08/11/20

L’Enseigne de Gersaint, di Antoine Watteau (cap. finale di “Figura di schiena”)



L’Enseigne de Gersaint, di Antoine Watteau, è del 1720 e quindi è un po’ fuori dei limiti che abbiamo tracciato, ma merita comunque di essere preso in considerazione. Il quadro è di grandi dimensioni, 163x308 cm., e rappresenta la bottega del mercante d’arte Gersaint, nella quale il titolare, la moglie e un gentiluomo che è forse lo stesso Watteau mostrano, con l’aiuto di commessi, i tesori della bottega ad alcuni avventori. È un quadro straordinario sotto molti aspetti che qui ci limiteremo ad accennare: per lo scopo (è un cartellone pubblicitario) e per la scena, che illustra la vita parigina vista dalla strada e l’arte portata a livello di marciapiede e ormai entrata a pieno titolo nel novero delle merci, sia pure ancora aureolata di eleganza e buon gusto, con l’artista che si rappresenta come gentiluomo elegante, fuori dall’atelier e senza gli strumenti di lavoro a connotarlo, e interpreta un ruolo che avrà un’importanza sempre maggiore: quello del PR.

Le figure di schiena sono tre, e tutte importanti. Al centro una coppia di gentiluomini sta assaporando nel dettaglio un grande ovale: uno è in piedi mentre l'altro è inginocchiato e con la destra tiene degli occhialini per vedere meglio: l’asservimento alla religione dell’arte (all’arte che per alcuni ha ormai preso il posto della religione) non potrebbe essere rappresentato meglio. Il primo, pur piegato in avanti, conserva una sua dignità, mentre l'altro elegantone, certamente un uomo ricco, di alta posizione e che si può facilmente immaginare di sussiegosa raffinatezza, assumendo la postura dell’amatore si abbassa nell’atto stesso di mostrare la sua superiore capacità di gusto e conoscenza. L’arte è riuscita in un intento che la società è ancora ben lungi dal realizzare: i potenti si inginocchiano al suo cospetto, in una nuova forma di devozione laica, che se da una parte assicura a chi vi si piega una posizione di superiorità spirituale, dall’altra nondimeno lo induce a un volontario gesto di sottomissione, di cui l’esecutore ignora però le implicazioni. Il connaisseur si prostra davanti al quadro per esaminarne la fattura, per goderne ogni dettaglio anche a costo di perdere di vista l’insieme dell’opera, inseguendo i capricci di un desiderio che lo fa errare sulla materia che copre la superficie della tela assaggiando i petits fours della pasticceria pittorica. Ignorando la prescrizione di “fissare l’occhio” lo lascia vagare per il suo piacere privato col rischio di mettere in discussione le posizioni prescritte e che “il tumulto (albertiano), la sommossa (baudelairiana) dei dettagli dislochino il ‘tutto politico’ del quadro facendo sì che i ‘piccoli’ non abbiano più bisogno dei ‘grandi’ e prendano pure il sopravvento” (Arasse, Le détail, 247). È il mondo a gambe all’aria, la rivoluzione!

Altrettanto interessante è la figura della bella signora sulla sinistra (identica ad altre presenti in quadri famosi del grande pittore), che un gesto del presunto Watteau invita a distogliersi da un ritratto che un inserviente sta riponendo in una cassa (è improbabile che lo stia togliendo, perché l’altro inserviente lo guarda come in attesa che abbia finito per poter fare altrettanto con il quadro che tiene in braccio). Il quadro è un ritratto, forse regale, e Watteau sembra quasi voler dire alla donna di lasciar perdere, di non farsi ingannare dal soggetto, che la vera pittura è ben altro. La sciocchina invece non riesce a distoglierne lo sguardo: ma che pittura e pittura! Forse non lo sa, ma intuisce benissimo che l’arte è al servizio di qualcosa d’altro, nonostante si sforzi di farsi valere per sé: se rappresenta qualcosa, questo qualcosa ha il suo valore, altro che storie! E questo qualcosa non può essere che il re, o la divinità, ovvero, se non loro direttamente, le loro gesta e manifestazioni o i loro rappresentanti, fisici o concettuali. Per ciò che contraddice questa banale evidenza (dettagli incongrui, materia, debordamenti ecc.) non si può mostrare che sprezzatura. Che ci sia qualcosa che erode dall’interno e mina la coerenza e le gerarchie della rappresentazione e di ciò che è rappresentato è puro accidente: le cose, ahimè, non sono perfette, perché crucciarsene finché tutto tiene? Lei è di schiena. Non vuole assoggettarsi al nuovo ordine, si lascia distrarre da altri allettamenti, segue altre fantasie. Guarda lontano, con l’ausilio del quadro, oltre di esso.

 Ciò che fa la figura di schiena nel guardare il dettaglio, lo fa anche la figura di schiena rappresentata in dettaglio: se la si vuole vedere, occorre dislocare i propri punti di vista e di distanza e disarticolare lo spazio del quadro e, per chi scrive, del discorso. Essa decostruisce l’organizzazione dello spazio anche perché, contemporaneamente, ne inserisce un altro, il suo: mostra un altro sguardo e ne indica la necessità. Obbliga a uno sguardo ravvicinato e indica, col proprio esempio, la necessità di uno sguardo lontano, che parte da lontano e lontano si perde.

Nello spazio dispiegato dal quadro dove tutto è presente e sotto il controllo così del pittore come dello spettatore, dove tutto si incastra esattamente nella funzione che scena e narrazione gli pre-scrivono, la figura di schiena è la pietra d’inciampo che segnala il limite posto all’interpretazione dello spettatore e la necessità, se vuole continuare, di spiccare un salto, che spesso è al buio, e di cambiare registro rinunciando ai punti di riferimento che gli danno sicurezza, abbandonandosi all’avventura della speculazione sempre in qualche modo arbitraria, e quindi ad alto rischio di confutazione, quando non di ridicolo; mentre sul versante del pittore (che è anche spettatore) è l’indizio, non importa quanto consapevole, della cecità che ogni visione contiene, del vuoto che minaccia ogni scena, anche la più rigorosa, la più densa e catafratta. È il punto di tenebra, il buco da cui rischiano di essere risucchiati da un momento all’altro sia la luce sia l’ombra, che il quadro tiene insieme ancora per un istante, che può durare indefinitamente e sembrare eterno, in un fulmineo miracolo che ogni spettatore vede ripetersi davanti a sé e che in realtà è lui stesso a produrre, quando ci riesce, quando il buio già non lo inghiotte nel suo stesso vedere.

 

 



 





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