04/11/20

Curvatura, anzi: parabola, del pensarsi

Invece di pensare, si pensa. Nient’altro. Così l’affacciarsi di un diverso pensiero non può che coglierlo alla sprovvista, inutilizzabile. È del resto un evento tanto raro che appropriarsene è l’ultima delle sue preoccupazioni: invece di fissarlo e di analizzarlo si limita a guardarlo meravigliato, a fantasticarci sopra come se fosse una rampa di lancio verso cieli ignoti, nella cui nebulosità si sprofonda senza nemmeno tentare di delineare la più piccola area, fosse solo quella in cui in quell’istante si muove o passa, verso altre, nuove e altrettanto nebulose. Sa che al primo tentativo di approfondimento, infatti, mediazioni e nessi cancerogenamente prolificherebbero fino ad impedire qualsiasi moto, e la vuota paralisi abituale, peraltro confortevole, si ripresenterebbe. Ma anche da questo sguardo stupito non è che tragga vantaggi: fin che può continua a sussistervi, rapito; poi, colmando il breve intervallo che separa lo stupore dalla stupidità, finisce col guardare lo sguardo per, subito, non vedere più niente. Questo niente dapprima lo sgomenta, poi lo sazia e infine lo trascina a un iperattivismo della nientificazione. Si applica allora a dimenticare tutto ciò che sa o crede di sapere. I risultati permangono scoraggianti. Cercando di dimenticare una cosa, infatti, si libera immediatamente lo spazio per un’altra che di nuovo lo trae nella deriva del proprio oblio, non senza suscitare la tensione, e forse addirittura la curiosità (che è il sigillo del fallimento), verso altre ancora da essa emanate o ad essa adiacenti, sotto il dominio assoluto della contiguità. Più procede quindi, più la distruzione per dimenticanza di una cosa risucchia nella propria cavità il pieno di tutte le altre simultaneamente, secondo un meccanismo che tende a diventare infinito riproducendo solo se stesso, indipendentemente dagli strumenti di cui una volta si serve e rendendo superflui persino i più labili simulacri di reazione. Potrebbe essere proprio questo il momento in cui la sconfitta si ribalta nell’estasi della vittoria, tanto più sfolgorante quanto meno cercata, ma non è così: infatti ora ricorda tutto, anche ciò che aveva dimenticato prima ancora di cominciare a dimenticare.

Allora prova a dire basta; se non che qualcosa come una fame sopravvive all’interruzione, a meno che non sia essa pure una semplice e vuota sensazione, un’altra illusione. È ciò che spera. Se essa lo invadesse, se ne fosse totalmente prigioniero, chissà, potrebbe dimenticarsi di dimenticare.

Ma non è così facile: il fatto è che non si dimentica di se stesso. In qualsiasi frangente sempre e solo di se stesso continua ad occuparsi, nonostante tutto. Anche prima non stava facendo altro, constata rammaricandosi, ma non troppo. Certo gli piacerebbe, o almeno così crede, occuparsi dell’altro, se non che sempre è ricondotto al solito cerchio. Fantastica che occuparsi d’altro sarebbe anche il modo migliore di occuparsi di sé, ma non può ignorare che anche per occuparsene deve pur sempre occuparsi di sé, e che anzi proprio questo è il modo migliore. Almeno per lui. Finisce che non si occupa più di niente, se non di questa pura preoccupazione.

Inoltre non è paziente; se le cose stanno in qualche modo, vuole troppo capire come stanno, e troppo direttamente dirlo. Pensando solo a sé pensa di pensarsi direttamente, nel modo più immediato e compiuto, l’unico che non gli sembri una menzogna, sia pure ben decorata. Sospetta a volte che appunto questa sia la menzogna peggiore, così come a volte sospetta che la menzogna è il modo migliore per non mancare la verità, ma alle potenzialità del linguaggio indiretto non riesce comunque a rassegnarsi, forse perché, di nuovo, non riesce a sentirlo come suo: come se ne avesse paura. Quindi parla sempre solo di sé, avendo ormai rinunciato a parlare d’altro.

Sì, vorrebbe dire tutto direttamente, per sé e di sé, non fosse che il linguaggio diretto è così maledettamente parziale, sempre bisognoso di nuove diramazioni, specificazioni e soccorsi: si tradisce e tradisce. Per avvicinare, allontana, rivelandosi ancora più indiretto dell’altro, senza fine. Così lui, non riuscendo più a dire né a pensare niente, finalmente tace. Ma gli rode.

Lentamente si dissolve, evapora come una medusa sulla ghiaia, senza lasciare però, come le meduse, nemmeno quel delicato alone transitorio azzurro o rosa. Il pensiero diverso sarebbe, certo, la sua unica possibilità, ma proprio questa possibilità è l’unica che gli è preclusa, inutilizzabile. Aspetta comunque a soccorrerlo, per la sola inerzia dell’attesa, il suo scostante ritorno: che non troppo tardi egli divenga utilizzabile per esso.


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