamo camminando sulla pista ciclopedonale; A. dice qualcosa che richiede solo il 37% della mia attenzione e io dissipo il resto nello spazio circostante, un po' su tutto, senza preferenze. Et vive la démocratie! 

 

A un certo punto sorpassiamo un signore che spinge una carrozzina al cui bordo si sostiene, con la manina destra, un bimbo di un anno e mezzo circa. Siccome occupano quasi tutta la pista, chiediamo permesso e io non mi esimo dal dire una battuta affettuosa (immagino) a cui il signore, un bell'uomo vicino alla cinquantina, risponde con stringata cortesia. Salutiamo il signore e il bel bambino, e mentre rallentiamo per la manovra, il bimbo alza di scatto il braccino e mi afferra l'indice destro al volo; e subito riprende a camminare spedito, sorreggendosi a me, che lo assecondo e mi sorreggo a lui con lo spirito, per un bel pezzo. Nello scambio ci guadagno io, ma non me ne vergogno. L'infanzia è tutta gratis. Si dissipa così, finché può. Finché non lo sa. Poi glielo fanno notare, e è finita. Come se non ne avessero più. Va be'...
La presa al mio dito rinforza anche il legame momentaneo del gruppo e quindi è giocoforza rivolgere di nuovo la parola al signore, che potrebbe essere un nonno giovane; e invece no: è il papà. Un papà non più giovane che ha sposato una cubana. Giovane. Ne veniamo informati quando io faccio un cenno alle doti atletiche dell’infante che mi sta trascinando in una deriva caracollante ma speditissima ("ha preso tutto da papà") e, riferendomi alla quasi coetanea Irene a cui il nonno sta già dando le prime lezioni di valzer e fox, alla danza: fra un po’ anche il pargolo sarà un eccellente ballerino, avendo la mamma cubana. Cubana e ballerina. Ballerina perché cubana. Ballerina cubana. Il dna! Io per esempio avevo i genitori molto intelligenti.
A. lo trascina allora in un discorso sul ballo: disquisiscono sui latinoamericani, di cui uno è dotto, l’altro meno (però eccelle nel liscio classico). Io presto al discorso il 17,5 % della mia attenzione, specie quando entrano in dettagli troppo tecnici per la mia blanda vocazione tersicorea, concentrato (e felice) come sono sulla manina attorno al mio indice, stretta stretta. Inutile negarlo: sono orgoglioso, oltre che estasiato, della fiducia istintiva che l’innocente sta dimostrando per me (non capisco perché, dal momento che non amo particolarmente i bambini e evito accuratamente moine e smancerie: mentre in genere a loro io piaccio, magari proprio per quello; boh, non capisco e non mi interessa capire). Anche se forse, alla fin fine, sono solo un sostegno come un altro. (Però mi sorride. Non fa che sorridermi.) Ho fretta, ma non faccio niente per liberarmene. Lui stringe ancora più forte e così mi cattura (mi stringe) sempre di più, e io lascio che si continui così fino al ponte, dove le nostre strade si dividono. Il padre allora gli prende la manina e con una leggera pressione mi scioglie dalla presa. Io assisto senza assecondare né resistere. Il bimbo alla fine si stacca, ma il musetto si imbroncia, il labbro trema e, mentre noi siamo già a qualche metro, abbozza un pianto. E’ in quel momento che mi sembra di sentire il padre che, presolo in braccio, gli sussurra: "su, dai, non piangere, vedrai che un altro dito lo troviamo ancora... saluta i vecchietti!"

aprile 2012

 

12/07/18

C'era questo grande guerriero (Achilleide - appunti, 1)



C’era questo grande guerriero, Achille, che se ne stava in disparte nelle sue tende, molto adirato perché dei suoi cosiddetti amici gli avevano sottratto la sua schiava preferita e l’avevano assegnata a quel vecchio vanesio del capo, che ne aveva già a bizzeffe e non era neanche in grado di farle contente, o almeno così si sussurrava. Ma erano malignità, perché se uno si incapriccia così della preferita del suo guerriero più forte, uno da cui possono dipendere le sorti della guerra in corso, qualche capacità residua bisogna attribuirgliela per forza, al di là di una sana libidine senile. Senza contare che lui, Agamennone, per quella guerra, aveva fatto una rinuncia di quelle grosse grosse, il sacrificio cruento della figlia più cara, cosa che di sicuro avrebbe pagato un giorno o l’altro. Non che Achille fosse poi così innamorato, a quel tempo gli eroi erano intelligenti, mica si innamoravano, e poi di amiche e amici ne aveva anche lui quanti ne voleva; quello che gli bruciava era lo sgarbo. Lui era indiscutibilmente il più forte, se le cose erano andate bene fino a quel punto gran parte del merito era suo, e quel trombone di capo degli eserciti, con la sua barbetta ben curata e il pizzetto brizzolati, aveva anche lui il suo giro per tutte le orge che gli andava di organizzare: se si era impuntato per quella Briseide, con la scusa che aveva dovuto cedere la sua amante pure in –eide (Criseide) per calmare un Apollo arrabbiatissimo (a quei tempi l’ira scorreva a fiumi, non avevano ancora imparato a controllarla in vista del peggio), che aveva scatenato la solita pestilenza per l’assassinio dei suoi sacerdoti ex-mariti sia della sottratta che della contesa, era solo per far vedere chi comandava lì, mica per altro, e lui, lui Achille dico, questo proprio non glielo perdonava, gliel'avrebbe fatta pagare lì sul posto se non gliel'avesse impedito una dea… a lui e a tutto il corteo di falsi amici che gli dicevano di essere ragionevole, che insomma di bottino di guerra ne aveva accumulato a iosa, in schiavi ori e armi, e che se voleva gli cedevano qualcosa del proprio, ma che per favore la smettesse di fare il bambino viziato. Per una donna poi! Traditori bastardi tutti!
Non gli interessava niente a quelli, né di lui né del capo, volevano solo che la guerra finisse in fretta che almeno così tornavano a casa. Intanto invece le cose andavano che un giorno le prendeva uno, un giorno l’altro, e i morti non si contavano. Roba non molto importante, è vero: solo soldati semplici, fantaccini, servitori, carne beccata dai corvi, sangue che irrorava quella pianura secca, già rossa di polvere di suo e ora della poltiglia delle viscere e del sangue, che comunque non ci cresceva niente di niente lo stesso. Solo che ogni tanto ci lasciava le penne anche qualche guerriero con le sue armi e il suo cavallo, e la sua armatura!, fratello di un comandante, figlio di un re, e le famiglie a casa si lamentavano, che ci tenevano alla discendenza, loro, non si erano fatto il mazzo per prendere il potere per poi lasciarlo a qualche cugino sfaccendato o fratello degenere che nel frattempo, nel frattempo della guerra che andava avanti e non finiva mai, tenevano caldo il letto della regina e davano fondo alla dispensa e ai forzieri. E poi l’onore, l’onore! Una parola che, sembra, contava eccome, allora. Mentre oggi non serve nemmeno più per sciacquarsi la bocca. Magari è meglio così. Anche la vergogna, se è per questo… mentre allora persino i re, e anzi i re più di tutti in certi casi, erano i primi a provarla. Non si vergognavano di vergognarsi. Per dire che un po’ di grandezza ce l’avevano… Achille invece no, stavolta. E avrebbe dovuto, come quella volta che l’avevano vestito da femmina per evitargli la guerra e il destino che lo aspettava, non dico altro perché se no rovino il finale… e al tintinnio delle armi, si è tolto tutta quella mascherata e così al suo destino è andato incontro di corsa, con gran dispiacere della mamma, che sarà anche stata una divinità (minore però), ma era pur sempre una mamma. Anche i greci! Va be’…

Erano epoche, quelle, in cui il tempo era piuttosto ondivago, ancora incerto su se stesso, cosa era o non era, che direzione darsi, che senso aveva o doveva prendere, così andava da una parte e poi dall’altra, si fermava, tornava indietro, rallentava, accelerava, si stiracchiava, si avvitava su se stesso e a volte persino si dimenticava di se stesso e prendeva delle lunghe pause, si assentava, e sebbene la cronologia avesse raggiunto una sua pace aritmetica sommando un anno all’altro, stagione dopo stagione, come da programma, senza indagare oltre, questo non sembrava avere un influsso determinante sulla vita degli uomini,  e i loro anni si allungavano e contraevano senza avere una lunghezza e un ritmo regolari, tutto era imprevedibile, a volte certi anni, singolarmente o a mucchietti, venivano magari ufficialmente contabilizzati, ma poi, a guardare a ritroso, erano stati saltati del tutto, non solo non erano ricordati o non era successo niente di niente (questo accade anche oggi, e sono anni benedetti), ma proprio non c’erano stati, c’era un buco di tutto tranne che nei calendari, la gente manco se ne rendeva conto, per cui magari uno partiva per un viaggio e aveva un sacco di avventure e quando tornava erano passati pochi giorni o viceversa intere generazioni, e tutto era diverso e insieme uguale, o uguale ma pure diversissimo, e un altro andava in guerra giovanetto imberbe, ci stava 10 anni, veniva ucciso poco prima che terminasse, e poi si scopre che viene vendicato da un figlio di 20 o più anni che chissà da dove era sbucato, e ciascuno aveva un tempo suo che raramente coincideva con quello degli altri, e allora solo per poco, ma quel poco era tremendo, di gioia selvaggia o di lutto indicibile che non si vedeva l’ora finisse e invece non finiva mai, mai.

03/07/18

Diari, tacchini (pardon, taccuini) e zibaldoni. (Appunti per niente 21)



Nei confronti dei diari, taccuini di lavoro, zibaldoni, raccolte di aforismi e aneddoti, il mio atteggiamento è sempre ambivalente: da una parte non posso che apprezzare certe intuizioni o annotazioni o abbozzi che gettano una luce inaspettata su cose che credevo di conoscere o che mi mostrano aspetti assolutamente (da me) impensati sul mondo, la vita, l’arte, la scrittura e i metodi e le procedure di lavoro dei loro autori; dall’altra, prevalente, mi irrita la loro perentorietà, quel tanto di assolutezza che la loro brevità e il bianco (il vuoto) che le circonda conferiscono loro, di modo che diventano subito, ai miei occhi, sciocchezze presuntuose, ridicole. Ho sempre bisogno di storie. Se contengono almeno un grammo di racconto, o la potenzialità di uno spunto narrativo che induce a sviluppare, a seguire lungo la strada che essi sembrano tracciare, o di qualche divagazione o fantasia o riflessione, allora sì. Allora è tutta un’altra storia.
(Che sia per questo che non so prendere annotazioni senza dotarle almeno di un principio di sviluppo? Parto con l’idea di fissare un’espressione o una frase e la penna se ne va da sola per quanto e fino a dove non si sa.)

Prenderli a loro volta come serbatoi di spunti (che non sono tuoi, non nascono da tue emozioni o necessità), o di citazioni, “perle” di questo o quello (di “saggezza”), mi sembra un insulto.

Ammiro (invidio) coloro che prendono appunti sempre e su tutto; che non sprecano uno stimolo, e piuttosto lo provocano; senza contare che è prendere un appunto che a volte provoca lo stimolo, quello dell’appunto o un altro, perché spesso basta scrivere qualche parola perché le frasi vengano da sé e tu le segua fiducioso, incantato o disgustato (un po’) a seconda dei casi, e questo seguire, questo venire dopo ciò che tu stesso hai scritto, acuisce i sensi e la mente, che per un tratto se ne vanno per conto loro: producono il mondo.
Ammiro meno invece (disprezzo) chi non sa dire no, qualche volta almeno, fiducioso che prima o poi, scrivendo, qualcosa arriverà, e soprattutto chi, nonostante veda che niente arriva, solo altre parole, non solo rifiuta di gettarle via e anzi le pubblica, a caldo o, peggio ancora, a freddo, come se la scrittura, al pari della giovane amante di cui Peter Handke parla in La storia della matita (p. 14), fosse “servizievole” “anche come adultera”.


A p. 17, in finale di appunto, tra parentesi, Handke scrive:
“(ma perché scrivo qualcosa su quei due, visto che di loro non mi importa niente, né così né cosà? E non è la stessa cosa anche per me? Non voglio essere descritto, nemmeno con partecipazione.)”
come se si dovesse scrivere solo di ciò che importa (e sì, lo penso quasi sempre anch’io), mentre spesso a importare è proprio scrivere, da una parte, e dall’altra è scrivendo che qualcosa prende a importare.
E poi, che tu lo voglia o no, con o senza partecipazione, sarai comunque descritto, e il primo a farlo sarai tu stesso, proprio scrivendo.

Il bello di questi libri, si sa, è che si possono leggere a caso ad apertura di pagina quando se ne ha voglia (cosa che io faccio di rado), o anche, come io preferisco, di seguito, come se il bianco che separa gli appunti fosse anche la cucitura invisibile di una storia, o di più storie (e non solo a seconda dei lettori), che vanno comunque costruendosi, fatte già dal loro semplice susseguirsi, o anche di tutte le storie che puoi costruire tu estraendo e cucendo insieme tutti i frammenti tra i quali ti sembra di avvertire, e di fatto tu istituisci, una qualche relazione di parentela, o differenza, o rimando o negazione o analogia; ovvero che, mentre li leggi, creano da soli una qualche relazione con te, andando a scovare affinità genetiche che nemmeno sospettavi.
Avviene con quasi tutti i libri, ma con questi, se abbastanza ricchi, anche per colmare le carenze di quelli poveri, di più: trovando il filo, tirandolo (tracciandolo), è la tua storia che racconti, il tuo ritratto.
La descrizione di ciò che in quel momento sei.