29/11/20

Piero della Francesca, La Resurrezione

 C‘è quest’uomo in piedi in un sepolcro, con in mano il vessillo dei crociati e un piede sul bordo del sarcofago scoperchiato, e poi quattro soldati che dormono in diverse posture, e sullo sfondo una campagna che ti dà l’atmosfera e l’ambiente ma sulla quale al momento non ti soffermi.

La rappresentazione è leggermente di sotto in su, accentuata, per lo spettatore dal suo stagliarsi sopra la sua testa, così che anche lo sguardo dell’uomo nel sepolcro, dritto, che si rivolge lontano e sembra non guardare niente per avere già visto tutto, gli passa sopra la testa, si dirige oltre di lui ma insieme lo comprende, nel senso che lo capisce e lo tiene nel suo spazio visuale, ma non gli si rivolge direttamente. Semmai sarà il suo, di sguardo, a essere attratto e non potersi distogliere da lui e dalla sua figura per un tempo incalcolabile, prima di vedere il resto. Ma può anche essere che lo spettatore distolga subito lo sguardo, spaventato, per placarsi perdendosi nel resto, sugli altri protagonisti, nel mondo sullo sfondo, prima di potervi tornare e affrontarlo.

La scena è silenziosa, quasi incantata, come un attimo sottratto al tempo, in lontananze infinite, eppure qui davanti a noi, con un paesaggio e un cielo simili a quelli che si vedrebbero se si sfondasse il muro e si vedesse la campagna e le colline circostanti. È il momento zero, un momento che fonda il tempo, una forma particolare di tempo, quello lineare, con un’origine e una fine, e che appunto per questo vi si sottrae. La resurrezione, come affermava san Paolo, è il momento su cui poggia tutto l’edificio cristiano: se Gesù non fosse risorto la fede sarebbe vana; non è l’incarnazione, il mistero fondamentale da cui tutto origina, ma la resurrezione dalla morte, che certo presuppone l’incarnazione ma le dà il suo senso (altrimenti sarebbe una nascita come tante), lo spartiacque del tempo. A partire da quel momento c’è un prima e c’è un dopo. Il corpo risorto è la colonna che regge l’edificio della chiesa e del tempo, che separa lo spazio: il mondo morto, brullo alla sua destra, da quello vivo alla sinistra, che rinasce, ma non è (ancora) il giardino, l’eden, e anzi deve essere conquistato con la fatica che spetta all’uomo, che deve lavorarlo, ma sa che la fatica darà i suoi frutti.

La promessa di resurrezione che l’opera rappresenta e rende visibile, e direi quasi tangibile per il fedele, è l’opera stessa a mantenerla. Il corpo glorioso, perfetto, spirituale e insieme carnale, è lì, davanti a chiunque lo voglia vedere, trionfante nella sua pura presenza, immortalato nella sua evidenza inconfutabile, potentissima. Il vessillo è tenuto saldamente, ma non in modo trionfale. Poggia a terra, tra il sarcofago e la schiena del soldato senza elmo dalla testa riversa all’indietro in cui si vuole vedere un autoritratto di Piero, come a trasmettergli sostegno, ispirazione anche nelle mansioni politiche e amministrative a cui più di una volta è stato eletto, oltre che la forza della fede, anche se al pari degli altri soldati al momento è ancora addormentato, non risvegliato alla rivelazione definitiva. Il momento essenziale lo manchiamo sempre, molti non credono che sia nemmeno arrivato né mai arriverà; altri, a posteriori, credono invece che ci sia stato, lo deducono dagli effetti, risalgono ad esso, ne ricavano fede e conforto.

Spetta a ciascuno scegliere, se continuare a dormire o svegliarsi alla luce più perfetta che sia mai stata dipinta, in quella luce ultraterrena e realissima che prima ancora del paesaggio alle sue spalle, avvolge morbidamente il corpo del risorto provenendo da esso, dalla sua compiuta, ineccepibile, indefettibile, assoluta immanenza.

Diversamente dalla maggior parte delle altre rappresentazioni infatti, nessun alone lo circonda, nessuno sfolgorio miracoloso l’uomo di questa Resurezione trasfigura, nessuna apertura celestiale viene a sublimarlo, a sollevarlo da terra, a farlo levitare sul mondo. Il corpo di Cristo è invece interamente umano, sembra quello di un robusto contadino, come nel Battesimo di Cristo, con il volto abbronzato dal lavoro all’aria aperta e il torso bianco perché di solito protetto da una tunica o da una maglia, come quella che si toglie il battezzando nello stesso Battesimo; ma è perfetto, muscoloso e di classica misura; mentre il volto, a ben guardare, richiama più ancora che l’essere “silvano e quasi bovino” di Roberto Longhi, quello tradizionale del Mandylion, la sacra icona del Santo Volto acheropita, non fatta da mano umana, impressa sul velo della Veronica o sul telo del re di Edessa secondo un’antica leggenda.

In questo volto io non scorgo quella tristezza, lo “sconforto” che ci hanno trovato alcuni, non riesco a scostare, uno dopo l’altro, veli metafisici o teologici, vedo solo un uomo che ha vinto la morte, che ha sofferto e visto ciò che nessun altro ha visto e sofferto, e ora è tornato, e non c’è nessuno ad accoglierlo. Ma lui nemmeno se lo aspetta. È lì, e tanto basta. Quanto ha passato è dentro di lui, nella sua stessa carne che ancora ne conserva i segni, ma è come se lui nemmeno lo avvertisse, il suo sguardo non ne conserva traccia, è tutto alle sue spalle. È tutto in lui e non chiede di essere contemplato né condiviso. Ha vinto. Indossa il sudario trasformato in una toga, rosea, bellissima, marmorea, mentre la gamba sinistra si è alzata e ora poggia salda sul bordo del sepolcro senza rilievi o ornamenti, dalle linee purissime come tutto l’equilibrio geometrico della composizione.



Il Cristo risorto con il piede sul bordo del sepolcro non è un’iconografia originale, uno che certo Piero ha visto è anche nel “polittico della Resurrezione” di Niccolò di Segna, del 1348, ora sito sull’altar maggiore della cattedrale di Borgo Sansepolcro. Altri l’hanno usata o la riprenderanno, anche se nessuno con l’ineguagliabile serenità, forza e sicurezza di Piero. Non è il gesto tracotante del trionfatore che si rivale sugli sconfitti: è quello di chi aveva un compito da eseguire, sia pure per tutti gli altri uomini inaudito, e l’ha fatto. Il dolore e l’angoscia sono dimenticati, anche se restano le tracce delle stigmate sulle mani e i piedi, e la ferita al costato ancora sanguina.


Il corpo non è librato in aria, nessuna luce divina lo trasfigura; è ben saldo sul fondo del sepolcro, con la destra e l’asta a dare stabilità e il piede ben piantato, in scorcio mirabile, sul bordo del sepolcro, di cui si scorgono, occhieggianti tra i corpi dei soldati, parti dei pannelli marmorei laterali, degli stessi colori bruno-rossastro e verdeazzurro delle armature e degli elmi degli addormentati, in un alternarsi variato che contribuiscono a creare l’armonia diffusa, discreta, non meccanica, che emana dall’opera. La stessa del paesaggio dietro di lui, dove, leggendo la composizione come un libro, a sinistra la natura si presenta brulla, con gli alberi spogli e le mura bianco-grigie di edifici che sembrano ciechi, disabitati, a cui corrispondono, passando alla destra, alberi e cespugli frondosi e un borgo con una torre e delle mura dallo stesso colore del sudario, che sembra abitato e si direbbe pronto ad accogliere dei nuovi ospiti, i redenti. Gli alberi e l’asta scandiscono lo spazio, danno un ritmo alla profondità della natura, in una prospettiva dissimulata, ma calcolatissima, con al centro l’asse del mondo, albero lui stesso, colonna, il corpo del Risorto, come quello del Cristo del Battesimo e come l’albero che gli sta accanto, vero protagonista del quadro, a mio parere, il primo albero protagonista, in quanto albero nella sua singolarità e non solo come simbolo, di un quadro, questo sì il più bello della storia della pittura. Ora tutto è in ordine. Stabilito. “And death shall have no dominion.”

Della Resurrezione in sé, però, io non so cosa dire. Non so se augurarla a me stesso, e in che forma. So che l’opera di Piero mi appaga e sgomenta come se la Resurrezione fosse già qui, sempre sotto i nostri occhi, che si produce, che lo sappiamo o meno, ogni momento della nostra vita.

Poi chissà, forse da qualche parte, nelle banche dei cieli, viene conservato il dna di tutti, depurato del piccolo difetto della morte, il nostro di noi uomini e quello di tutti gli animali, e di tutti gli insetti, e di tutte le piante e le alghe e i licheni e i microrganismi e i virus, e verranno riesumati nei miliardi di dimensioni del tempo senza tempo, e tutti staranno accanto agli altri, forse felici, forse no, più probabilmente oltre la dimensione della felicità e dell’infelicità. A fare cosa, poi, non si sa. Forse lo stesso che abbiamo fatto qui, in infinitesime variazioni, inutili, meravigliose.

Un’amica mi ha detto che l’affresco di Piero è una delle poche opere che potrebbero indurla a credere. Ci sono creazioni umane che suscitano reazioni come questa, che innescano cambiamenti che sembrano repentini e in realtà covavano chissà dove chissà da quando: dall’infanzia probabilmente, per poi risorgere nella seconda infanzia della vecchiaia, quando ci si stanca di porre barriere alle emozioni e di ingabbiare tutto nella dittatura della ragione, delle dimostrazioni, del dubbio per ogni cosa che ad esse si sottrae. Quando la stanchezza che induce il desiderio di sparire lo sovrappone e confonde con quello di durare, e di durare per sempre. Non so davvero quale sia più auspicabile, e quale dei due desideri più aiuti la vita che ci resta. Ora che la morte invisibile ci avviluppa da ogni lato e ha un nome, il desiderio propende per la durata, tanto più sapendo quanto atroce è l’agonia. Vien da chiedersi, ripetendo una delle fasi più drammatiche della nostra storia, perché siamo stati abbandonati. E poi, però, anche perché non siamo capaci noi, di abbandonarci.

Ma in genere, più modestamente, non è alla resurrezione, alla vita eterna, alla vita dopo la morte vinta per sempre, che si ambisce, ai più basta un ritorno alla vita tra la gente, a guardare da vicino negli occhi, a toccare un braccio, una spalla, delle mani, un volto, a carezzare la pelle, i capelli, a guardarsi senza sospetto, a togliere dal mondo la patina di paura che aderisce a ogni cosa, a guardare la sua grana, sentire il suo umidore e il suo odore, la sua morbidezza e durezza, stringerlo. Reggere il suo vessillo, poggiare il piede, guardare avanti, senza sfida, senza aspettativa, senza rammarico. Semplicemente avanti. Con quieta sicurezza, con forza consapevole che vuole solo agire o solo stare senza bisogno di essere esibita.




 

 

26/11/20

La fiera dello strazio

 

 

(Premessa a posteriori: In questo Martirio di San Sebastiano della bottega di Ribera c'è già tutto, o quasi: la rappresentazione dello strazio inferto, la sofferenza di chi lo patisce, la professionalità indifferente di chi lo infligge, gli spettatori con le loro differenti reazioni, l'uomo che assiste, forse l'autore, che guarda fuori verso chi guarda il quadro, a scrutarne le reazioni, a invitarlo alla pietà o a sfidarlo, pietoso anche lui, e compiaciuto.)


... questa volontà di squadernare lo strazio, di condividerlo in diretta, immediatamente, attraverso la (pretesa) pura indicazione dell’immagine, senza la presunzione delle parole di nominare l’innominabile e dare senso all’insensato; come se non solo prendere le immagini, metterle sul proprio blog o su un sito un giornale o un libro senza aggiungere una sia pur elementare didascalia, il nome comune o proprio, una data, un luogo, ma già l’atto di fotografare, la decisione di farlo invece di non farlo, prendere l’apparecchio, mettersi a una distanza, da un certo angolo ecc., non comportasse di per sé una somma di mediazioni e scelte, alcune pure razionalissime, almeno in apparenza, quasi a opporre il presente eterno carpito dall’immagine all’eternità del passato che essa trasmette, e soprattutto a quella fuori tempo, “vera”, della morte... tutto questo, non so, mi lascia perplesso, diviso tra rabbia, per il ricatto, e partecipazione, al dolore, tra disprezzo e pena... anche se questa stessa compresenza mi fa quasi subito propendere per il primo termine, senza cancellare il secondo, e anzi proprio perché, di fronte al secondo, sono indifeso, preso alla sprovvista, vigliaccamente.

Detto questo, non mi soffermerò, come faccio di solito, su ciò che vedo, su ciò che esso mi suscita o mi fa pensare. Forse è meglio chiedersi che cosa voleva fare X. Y.  (e tutti gli X.Y. del mondo) e cosa si aspetta che noi facciamo davanti alla sequenza di foto di sua madre morente; come spera (o pensa; o ha calcolato) che noi reagiamo: il tipo di emozioni che l’opera (perché è questo, al di là di ogni intenzione e giustificazione, che l’immagine diventa una volta resa pubblica, se non già una volta progettata e nel tempo della sua realizzazione: il tempo lasciato al dolore perché il dramma, o l’orrore, a seconda dei punti di vista, crescesse verso il climax, la sua perfezione in qualche modo, il perfetto suggello che a posteriori sembrerebbe dare un senso a tutto...) dovrebbe provocare secondo gli intendimenti dell’autore (quindi alla base del suo gesto: quello cosciente almeno) e nell’orizzonte che l’opera (il suo progetto interno: l’insieme dei percorsi che da essa si dipartono per il semplice fatto che essa è come è) dispiega.

Come a perimetrare il territorio della morte, a circoscriverlo, come se questo tracciasse in qualche modo una barriera, difendesse dalla sua avanzata (o viceversa la difendesse da qualsiasi intrusione estranea o contagio: come se fosse possibile: come se, da quando la si è conosciuta, non si cercasse di fare altro).

Se è vero, come scrive S. Sontag in Davanti al dolore degli altri che “sin dal 1839, quando furono inventate le macchine fotografiche, la fotografia ha corteggiato la morte” (c’è da chiedersi come avrebbe potuto fare altrimenti, dato che la morte è inscritta nell’atto stesso di fare una foto), è anche vero che “l’immagine come shock e l’immagine come cliché rappresentano due facce della stessa medaglia”. Ma ai redattori dei giornali, agli autori di trasmissioni o di blog ecc., anche se hanno letto la Sontag (ma c’è da dubitarne), l’hanno dimenticata o, più facilmente, se ne fregano: ai loro destinatari non chiedono molto: solo l’arrendevolezza, il candore. 

Il fatto che a essere fotografata sia la madre dell’autore (figura alla quale peraltro negli ultimi tempi sono stati dedicati anche non pochi libri: ci si attacca all’amore, all’amore che si perde, invece che parlare del conflitto e dei tentativi di emancipazione con un padre, che non c’è più, e ciò che esso rappresentava; un potere oggi tanto pervasivo che non mette conto nemmeno di provare di combatterlo: in sostituzione ci sono i nemici esterni, che ora ti “attaccano” all’interno: facendo però meno morti di un normale weekend automobilistico, che invece non fa paura a nessuno – perché è la fatalità, quello...), cambia qualcosa agli occhi di chi guarda? La foto di un’altra persona nelle stesse situazioni e condizioni avrebbe forse (o si presume, si calcola, che dovrebbe avere) un diverso, e ovviamente minore, impatto? Cambia qualcosa rispetto alle migliaia di immagini simili viste in altre fotografie, o in tv o al cinema? Fatto salvo il dolore del figlio, che non voglio nemmeno mettere in discussione (semmai la sua pubblica esibizione, anche se il movente potrebbe essere un commosso omaggio, la fissazione di una memoria e insieme la pena – la penitenza –, di tenere la ferita sempre aperta, di non volere che si rimargini, per non sentirsi in colpa, e affranto, al solo pensiero che si possa rimarginare, che pian piano il ricordo si affievolisca fino, un giorno o l’altro, per pochi minuti o ore alla volta, a sfumare, e addirittura fino all’impensabile, ora, di non farsi più sentire...), non potrebbe  sorgere il dubbio che, essendo esposto in primo piamo sulla scena (e proprio per questo, al contempo, osceno), non sia tutto, appunto, inscenato? Dubbio di atroce cinismo, del quale mi vergogno anche se non posso rinunciarvi (la vergogna è l’effetto di questa impossibilità: ma è anche la vergogna per quella che l’altro, l’autore, non prova), se non fosse speculare, almeno in parte, al cinismo che già contiene e veicola l’immagine che ci viene mostrata, che ci viene sbattuta in faccia, che ci viene sventolata davanti al fine di sollecitare e smuovere ciò che di peggio, assieme, e forse anche di più, a ciò che di meglio è in noi?

Sontag scrive, a proposito dei Disastri della guerra di Goya, che costituirebbero un nuovo standard della sensibilità davanti al dolore, che il “resoconto della crudeltà della guerra è costruito come un’aggressione alla sensibilità dell’osservatore”. Non mostrano solo l’orrore e le conseguenze della guerra; non li denunciano solo in vista di una presa di coscienze di un rifiuto, ma si presentano anche, come faranno tante opere di “avanguardia” dal ‘900 a oggi, in un crescendo inarrestabile, una sfida: ce la fai a guardare? sei così insensibile da tollerare tutto questo? E la risposta è no, all’inizio; anzi: no, sì: perché la pulsione a guardare, magari solo sotto forma dell’occhiata fuggevole, di sguincio, non si lascia sopprimere (e infatti è su quella che fanno aggio gli artisti); ma infine diventa: sì, ce la faccio, ci ho fatto il callo, e mi sento (o non mi sento) un po’ un animale per questo, senza averne gli altri attributi: riconosco la parte di animale che è in me, non solo negli istinti e nella carne, ma, qui, anche e soprattutto nell’indifferenza, nel passare lo sguardo sopra la morte senza nemmeno vederla.

A ben poco serve che l’orrore, la sua estremizzazione e l’implicita mozione degli affetti (bambini, madre) si risolva immediatamente in retorica, in cliché appunto, con tutto che anche nel cliché è sedimentata una parte di verità, che esso però copre o soffoca, cioè neutralizza: esso risorge periodicamente, suscita qualche emozione, vera e al contempo standard, e tanti saluti.

Allora qual è l’obiettivo di queste operazioni? a cosa puntano? che pubblico vogliono colpire e quale poi effettivamente le guarda? Forse quelli che per un attimo hanno dimenticato la consuetudine alla durezza e vogliono rifarsi una verginità emotiva, che poi magari, sempre durante quello stesso istante, effettivamente ritrovano, compiacendosi di esserne stati ancora una volta capaci? Oppure uno spettatore avvezzo alle immagini shock che tende a trascurare, se non a cancellare, la realtà fotografata, o la realtà tout court, in cerca di chissà che altro (“documenti”, “bellezza”, “pezza d’appoggio” per questo o quest’altro discorso ecc., la “semplice umanità” o la “nuda vita” o altro ancora)?

Viceversa, ci sono però milioni, anzi miliardi, di persone per cui la realtà, quella “vera”, continua a esserci, anche quella immaginaria, religiosa: gente per la quale essa è più forte delle immagini anche inventate che ad essa si riferirebbero e che appunto per questo è facile confondere e sobillare perché scateni violenza, perché dia una scossa alle cose, come reazione, pura affermazione di esistenza (la propria), anche non avendo mai visto altrimenti, o del tutto, ciò contro cui protestano...  

 

(appunto 2010, incompleto o forse no) 

 

 

16/11/20

Indolente e indulgente


 Si rimprovera a volte, ingiustamente (sostiene lui), l’incapacità di uno sguardo indolente (non doloroso, carezzevole), perché di solito presta troppa attenzione a ciò che guarda, come a morderlo, a volerlo trangugiare e assimilare tutto. Ma così facendo finisce per non lasciarne sussistere nulla: quanto assimila si dissolve e il resto è solo ciò che la digestione espelle come inutile e dannoso. E’ uno sguardo distruttivo. Ciò che contrasta invece con l’eccessiva indulgenza di cui lo rimproverano sua moglie e gli amici.

Indulgenza, condiscendenza, accettazione, abbandono.

(Forse il suo sguardo è così feroce, però, ipotizzo io, in quanto sa che a dispetto della sua aggressività le cose gli resistono e sopravvivono intatte. La ferocia riguarda solo lui. Le persone invece possono soffrire. Con loro è meglio l’indulgenza, quindi.)

 

(ante 2005)

Immagine: Michelandelo Pistoletto, Autoritratto oro, 1960

12/11/20

Grazioli di schiena (Ricordi di copertura 14)

 

Mi sono fatto fare una foto di schiena. Non mi piaccio neanche così. Sono ritratto in piedi sulla prua di un battello; l’angolo di ripresa è leggermente dal basso, ma nonostante questo, invece di slanciarmi, come certamente avrei gradito, l’imperizia del fotografo improvvisato mi fa apparire ingobbito; la giacca aperta che mi rende più robusto e tarchiato di quanto non sia (o di quanto non mi piaccia immaginarmi), le pieghe della sua stoffa molto gualcita e quelle dei pantaloni troppo lunghi che si afflosciano sulle scarpe, i capelli scomposti prima dal viaggio in pullman e ora dal vento: tutto mi dà un’aria sciatta che di solito non ho (o non credo di avere). Eppure a questo orangotango non riesco a voler male, né mi viene da sbeffeggiarlo. Mi sembra tranquillo. Le mani che non si vedono, a giudicare dall’angolo dei gomiti, potrebbero suggerire che si tiene alla sbarra che sbuca ai suoli lati o, peggio, che sta orinando nell’acqua, ma per come lo conosco, quantunque si lasci talvolta allettare dal disprezzo, non mi risulta che ne abbia mai assunto uno così sovrano. Direi piuttosto che ha le mani nelle tasche, che in quel paio di pantaloni sono di taglio orizzontale. Sulla barca un po’ in pendenza i suoi piedi sono abbastanza saldi e lui guarda verso la terraferma senza ansia, forse con curiosità ma non con bramosia: vede che c’è, ne prende atto, guarda com’è ma lascia che la barca lo porti altrove. Anche lui è quello che è, uno che sta in piedi sulla prua di un battello e guarda fuori. Su di lui non ho molto da dire, e questo è quanto di meglio di lui si possa dire. No, in fondo non mi dispiace. Non ha nemmeno le orecchie a sventola.

  

*Non trovo più la foto originale. Questa è delle stesso periodo (fine '90-inizio 2000), con la stessa giacca e lo stesso caso umano fotografato di schiena. Notare i capelli: tanti, tutti, scuri.

10/11/20

Annunci mortuari


Nei miei giri attorno all’isolato a cui sono costretto in questo periodo, mi fermo ogni tanto a leggere gli annunci mortuari e talvolta immagino la reazione che avrò quando vedrò il mio, da morto che non sa di esserlo, nella vita apparente dopo la morte che non dovrebbe essere diversa dalla vita apparente che conduco ora. Leggerò con cura le notizie, il dolore dei sopravvissuti, l’orario e la modalità delle funzioni funebri che lascerò liberi di decidere chi di dovere anche se avrò dichiarato la mia preferenza per una cerimonia civile la cremazione e la dispersione delle ceneri, gli anni che avrò avuto, e una fotografia in cui non mi riconoscerò, come non riconoscerò, del resto, nemmeno di essere io quel tale del manifesto. Non era poi così vecchio, penserò. Chissà cosa aveva. Speriamo che non abbia sofferto e fatto soffrire troppo i suoi cari. Le solite banalità che si pensano davanti a quel tipo di manifesti, insomma. Le banalità sono una regola nella vita apparente, anche quella post mortem. Sarà stato una brava persona? Importa così tanto, dopo che sei morto?, penserò ancora, prima di andarmene, con il solito fastidioso motivetto che mi girerà per la testa in quei giorni. E allora, per scacciarlo, ne canterò silenziosamente un altro.

 


08/11/20

L’Enseigne de Gersaint, di Antoine Watteau (cap. finale di “Figura di schiena”)



L’Enseigne de Gersaint, di Antoine Watteau, è del 1720 e quindi è un po’ fuori dei limiti che abbiamo tracciato, ma merita comunque di essere preso in considerazione. Il quadro è di grandi dimensioni, 163x308 cm., e rappresenta la bottega del mercante d’arte Gersaint, nella quale il titolare, la moglie e un gentiluomo che è forse lo stesso Watteau mostrano, con l’aiuto di commessi, i tesori della bottega ad alcuni avventori. È un quadro straordinario sotto molti aspetti che qui ci limiteremo ad accennare: per lo scopo (è un cartellone pubblicitario) e per la scena, che illustra la vita parigina vista dalla strada e l’arte portata a livello di marciapiede e ormai entrata a pieno titolo nel novero delle merci, sia pure ancora aureolata di eleganza e buon gusto, con l’artista che si rappresenta come gentiluomo elegante, fuori dall’atelier e senza gli strumenti di lavoro a connotarlo, e interpreta un ruolo che avrà un’importanza sempre maggiore: quello del PR.

Le figure di schiena sono tre, e tutte importanti. Al centro una coppia di gentiluomini sta assaporando nel dettaglio un grande ovale: uno è in piedi mentre l'altro è inginocchiato e con la destra tiene degli occhialini per vedere meglio: l’asservimento alla religione dell’arte (all’arte che per alcuni ha ormai preso il posto della religione) non potrebbe essere rappresentato meglio. Il primo, pur piegato in avanti, conserva una sua dignità, mentre l'altro elegantone, certamente un uomo ricco, di alta posizione e che si può facilmente immaginare di sussiegosa raffinatezza, assumendo la postura dell’amatore si abbassa nell’atto stesso di mostrare la sua superiore capacità di gusto e conoscenza. L’arte è riuscita in un intento che la società è ancora ben lungi dal realizzare: i potenti si inginocchiano al suo cospetto, in una nuova forma di devozione laica, che se da una parte assicura a chi vi si piega una posizione di superiorità spirituale, dall’altra nondimeno lo induce a un volontario gesto di sottomissione, di cui l’esecutore ignora però le implicazioni. Il connaisseur si prostra davanti al quadro per esaminarne la fattura, per goderne ogni dettaglio anche a costo di perdere di vista l’insieme dell’opera, inseguendo i capricci di un desiderio che lo fa errare sulla materia che copre la superficie della tela assaggiando i petits fours della pasticceria pittorica. Ignorando la prescrizione di “fissare l’occhio” lo lascia vagare per il suo piacere privato col rischio di mettere in discussione le posizioni prescritte e che “il tumulto (albertiano), la sommossa (baudelairiana) dei dettagli dislochino il ‘tutto politico’ del quadro facendo sì che i ‘piccoli’ non abbiano più bisogno dei ‘grandi’ e prendano pure il sopravvento” (Arasse, Le détail, 247). È il mondo a gambe all’aria, la rivoluzione!

Altrettanto interessante è la figura della bella signora sulla sinistra (identica ad altre presenti in quadri famosi del grande pittore), che un gesto del presunto Watteau invita a distogliersi da un ritratto che un inserviente sta riponendo in una cassa (è improbabile che lo stia togliendo, perché l’altro inserviente lo guarda come in attesa che abbia finito per poter fare altrettanto con il quadro che tiene in braccio). Il quadro è un ritratto, forse regale, e Watteau sembra quasi voler dire alla donna di lasciar perdere, di non farsi ingannare dal soggetto, che la vera pittura è ben altro. La sciocchina invece non riesce a distoglierne lo sguardo: ma che pittura e pittura! Forse non lo sa, ma intuisce benissimo che l’arte è al servizio di qualcosa d’altro, nonostante si sforzi di farsi valere per sé: se rappresenta qualcosa, questo qualcosa ha il suo valore, altro che storie! E questo qualcosa non può essere che il re, o la divinità, ovvero, se non loro direttamente, le loro gesta e manifestazioni o i loro rappresentanti, fisici o concettuali. Per ciò che contraddice questa banale evidenza (dettagli incongrui, materia, debordamenti ecc.) non si può mostrare che sprezzatura. Che ci sia qualcosa che erode dall’interno e mina la coerenza e le gerarchie della rappresentazione e di ciò che è rappresentato è puro accidente: le cose, ahimè, non sono perfette, perché crucciarsene finché tutto tiene? Lei è di schiena. Non vuole assoggettarsi al nuovo ordine, si lascia distrarre da altri allettamenti, segue altre fantasie. Guarda lontano, con l’ausilio del quadro, oltre di esso.

 Ciò che fa la figura di schiena nel guardare il dettaglio, lo fa anche la figura di schiena rappresentata in dettaglio: se la si vuole vedere, occorre dislocare i propri punti di vista e di distanza e disarticolare lo spazio del quadro e, per chi scrive, del discorso. Essa decostruisce l’organizzazione dello spazio anche perché, contemporaneamente, ne inserisce un altro, il suo: mostra un altro sguardo e ne indica la necessità. Obbliga a uno sguardo ravvicinato e indica, col proprio esempio, la necessità di uno sguardo lontano, che parte da lontano e lontano si perde.

Nello spazio dispiegato dal quadro dove tutto è presente e sotto il controllo così del pittore come dello spettatore, dove tutto si incastra esattamente nella funzione che scena e narrazione gli pre-scrivono, la figura di schiena è la pietra d’inciampo che segnala il limite posto all’interpretazione dello spettatore e la necessità, se vuole continuare, di spiccare un salto, che spesso è al buio, e di cambiare registro rinunciando ai punti di riferimento che gli danno sicurezza, abbandonandosi all’avventura della speculazione sempre in qualche modo arbitraria, e quindi ad alto rischio di confutazione, quando non di ridicolo; mentre sul versante del pittore (che è anche spettatore) è l’indizio, non importa quanto consapevole, della cecità che ogni visione contiene, del vuoto che minaccia ogni scena, anche la più rigorosa, la più densa e catafratta. È il punto di tenebra, il buco da cui rischiano di essere risucchiati da un momento all’altro sia la luce sia l’ombra, che il quadro tiene insieme ancora per un istante, che può durare indefinitamente e sembrare eterno, in un fulmineo miracolo che ogni spettatore vede ripetersi davanti a sé e che in realtà è lui stesso a produrre, quando ci riesce, quando il buio già non lo inghiotte nel suo stesso vedere.

 

 



 





04/11/20

Curvatura, anzi: parabola, del pensarsi

Invece di pensare, si pensa. Nient’altro. Così l’affacciarsi di un diverso pensiero non può che coglierlo alla sprovvista, inutilizzabile. È del resto un evento tanto raro che appropriarsene è l’ultima delle sue preoccupazioni: invece di fissarlo e di analizzarlo si limita a guardarlo meravigliato, a fantasticarci sopra come se fosse una rampa di lancio verso cieli ignoti, nella cui nebulosità si sprofonda senza nemmeno tentare di delineare la più piccola area, fosse solo quella in cui in quell’istante si muove o passa, verso altre, nuove e altrettanto nebulose. Sa che al primo tentativo di approfondimento, infatti, mediazioni e nessi cancerogenamente prolificherebbero fino ad impedire qualsiasi moto, e la vuota paralisi abituale, peraltro confortevole, si ripresenterebbe. Ma anche da questo sguardo stupito non è che tragga vantaggi: fin che può continua a sussistervi, rapito; poi, colmando il breve intervallo che separa lo stupore dalla stupidità, finisce col guardare lo sguardo per, subito, non vedere più niente. Questo niente dapprima lo sgomenta, poi lo sazia e infine lo trascina a un iperattivismo della nientificazione. Si applica allora a dimenticare tutto ciò che sa o crede di sapere. I risultati permangono scoraggianti. Cercando di dimenticare una cosa, infatti, si libera immediatamente lo spazio per un’altra che di nuovo lo trae nella deriva del proprio oblio, non senza suscitare la tensione, e forse addirittura la curiosità (che è il sigillo del fallimento), verso altre ancora da essa emanate o ad essa adiacenti, sotto il dominio assoluto della contiguità. Più procede quindi, più la distruzione per dimenticanza di una cosa risucchia nella propria cavità il pieno di tutte le altre simultaneamente, secondo un meccanismo che tende a diventare infinito riproducendo solo se stesso, indipendentemente dagli strumenti di cui una volta si serve e rendendo superflui persino i più labili simulacri di reazione. Potrebbe essere proprio questo il momento in cui la sconfitta si ribalta nell’estasi della vittoria, tanto più sfolgorante quanto meno cercata, ma non è così: infatti ora ricorda tutto, anche ciò che aveva dimenticato prima ancora di cominciare a dimenticare.

Allora prova a dire basta; se non che qualcosa come una fame sopravvive all’interruzione, a meno che non sia essa pure una semplice e vuota sensazione, un’altra illusione. È ciò che spera. Se essa lo invadesse, se ne fosse totalmente prigioniero, chissà, potrebbe dimenticarsi di dimenticare.

Ma non è così facile: il fatto è che non si dimentica di se stesso. In qualsiasi frangente sempre e solo di se stesso continua ad occuparsi, nonostante tutto. Anche prima non stava facendo altro, constata rammaricandosi, ma non troppo. Certo gli piacerebbe, o almeno così crede, occuparsi dell’altro, se non che sempre è ricondotto al solito cerchio. Fantastica che occuparsi d’altro sarebbe anche il modo migliore di occuparsi di sé, ma non può ignorare che anche per occuparsene deve pur sempre occuparsi di sé, e che anzi proprio questo è il modo migliore. Almeno per lui. Finisce che non si occupa più di niente, se non di questa pura preoccupazione.

Inoltre non è paziente; se le cose stanno in qualche modo, vuole troppo capire come stanno, e troppo direttamente dirlo. Pensando solo a sé pensa di pensarsi direttamente, nel modo più immediato e compiuto, l’unico che non gli sembri una menzogna, sia pure ben decorata. Sospetta a volte che appunto questa sia la menzogna peggiore, così come a volte sospetta che la menzogna è il modo migliore per non mancare la verità, ma alle potenzialità del linguaggio indiretto non riesce comunque a rassegnarsi, forse perché, di nuovo, non riesce a sentirlo come suo: come se ne avesse paura. Quindi parla sempre solo di sé, avendo ormai rinunciato a parlare d’altro.

Sì, vorrebbe dire tutto direttamente, per sé e di sé, non fosse che il linguaggio diretto è così maledettamente parziale, sempre bisognoso di nuove diramazioni, specificazioni e soccorsi: si tradisce e tradisce. Per avvicinare, allontana, rivelandosi ancora più indiretto dell’altro, senza fine. Così lui, non riuscendo più a dire né a pensare niente, finalmente tace. Ma gli rode.

Lentamente si dissolve, evapora come una medusa sulla ghiaia, senza lasciare però, come le meduse, nemmeno quel delicato alone transitorio azzurro o rosa. Il pensiero diverso sarebbe, certo, la sua unica possibilità, ma proprio questa possibilità è l’unica che gli è preclusa, inutilizzabile. Aspetta comunque a soccorrerlo, per la sola inerzia dell’attesa, il suo scostante ritorno: che non troppo tardi egli divenga utilizzabile per esso.