23/10/21

Brueghel: e la nave va. La caduta di Icaro

Sulla Caduta di Icaro di Brueghel la parola definitiva l’ha detta W. H. Auden nella poesia Muséé des Beaux-Arts (1938). Io vorrei proporre qui un’aggiunta, spero non superflua. Le parole definitive non chiudono i discorsi; li aprono, piuttosto, come sapeva anche W. C. Williams che infatti ha scritto venti anni dopo (nel 1960) Landscape with the Fall of Icarus. È la meraviglia delle parole, che continuano dopo la fine. Vanno avanti, come navi sull’oceano mare, spinte dai venti della perfezione. O del disastro.

È del bellissimo vascello a mezz’altezza sulla destra, e delle altre navi, che vorrei dire qualcosa. Il quadro è noto: sulla sinistra in primissimo piano un contadino sta arando la terra; accanto sulla tela, ma lontano per la prospettiva, ci sono un gregge e il suo pastore con lo sguardo rivolto in alto, dove non c’è niente, ma potrebbe esserci Dedalo, che compare in un’altra copia del quadro del Musée des Beaux-Arts di Bruxelles che è qui in esame (e che potrebbe essere a sua volta una copia: ma qui non importa).

Sotto, di spalle, piccolo, c’è un pescatore accanto a un cespuglio su cui è posata una pernice (simbolo della cupidigia e del guadagno illecito, secondo san Girolamo, ma anche della Lussuria, che però non si capisce come possa entrarci qui), sopra la pernice due gambe che stanno sprofondando nell’acqua e sopra ancora il vascello che si dirige verso il mare aperto, oppure verso il porto della città azzurrorosata che si vede sullo sfondo nel quale sta entrando un altro vascello simile a questo, mentre nelle vicinanze sono disseminate altre imbarcazioni, e forse un terzo vascello che ha fatto pensare ad alcuni alle tre caravelle di Colombo. Le interpretazioni si sprecano: tutte molto interessanti, anche le più fantasiose (almeno per me), ma io non le seguirò.

La veduta è dall’alto, forse simile a quella che aveva Icaro prima di cadere dal cielo, e permette di allargare lo sguardo verso isole, promontori e città lontane, in un paesaggio meraviglioso illuminato dal sole che sta sorgendo dal mare. Il ragazzo sta sprofondando nell’acqua, solo le gambe sono ancora visibili, ma nessuno vi ha fatto caso, tutti sono impegnati nelle loro attività, il suo “non era un fallimento rilevante” (“it was not an important failure”). Tutti sono indifferenti, anche la natura: “il sole splendeva / Come doveva sulle bianche gambe che sparivano nella verde / Acqua; e il lussuoso delicato bastimento che doveva aver visto / Qualcosa di sorprendente, un ragazzo che cadeva dal cielo, / Doveva andare in qualche posto e seguitò con calma a veleggiare” (Trad. di Agostino Lombardo)

Il “lussuoso delicato bastimento” prosegue tranquillo il suo viaggio. I marinai (se ne vedono almeno 6) sono intenti alle loro mansioni, uno sta pulendo il ponte di coperta, un altro sia arrampica sulle sartie, un terzo scioglie una vela per approfittare del vento favorevole… Nessuno ha uno sguardo per il ragazzo caduto dal cielo, nemmeno chi aveva la visuale libera.

La rotta è certa, il mare calmo, il cielo sereno, il timoniere saldo al suo posto e una dolce brezza gonfia le vele. Nessuna tempesta è all’orizzonte. Ormai il porto è in vista, forse uno di quelli fluviali dei grandi estuari del nord che si vedono nei primitivi fiamminghi, o uno di quelli che il pittore ha visto nel suo viaggio in Italia, nello specifico quello di Napoli, da lui dipinto in un altro quadro.

Di navi non ce ne sono molte negli antichi maestri, solo alcune, piccolissime, nello sfondo della Madonna Rolin di Van Eyck e nel San Luca di Van der Weyden. Qualcuna in più nei paesaggi di Patinier. Più numerose in Brueghel e nella sua bottega, in particolare ad opera del figlio, e più ancora nelle stampe che nei quadri. L’epoca d’oro delle tempeste e delle battaglie navali deve ancora venire, ma Brueghel già l’annuncia.


Il vascello se ne va sul mare per ora calmo spinto dalla la ricerca di guadagno, non di avventura o conoscenza, che semmai sarà un portato secondario, e comunque sempre utile per nuovi guadagni. Rotte, prodotti, mappe, coste, uomini, frutti, spezie, opportunità, consuetudini e meraviglie. È la cupidigia il motore, non la spinta verso l’ideale o il desiderio di esperire, di superarsi, di sfidare il rischio che diventa mortale quando si allontana (si distoglie) troppo dalla concretezza del suolo, come ha fatto Icaro. Anche chi si muove per desiderio di guadagno però va incontro a pericoli mortali: il mare è grande, smisurato, senza confini, potentissimo di vita ma anche di morte, ingovernabile. Nel suo fondo l’ignoto prolifera, la morte è sempre in agguato, come sa l’annegato che si intravede tra i cespugli accanto al pastore. Non c’è difesa. Chi lo affronta è in sua balìa, benevola o malevola che sia. Della sorte. Del destino.

Si tratta però di una contrapposizione semplicistica, come lo è ogni moralismo. Chi affronta i viaggi è conscio dei rischi che corre e delle fatiche che lo attendono, li affronta a viso aperto, raduna tutte le proprie capacità, coraggio e sopportazione ecc. Estende lui pure i limiti della conoscenza, del mondo; in quanto affronta l’ignoto, la sua è comunque un’avventura intellettuale e spirituale: ha capito la profondità, la complessità, l’inesauribilità della superficie marina, e i suoi tranelli, i rischi, anche mortali. La nave è lussuosa, sembra andare placida e sicura, ma è solo un’impressione, un dato momentaneo, basta niente perché gli alberi si spezzino, le vele vadano in brandelli, nelle fiancate si aprano falle, la chiglia si infranga su fondali imprevisti... (cfr. Esperanza Guillén, Naufragi: immagini romantiche della disperazione).

Per quanto sia comune nella pittura di quello e di tutti i tempi, io preferisco non leggere nel quadro nessun intento moralistico prevalente, e forse nemmeno una contraddizione tra Icaro che cade e la nave che gli passa accanto ignorandolo. Sono mossi entrambi da impulsi simili. Uno nell’aria, l’altra sull’acqua, mentre il contadino e il pastore percorrono e ridisegnano la terra. La tracotanza di Icaro è forse solo insufficienza di tecnologia. È meraviglioso che possa volare, ma le sue povere ali, incollate con la cera, più di tanto non potevano salire. Giusto quello che serviva per evadere dal labirinto. E d’altra parte è veramente difficile frenare l’ebbrezza del primo volo. La volontà di scoprire il mondo dall’alto, di infrangere limiti, di salire verso il sole, ubriaco di luce. Anche la nave lo fa. Quella di Brueghel inganna, perché, come dice Auden, è snella, elegante. Ma anch’essa affronta l’ignoto. Una tempesta è sempre dietro l’angolo, o una bonaccia, o venti contrari che costringono a prolungare il viaggio fino ai limiti della sete e della fame, e forse pirati, popoli ostili, all’approdo. La sua non è una crociera di diporto.

Nessuno andava per mare volentieri in passato; andare al largo era sempre un azzardo; attraversare mari e oceani era da folli: era sempre un grande azzardo che faceva paura. Oppure uno prende il mare per fuggire, per scampare un altro pericolo maggiore (certo), o per far perdere le sue tracce, come Dedalo e Icaro, appunto.

Il viaggio come avventura è un mito recente, romantico (W. H. Auden, Gl’irati flutti); prima si viaggiava per necessità, o per guadagno, avidità, ambizione. Gli Argonauti, e in genere gli eroi greci, a compiere le loro imprese sono costretti, da un’autorità esteriore, non da una spinta interiore, e tutti non vedono l’ora di tornare a casa. Della navigazione quello che interessa è il porto.

L’Ulisse di Dante deve convincere i marinai a seguirlo con la sua arte sottile, e la sua ultima impresa, pur nata sotto la dichiarata bandiera della virtù e della conoscenza, è l’ennesimo dei suoi inganni che lo hanno condotto all’Inferno. L’offerta di conoscenza (come quella del serpente nell’Eden, la cacciata dal quale è secondo alcuni il significato del quadro), nasce da una menzogna. La ricerca della verità è basata sulla menzogna. Ma senza menzogna nessuna verità, di conseguenza. Se non ci fosse stata menzogna non ci sarebbe verità. La verità sarebbe impensabile e impensata. (Come peraltro resta comunque, probabilmente.) Intanto si prende il mare. E la nave va.




15/10/21

Moritz


E allora Moritz mi ha detto: Non avendo io nessuna facilità, e anzi essendo oppresso dall’incapacità, e forse dall’impotenza assoluta, di confidarmi con gli altri, qualsiasi altro, nessuno escluso, e di lasciarmi andare in un modo che qualsiasi persona almeno ogni tanto deve trovare o inventare se vuole conservare una minima sanità di mente e non lasciare che ogni cosa si depositi dentro, o ovunque trovi l’opportunità di insinuarsi e insediarsi, nei meandri più dannosi del corpo e della mente, per marcirvi e incancrenirsi, - o forse solo non avendo mai fatto uno sforzo in questa direzione o trovato circostanze favorevoli, magari per una qualche paura atavica, per un terrore innato se mai fossi riuscito a decidermi a provarci -, ho cercato per tempo, quasi automaticamente, in modo del tutto spontaneo, naturale, fin da ragazzino, per quel che ricordo con chiarezza, di compensare questa mia carenza, o reticenza o chiusura, e il vuoto da essa scavato, un vuoto a ben vedere profondissimo, sconfinato, con la predisposizione, che si è tramutata velocemente in una capacità, e addirittura in un’arte oserei dire, di ascoltare le confidenze degli altri, e di attirarle pur senza fare nessun per passo per sollecitarle, e di accoglierle senza che i confidenti si sentissero minacciati, in posizione subordinata e quindi di pericolo, da questa che è in fondo è una debolezza irrimediabile, anche se forse, contemporaneamente, è la forza più grande, il più grande coraggio e rifugio, la più luminosa risorsa, così che molti, per anni e anni, per decenni, hanno trovato naturale, presto o tardi, e alcuni fin da subito, la prima volta che ci siamo incontrati, parlarmi di sé a quel che si dice cuore aperto, che come è noto però sanguina sempre, è quasi sempre mortale, e raccontarmi le loro cose più intime, le loro pene più inconfessabili, dolorose e immarginabili, che però almeno la parola prova a lenire, se non proprio a cicatrizzare e guarire, e anche, cosa incredibile persino a pensarsi, le loro gioie più profonde e più vere, non quelle di facciata o di rappresentanza sociale, proprio le loro vere, segretissime felicità. Ma ora, da anni e anni, non è più così, le occasioni di incontrare questi famosi altri si sono diradate né io le ho più ricercate, come certo ricercate non le avevo mai, perché erano loro, quegli altri, a cercarmi, e quindi ora da una parte io, a volte, mi sento come un recipiente vuoto, pateticamente inutile (a tanta bassezza sono giunto!), e dall’altra come una cantina, una sentina, intasata di ogni sozzura, di tutte le innumerevoli cianfrusaglie dell’esistenza, delle scorie di tutti i giorni e giorni e giorni e giorni in cui nessuna parola mi è stata rivolta per davvero, né io l’ho rivolta, nessun dono mi è stato fatto, nessun ascolto mi ha conferito un po’ di vita perché confidarsi con me lo dava a qualcun altro rendendolo così possibile anche per me, ponendomi in tal modo in una posizione subordinata pur sembrando di superiorità, reso indifeso dalla mia forza, nell’unica fragilità che sia mai stato disposto ad accettare, e anzi ad accogliere con gioia, senza che questo, ancora, mi abbia mai convinto, o solo predisposto, indotto con moto naturale ad aprirmi, a dire veramente qualcosa di me, a quell’apertura che da parte mia non so definire diversamente che ripugnante…
E si è guardato intorno come smarrito e insieme furioso, posando infine gli occhi su di me con odio, anche se solo per un attimo, che è passato senza che poi sorridesse però, come è solito fare, lui e tanti in queste situazioni, senza quell’accenno di sorriso che è come una richiesta di accondiscendenza, una confessione definitiva di sconfitta.
Al che io ho fatto finta di non aver visto niente e gli ho detto: Sì, continua, ti ascolto.
 

 

14/10/21

Nel sottopassaggio

 


Ero solo in questo lunghissimo sottopassaggio, quando ho sentito dei passi alle mie spalle, tacchi femminili che presto mi hanno raggiunto e sorpassato e quasi subito hanno preso un ritmo più veloce e quindi di corsa mentre lei, avvolta in un leggero cappotto scuro di lana  strettissimo in vita, si voltava terrorizzata verso di me gridando aiuto fino a sgolarsi, al che io ho rallentato la mia andatura, e poi mi sono voltato e, senza potermi frenare, ho preso a correre in direzione opposta, in silenzio, a perdifiato.

12/10/21

Fankafkisti per la prima volta a Praga

Non appena si sparse la voce che due dei più accaniti e noiosi fankafkisti del pianeta (io e il mio amico Lucio, ma lui più di me) erano giunti per la prima volta a Praga, le autorità cittadine convocarono con urgenza un consiglio comunale, alla presenza del prefetto e del capo delle milizie urbane, per correre ai ripari, nel tentativo di limitare i danni che gli sciagurati avrebbero potuto combinare con le loro chiacchiere appestanti e i loro imprevedibili movimenti sulle tracce vere e presunte del grande scrittore, perseguite in modo certamente scomposto e rumoroso, come la loro nomea lasciava presagire. Fermo restando che bloccarli, arrestarli o espellerli avrebbe creato problemi diplomatici e riflessi nocivi sul flusso turistico che il grande scrittore aveva innescato a sua insaputa (ne sarebbe morto ancora prima del tempo) e che al momento costituiva una delle entrate più cospicue della traballante economia locale, si trattava di allestire qualche stratagemma per distrarli, spostare i loro interessi verso altre fonti di attrazione e contenere la loro nocività a livelli minimi e scarsamente attinenti alle ragioni della loro venuta, rinviata da tanti anni da essere ormai improcrastinabile. Oltre a fankafkisti conclamati, i due, ormai uomini di mezza età già instradati verso la terza, erano anche innocui morti di fame proclivi al commento estetico e a prolungate e maliziose, quando non acide, considerazioni sull’essenza del genere umano, in particolare femminile, ragion per cui le autorità non trovarono niente di meglio, con una mossa che avrebbe giovato anche al turismo non letterario, di convocare nella grande sala del castello cittadino tutte le belle ragazze e giovani signore della città e del circondario, per poi dislocarle strategicamente, come se nulla fosse, lungo i viali, le strade, le piazze e le stradine più legate al pellegrinaggio lungo l’infinita e labirintica via crucis legata all’autore della “Tana”, e ai crocicchi più frequentati nonché a certe stazioni nodali della metropolitana o nei pressi di musei e di note birrerie, e poi succedesse quello che poteva succedere, o anche no (meglio). I due infatti, dopo un breve periodo sconfortante, quantomeno per le autorità che sorvegliavano discretamente da lungi, in cui avevano proseguito, impavidi, a strologare sul più e sul meno, e praticamente su tutto, chiusi nella bolla della loro mitologia, cominciarono pian piano a notare con la coda dell’occhio qualche bellissima giovane ai tavolini dei bar, o alle fermate dei bus; altre si accorsero di incrociarne sui marciapiedi, o nei negozi, oltre le vetrine, commesse o clienti che fossero, e altre ancora che venivano a bere un caffè o a comprare dei dolci nei bar e nelle pasticcerie dove ogni tanto facevano una sosta loro, o alle biglietterie dei luoghi di interesse storico e culturale, o nelle librerie dove, anche se non capivano un’acca del ceco e del tedesco, non resistevano a entrare per sfogliare libri e almanacchi manco a dirli tutti dedicati a Kafka, con qualche eccezione per altri scrittori praghesi, Meyrink, Kubin, Holan, Hrabal, Kundera, Havel, Hašek, Orten ecc, come santini di altari laterali. Per modo che i due cominciarono a porsi domande sulla genetica cecoslovacca (la nazione non si era ancora divisa) e slava in genere e sulle peculiarità individuali dei fenotipi incrociati con crescente, disinteressata, eidetica ammirazione. Una così alta concentrazione di belle signore e signorine, dalle figure snelle e slanciate, perfette nelle forme e nei lineamenti, con quel pizzico di esotico che non guasta mai, gli occhi chiari o scurissimi, tutti splendidi, la pelle di seta o porcellana ecc. (ognuno può aggiungere i suoi stereotipi preferiti), li lasciava esterrefatti, e per un po’, imprevedibilmente, senza parole. O forse erano loro, di formazione modernista con simpatie avanguardiste, che per non indulgere a stereotipi turistico latini (ma anche slavi e centroeuropei, avendo Lucio sangue sloveno e ungherese in circolo nel suo sistema arterioso), si limitavano, all’inizio, a esternazioni di breve durata, per lo più esclamazioni di stupore, brevi fasi incompiute ma creative (di meno non avrebbero potuto accontentarsi), e ad affondi retorici, di fatto, di minino spessore, o volume; ma con il passare del tempo e il ripresentarsi delle felici, per non dire numinose, apparizioni, le parole cercavano percorsi più elaborati e soddisfacenti dal punto di vista narrativo e socio-biologico, per lasciare, alla fine di ogni segmento relativamente autonomo delimitato dal rinvenimento di reliquie o memorie di questo o quel racconto o diario o lettera, di nuovo spazio a silenzi stuporosi e soffusi di una lieve patina di felicità che nel frattempo si era venuta a sovrapporre ai loro lineamenti in qualche modo pacificati, come quelli che assumono i morti, quelli trapassati in modo non violento quantomeno. Poi, alla ripresa dopo il pranzo, il riposo in albergo, la visita al museo o alla sinagoga o al cimitero, ripartiva il pellegrinaggio con le sue litanie ammorbanti, le divagazioni più acrobatiche e gli arresti improvvisi in mezzo al traffico dei ponti o sui binari dei tram, o sulle strisce pedonali, dove perlomeno in un incidente avrebbero avuto la legge dalla loro. La legge! A Praga.

Le considerazioni però erano più vacue e fumose del solito, come disturbate da retropensieri strani, pressanti quanto indefiniti, senza oggetto, o con oggetti abbaglianti ma sempre in via di svanire. E quando si rendevano conto di quali fossero questi fattori di disturbo e si guardavano attorno per focalizzarli e poi chissà che altro, non c’era più niente e nessuno, come fate morgane dissolte tra i fumi del fiume o sull’umidità degli acciottolati, messaggi inviati da qualche emissario superno che si erano persi per strada ma sarebbero certamente arrivati prima o poi. Poi però, prima, arrivava sera, e i due, dopo una cena consumata in qualche locale sempre sbagliato e un’ultima sosta in un bar per un caffè (io) o un whisky (Lucio), stremati per quanto avevano cercato e non trovato, visto senza averlo cercato, trovato senza averlo afferrato, se ne andavano ciascuno nella propria stanza a dormire o leggere, o a prendere appunti che non avrebbero usato, a rincorrere parole che sul momento si erano sottratte, a tracciare percorsi che non avrebbero seguito, né il giorno dopo né mai.



04/10/21

Il Kitsch (risposte non inviate a un questionario)

Un giorno un amico mi ha mandato un questionario; ho risposto che non avrei risposto. Poi, come sempre, qualche tempo dopo (due o tre minuti) mi è venuto l'inizio di una risposta da perfetto (e banalissimo: kitsch) bastian contrario e di getto ho scritto le risposte che non ho mai mandato e ho ritrovato per caso oggi. Le ho rilette e un po' sono divertenti, mentre un altro po' fanno solo ridere. Allora ho deciso di metterle qui.


Che cos’è il Kitsch? come potremmo definirlo? vira più verso il cattivo gusto (ossia un gusto differente che a noi non piace) o è semplicemente una mancanza di gusto (una indifferenza verso il gusto)?

Il kitsch non esiste. E’ semplicemente il giudizio che una cultura o un suo settore (il mio, che è intelligente e raffinato), danno dei prodotti, dei comportamenti e delle espressioni di un’altra cultura o di un altro settore (caratterizzato da gente rozza e stupida, che scimmiotta il mio modo di essere e di fare, o usa categorie del mio settore per giudicare, interpretare e godere delle manifestazioni del proprio, che sono manifestamente copie grossolane, combinazioni di scarti e vecchiume del mio, e altre secrezioni loro proprie di genere simile). L’idea è nata quando una classe deteneva un quasi monopolio della cosiddetta produzione culturale e il resto della società, che aveva rinunciato alla propria o si era lasciata convincere ad averne vergogna, ne condivideva i giudizi, pur senza comprenderli, o adattandoli, da veri poveracci, alle proprie possibilità economiche o di comprensione in base alle categorie da quella elaborate e da lei ricevute.

 

Si tratta di un fenomeno meramente estetico, o pseudo-estetico, o invade anche i territori dell’etica e della politica? Se sì, in che modo?

La domanda presuppone, come già la categoria, la definizione incontrovertibile e l’accettazione del sistema gerarchico che già si incarna nel termine stesso. Volendo la si può applicare ovunque e a qualunque cosa, comportamento o valore. L’importante è che sia io a tirare le fila, estetiche, etiche, politiche o sanitarie.

 

La cultura attuale, che erode sempre più l’idea di comunicazioni di massa che istituiscono le forme profonde della socialità, sembra aver superato l’opposizione fra masscult e midcult, come anche quella tra arti d’élite e arti popolari. Che ne è del Kitsch in questo quadro? trova ancora un suo posto? e quale?

Se le opposizioni sono state delegittimate fino alla scomparsa delle stesse differenze da esse istituite, perché il kitsch dovrebbe sottrarsi alla stessa sorte? Si tratta di distinzioni tattiche, usate alla bisogna e gettate non appena non servono più. Indifferenti, appunto. E come tali facilissime da ripescare. Mai morte perché mai nate, direbbe il residuo di snobismo che l’autoproclamatosi intelligente a volte si compiace di sfoggiare. Da perfetto idiota, pensano subito gli altri.

 

 

Spesso s’è detto che il K. va alla ricerca dell’effetto facile, dell’‘effettaccio’, sul pubblico dell’arte e, in generale, della cultura. L’emergere della cultura in rete, nei blog, nei social (nel bene come nel male) come sposta il problema?

C’è qualche differenza tra effetto e effettaccio, a parte il suffisso? La ricerca dell’effetto non è già volgare di per sé? Non è già l’effettaccio che ogni ricerca dell’effetto ha di mira sin da suo manifestarsi?

Perché prendersela con la cultura di rete? Ogni forma di comunicazione o tentativo di persuasione o seduzione è già una rete.

 

Altra classica definizione del K. è quella per la quale esso è una tecnica artistica, e comunicativa, che introduce frammenti d’arte alta per giustificare un’opera, invece, dalla facile, immediata ricezione. Una specie di citazionismo nascosto. Oggi Boldini è osannato come un artista, e da decenni il citazionismo è la regola. Tutto è diventato Kitsch?

Perché, Boldini non è un grande artista? 

 

 

I souvenir, i gadget, i portacenere con il Papa, i nani da giardino fanno oggi tanto chic: uno chic, sembra, condiviso dai più. Il K. è altrove?

Che bisogno ha di andare altrove? Lo chic è una delle forme del kitsch. E’ quella di coloro che se ne sentono esenti, perché pensano che una certa consapevolezza, la loro, sia già una patente di salvezza. Da cosa?

 

Queste palesi trasformazioni rispetto agli anni, per così dire, d’oro, del K. implicano un cambiamento nelle prassi artistiche, un cambiamento nelle nostre aspettative circa l’arte, i nostri gusti, i nostri valori? oppure quel che s’è sgretolato è l’idea stessa di un ‘nostro’, di un qualcosa che accomuni i soggetti implicati nel mondo dell’arte e della cultura?

Proprio così, a quanto pare.

 

Le migrazioni di massa, le diseguaglianze sociali, i disastri climatici e ambientali, i fondamentalismi religiosi e il terrorismo, i social network travalicano la quesitone del K. o lo assumono al loro interno?

Lo rendono obsoleto, eccetto in qualche libro o in certe serate o ambienti, dopo l’orgia o Striscia la notizia, è lo stesso, e solo per un po’. E poi basta, a consolazione, o desolazione, ottenuta.

 

Fara Gera d’Adda, 3 novembre 2019, or 17,38-18,05