27/06/22

Un'esagerazione delicata (Appunti per niente 22)

 

a)

Prende una cosa, a volte, una situazione, una figura, un gesto o un’espressione e la amplifica o ne esaspera un aspetto – afferma con una modestia che sa di puro orgoglio – portandola fino al limite (ma fermandosi un po’ prima, di solito), raramente in modo feroce (come Bernhard) però, o solo aggressivo. Un’esagerazione quasi impercettibile, in via di principio, come se fosse una logica conseguenza della piega presa dal discorso, per quanto non del tutto prevedibile né prevista. Un’esagerazione delicata, gentile. Quella che ogni cosa, ogni gesto, ogni sguardo o pensiero, meriterebbe. Ogni sosta la suscita, e la richiede. E a volte si obbedisce.

 

b)

Da parecchio tempo a questa parte riesce a scrivere – dice – solo cose di poche righe, una paginetta al massimo. Qualcosa che si può chiudere in pochi minuti. Oltre è il vuoto, la nausea. Ma una volta iniziato, continua finché può, e allora capita che riesca anche a sforare il limite, senza rendersene conto. Scrive, allora, per andare oltre la nausea. Per attraversare, finché continua a scrivere, l’insensatezza. Magari c’è qualcosa laggiù.

 


21/06/22

Il rombo del Mississippi




"L’amore sale dal sottosuolo, dal suolo più profondo; l’amore è l’altro rombare del Mississippi profondamente al di sotto della campagna inondata e apparentemente quieta"

(dove la cosa più interessante, - anzi: più bella... quella che fa alzare la testa e pensare: ah! - qui come altrove in P. Handke, di cui sto leggendo i Diari, non è il concetto che sarebbe illuminato o chiarito o spiegato ecc. - qui l’amore, che chi se ne frega - ma l’immagine che fa da paragone, il rombare del M. sotto la campagna inondata... lo sguardo sulla campagna inondata e l'ascolto del rombare).

 

(E per oggi la giornata è salva (se una cosa del genere è possibile; se non si tratta solo di parole, come propendo a credere). Anche oggi ho imparato qualcosa. Qualcosa che ora so che esiste e posso provare a immaginare. Il rombo del Mississippi!)

20/06/22

Witold Gombrowicz, Ferdydurke


                                                            

Leggere Gombrowicz è una pratica di igiene mentale che andrebbe ripetuta periodicamente. Non sono state rilevate controindicazioni; solo benefici (a meno di considerare il sottoscritto, che lo fa da cinquant’anni, la smentita decisiva). Per cui dovremmo essere grati al Saggiatore che da qualche tempo sta riproponendo la sua opera, anche con inediti come il diario intimo Kronos di cui hanno già parlato su doppiozero chi qui scrive e Francesco M. Cataluccio, santo protettore di tutti i gombrowicziani d’Italia.

Ora è la volta di Ferdydurke, uno dei libri più importanti della prima metà del ‘900, nella nuova splendida traduzione (o riscrittura, dato l’alto tasso di invenzione linguistica del libro) di Irene Salvatori e Michele Mari, corredato da un’introduzione dello stesso Mari e da una postfazione del citato Cataluccio.

Scritto attorno alla metà degli anni ‘30   dopo che l’autore  (nato nel 1904) aveva dato alle stampe i racconti Ricordi del periodo della maturazione (1933), poi confluiti con aggiunte posteriori in Bacacay (1957), che gli avevano attirato più grane e equivoci che riconoscimenti, nonché accuse di immaturità e altre reprimende , Ferdydurke esce nel 1937 e crea subito scompiglio, tra i molti che lo reputano una bambinata provocatoria e si scandalizzano  e i pochi che lo riconoscono subito come un capolavoro, a cominciare dal grande Bruno Schulz che gli dedica uno splendido saggio, che si può leggere nel numero monografico che “Riga” ha consacrato a Gombrowicz (n. 7, Marcos y Marcos, 1994). Non era facile, specie in una Polonia ancora arretrata, tra le opposte retoriche della vecchia nobiltà da una parte e delle ultime generazioni attratte dalla modernizzazione nei suoi aspetti più superficiali dall’altra (entrambe oggetto di satira feroce nel libro), riconoscere la carica innovativa del romanzo per struttura e linguaggio, la sua serietà al di là dell’“atmosfera di invasivo e pervasivo pansarcasmo” in cui ogni evento narrato è immerso, per tacere dei molti elementi “profetici” dei temi affrontati e soprattutto del modo di affrontarli e decostruirli, in gran parte validissimi anche oggi.

La storia è semplice: Giuso, uno scrittore trentenne, che è anche il narratore di Ferdydurke, viene riportato controvoglia all’età scolare ad opera di un personaggio di nome Pimko, e cerca in tutti i modi di essere restituito alla sua età fisica e mentale (su cui però ha qualche dubbio lui pure) passando per i luoghi che più di tutti tendono invece a mantenerlo nella sua condizione di minorità: la scuola, una moderna famiglia cittadina (i Jovinelli), e la famiglia e la società tradizionali, qui incarnate dalla piccola nobiltà terriera ancora residente in campagna a cui anche i Gombrowicz appartenevano. Tre regni in cui il protagonista è accompagnato, prima, con una certa riluttanza, da Pimko, e poi dal suo compagno di classe, Mentino, invaghito dell’idea di giovinezza “naturale”, spontanea e ingenua, che sarà incarnata nella figura del “garzone”, non deformato dai comportamenti artefatti e dal “ghigno” che hanno tutti i compagni di classe, i giovani e gli adulti della città, secondo i rispettivi ruoli. Le vicende sono scandite da due intervalli, o entr’acte comico-filosofici (due capolavori “teatrali” che anticipano quelli dei decenni successivi), a loro volta preceduti da due introduzioni altrettanto comico-filosofiche non nonostante, ma proprio nella seriosità polemica del loro tenore riflessivo, in certi passaggi un po’ datato e noioso invece.

L’ideale della giovinezza, la falsa maturità, l’infantilizzazione della società, la, l’infanzia che perdura e viene denegata, il conflitto tra le istanze che vogliono imbrigliare e regolare la vita biologica e sociale e quelle che vi si oppongono, la necessità delle prime e l’incontrollabile attrazione per le altre sono i temi principali del romanzo. Interessanti, ma niente di che, specie col nostro intelligentissimo senno di poi, se non fosse che il romanzo, ed è quello che conta di più, è una miniera ininterrotta di invenzioni di ogni genere, a partire da quelle stilistiche e formali, di analisi e descrizioni di contesti luoghi e consuetudini sociali acutissime nella loro resa paradossale, e di scene e sorprese narrative assolutamente irresistibili.

Come i cliché sociali, anche quelli formali e espressivi vengono aggrediti, denunciati e parodiati, al pari delle pratiche e delle presunte leggi costruttive del romanzo nel momento stesso in cui, scrivendo, se ne vanno formando altre sotto gli occhi di chi scrive, in primis, e poi di chi legge.

Niente ha stabilità. Tutto è ribaltato, deviato, immerso in una travolgente corrente di nonsenso, costretto a convivere con il suo contrario, a rinunciare a ogni pretesa di solidità e compiutezza. La maturità di ogni cosa e persona e relazione, intesa come consolidamento in un regime ontologico e esistenziale che può ambire a durare e a bastare a se stesso, è irraggiungibile, per quanto comprensibile possa essere il desiderio di conseguirla.

Niente è solo quello che è: tutto “sembra colto di sbieco”, come viene detto in Pornografia; tutto cela qualcosa d’altro, ogni cosa è se stessa e anche, e insieme, altro ancora, da definire di volta in volta. E soprattutto “tutto è foderato d’infanzia”, per sempre. Non è un dramma, a saperlo e a tenerlo sempre presente quando il cambiamento e la dissoluzione e la regressione e l’incompiutezza bussano alla nostra porta. Praticamente sempre.

L’uomo nasce prematuro e tale resta. La sua maturazione è alquanto tardiva e resta segnata per sempre dall’immaturità originaria, incisa in modo indelebile nella sua mente e nel suo comportamento. Niente di grave. Il guaio è quando tale immaturità, e le età che meglio la rappresentano, l’infanzia e soprattutto la giovinezza, da qualcosa con cui convivere e da superare diventano un ideale senza tempo da perseguire. L’immaturità è l’informe, è confusione e energia, e prenderla a modello di vita è una contraddizione perché modelli e ideali sono irrigidimento, regola, in una parola forma. E niente è più sbagliato e stupido, tragico e comico, di pretendere di elevare, se non per ragioni tattiche temporanee, l’inferiore a superiore (“Riesco a respirare solo nelle regioni inferiori”, aveva scritto Walser, e certo Gombrowiz, che è difficile che lo conoscesse, la pensava come lui: solo che poi si sarebbe messo a ridere, o a far ridere: tutto traballa sotto il suo sguardo); niente è più dannoso di trasformare l’informe in ideale, e quindi di dare una forma all’informe, per disinnescare la sua potenziale carica eversiva, o quanto meno destabilizzante: che è poi il corrispettivo in fondo identico della volontà di imbracatura e subordinazione dominante in passato. Ambizione che, a quanto pare, è diventata invece l’abito comune dei nostri giorni.

In passato la lotta contro l’informe rappresentato dalla giovinezza ma certo non a essa circoscritto, contro il pericolo che esso rappresentava e l’angoscia che suscitava la sua inafferrabile fluidità, aveva dato luogo all’irrigidimento delle forme, consolidate dalle tradizioni e confermate da una supposta oggettiva razionalità, promosse dall’adulto (fisiologico), che per proteggersi erigeva a valore il suo opposto in ogni ambito dell’esistenza, come se circoscrivendolo dal punto di vista temporale potesse neutralizzare la sua costante minaccia di riaffioramento e di corrosione.

Ogni età è (dovrebbe essere) compiuta sé, non in relazione a, o in vista di, un’altra: l’idea di suddividere il decorso dell’esistenza e di classificare dà a ciascuna un indebito statuto ontologico, per quanto diverso da società a società e da tempo a tempo, che le tiene separate e senza comunicazioni reciproche che non siano facilmente gestibili.

Invece siamo condannati all’incompiutezza. Alla carenza originaria non è possibile mettere nessuna pezza definitiva. Ognuna non fa che mettere il risalto ciò che dovrebbe suturare. Magari blocca gli spifferi, alcuni perlomeno, ma nel farlo soffoca e opprime. Va quindi denudata come tale e smantellata, almeno in linea di principio, perché poi, del tutto senza, si vive male. È tutto un conflitto dunque, un duello da ripetere in continuazione, una ininterrotta zuffa generale, come quelle che chiudono le varie parti di Ferdydurke. Inutile forse, in fondo, perché è da riprendere ogni volta da un versante diverso, perché qualsiasi risultato si irrigidisce in una forma che presto rivela la propria immaturità nell’atto stesso di negarla.

Ciononostante, tanto per cominciare, è opportuno smantellare tutto. Mostrare il lato fasullo e risibile di ogni mattoncino delle consuetudini sociali e della loro idealizzazione, difensiva e protettiva almeno quanto oppressiva, di regole e valori. Poi vedremo. Intanto usiamo il grimaldello dell’informe, del basso, dello schifoso, dell’inconfessabile; poi (o al contempo: meglio) smantelliamo anche quello. L’ufficialità e la maturità sono patetiche proprio in quanto seriose, impettite, strategie contenitive (come le panciere) che è possibile rovesciare in tutta la loro fragilità e la loro comica inconsistenza. Nemmeno la giovinezza e la naturalezza, però, si salvano (“Senza sosta ci spuntano nuovi brufoli e nuovi ideali”), per quanto siano sempre meglio. Perché contengono in sé e scatenano il caos e l’anarchia. La vitalità e la possibilità della rivolta. Degli spiragli. E la bellezza, che nessuno meglio del giovane incarna.


In Pornografia l’espediente di mettere tra parentesi i sostantivi (ragazzo) e (ragazza) rende esplicita la sospensione del significato corrente delle parole, il loro uso obliquo, riconoscibile e al contempo spostato, o neutralizzato, senza che possano quindi assurgere a valore in sé, e quindi a nuova forma e ideale.

 

Feto, neonato, infante, bambino, preadolescente, adolescente, postadolescente, neogiovane, giovane, postgiovane, postpostgiovane, postpostpostgiovane, anziano, vecchio, decrepito, trapassato, eterno. Ho dimenticato qualcosa? Ah sì, maturo. La vita è stata sezionata in tante fettine sempre più sottili grazie agli strumenti di cui la scienza ci ha fatto munifico dono. In passato c’erano solo tre età: giovinezza, maturità e (senza sdolcinate perifrasi) vecchiaia. Sempliciotti! L’infanzia nemmeno la consideravano: esserini sporchi, frignoni, pieni di pretese e di cacca... rompicoglioni che rientravano solo a fatica nell’umanità. Animaletti da lasciare allo stato brado o da affidare al servidorame e da addomesticare al più presto con metodi spicci, a seconda dello stato sociale. Vada come vada.

G. si attiene ancora a questa tripartizione, e anzi la riduce ulteriormente: c’è la giovinezza poi tutto il resto. I vecchi, anche qui precorrendo la modernità, non li considera neppure: non servono. Fuori dai piedi allora, nelle RSA o a Palazzo Madama. Due categorie bastano e avanzano, come sanno i filosofi, che di opposizioni hanno sempre fatto largo uso. E Gombrowicz la filosofia non solo l’ha studiata, ma l’ha anche insegnata, vedi il Corso di filosofia in sei ore e un quarto). Con le coppie concettuali il discorso è più chiaro e efficace. Per la sua logica, che è conflittuale, due bastano e avanzano.

Giovinezza e maturità. Il resto non c’è, senza star troppo a sofisticare.

Gombrowicz però, almeno in Ferdydurke, non intende innalzare l’una contro l’altra, nonostante l’attrazione che prova per la prima, adolescenza inclusa (l’altra sinceramente è piuttosto repellente, con le sue pose, la tronfia retorica che ne governa la vita, le pancette, la calvizie e soprattutto il ghigno che non tanto maschera il viso ma lo sostituisce in tutto e per tutto, deformazione che peraltro non risparmia nemmeno i giovani...).

È sull’incompletezza che egli scrive, sul non finito, l’insignificante, o piuttosto il poco significativo, che cercano e trovano (o a cui viene affibbiata) una parvenza di completezza fuori di sé, nell’interpretazione degli altri. Nelle convenzioni, nelle forme sociali. Più ti senti, e ti fanno sentire, incompleto, più cerchi all’esterno ciò che ti manca, giovane o adulto che tu sia, nelle forme offerte (prescritte) da società e cultura. Ma chi le rifiuta, per cercare da sé una completezza, e una compiutezza, più lo fa e più si sente incompleto. Le forme del compimento interiore gli sono precluse, perché è sempre l’esterno a fornirle, sotto forma di trascendenza. O così gli sembra. La dichiarazione di volontà di ricerca, pur sapendo che è infinita e impossibile, è sofferenza, e l’ambizione all’autonomia assoluta orgoglio, cioè quello che le religioni dichiarano il peccato più grave: la superbia. Gombrowicz superbo lo è, o quanto meno orgoglioso. E non poco altezzoso. O a tale volentieri si atteggia (ne assume la forma). Lo sa, e lo paga. Ma i tornaconti non sono da meno, specie nella seconda esistenza in Argentina (ma già a Varsavia, quando teneva banco con le sue provocazioni ai tavolini dei bar alla moda: anche le capitali hanno il loro versante di villaggio). Per questo cerca, e trova, ristoro non nel pari o nel (preteso) superiore, ma nell’inferiore, nell’incompiutezza per eccellenza, che però è anche per eccellenza ciò a cui tutti ambiscono, e quindi ciò che è superiore, la giovinezza, la bellezza, l’adesione spontanea e entusiastica alla vita, ciò che basta a se stesso senza farsene un problema o un dovere o un ideale, perché già lo incarna. “Ognuno di noi si porta un ideale appiccicato addosso, come un pesce d’aprile.” Niente giovinezze macerate, insoddisfatte, represse nella sua opera. E se ci sono è perché sono già guastate all’origine dall’adulto, dalle ziette, dalla scuola...

Forse vuole sottrarsi in tal modo al desiderio, o all’istinto mimetico (Girard) proprio nella misura in cui sente la forza della sua attrazione? ma d’altra parte ne ha bisogno per contrapporvisi; per dare sostanza al suo impulso a contrapporsi.

 

In fin dei conti, infatti, a Gombrowicz non interessa capire il giovane, o meglio, l’adolescente (i protagonisti hanno più o meno sedici anni), le sue inquietudini, le sue pulsioni, il disorientamento per il corpo che cambia e per i suoi bisogni, l’istinto di gruppo, il persistente desiderio di uscire da un se stesso in cui si sente costantemente a disagio, di crescere per smettere di essere un ‘nessuno’ indefinito, mutevole, come chi del proteiforme vede solo l’instabilità e non il dono e la gioia della metamorfosi, per essere adulto, per essere finalmente qualcuno, cioè finalmente ‘uno’, quello lì e non altro – che poi lamenterà l’assenza di cambiamento e la fossilizzazione, ovviamente.

A Gombrowicz, dell’adolescente e dei giovani, più di come sono loro interessa l’idea che ne ha lui: cioè l’idea che si può contrapporre a ciò che più disprezza, l’adulto ingessato nel proprio ruolo, nella sua posizione e nei suoi pregiudizi e nella sua tronfia retorica: la sua è l’idea del giovane che può avere un adulto che odia gli adulti (senza andare a scomodare altri desideri meno confessabili, a cui si abbandonerà, finalmente libero, in Argentina: terra a sua volta giovane, a suo modo di vedere). Un’idea funzionale al regime oppositivo in cui per certi aspetti rischierebbe di restare imprigionato lui pure, senza la sua furia corrosiva, la consuetudine a guardare le cose non solo assieme al loro contrario, ma di sopra e di sotto e di traverso, sempre attento a ciò che le porta fuori dalla loro stabilità verso l’assurdo, la cedevolezza, la ridicolaggine.

 

D’altra parte se la lotta è per la vita, non è il caso di andare troppo per il sottile. Ma il rischio è di cadere vittima di questa lotta, che per il protagonista, Giuso, prende avvio da un libro che ha scritto. Infatti è proprio come autore di quel libro che un giorno viene accostato e “infantilizzato” da Pimko (“Cip, cip, cip, un autore!”), operatore scolastico e “custode dei valori culturali”, che gli appare all’improvviso come Mefistofele a Faust o Satana-Woland al Maestro in Bulgakov, e che in un certo senso una figura luciferina lo è per davvero, sorridente e indulgente per i suoi scopi, determinato, cinico e però debole (debole come lo sono i cinici), soggetto lui pure alle tentazioni, nel suo caso delle grazie della liceale attorno a cui si muovo i personaggi della seconda parte.

Giuso è condotto a scuola tra altri ragazzini che lo trattano come uno di loro, al pari degli insegnanti. “Pietà! Un docente no!” ... “mi guardò da sotto gli occhiali con indulgenza, e improvvisamente rimpicciolii”. Come Gregor Samsa quando di ritrova insetto, anche lui non riesce a capacitarsi della metamorfosi, ma tutti sembrano trovarla del tutto naturale senza nemmeno ricordare com’era fino a poco prima. È adulto e è ragazzo. Tutti lo trattano come ragazzino, ma lui si ribella, anche se qualcosa lo attrae e trascina sempre più nella nuova (e antica) condizione. La stessa ribellione viene interpretata come manifestazione di immaturità e trattata con condiscendenza. Come lo sono i giochi e le zuffe degli studenti nel cortile della scuola da parte dei genitori che li stanno a guardare da fuori con gli occhi lucidi per le loro prodezze.

“Volevo protestare, ma quel docente spietato mi aveva talmente docentizzato con il suo assoluto docentismo che non ci riuscii”.

La condiscendenza fa parte anche della strategia manipolatoria di Pimko all’interno di un progetto che ha come finalità di “infantilizzare il mondo” e che ha nel permessivismo una delle sue armi più efficaci, che anticipa quella degli ultimi decenni, anche se con scopi all’apparenza opposti: oggi è per far credere al manipolato di essere indipendente, autonomo, capace di scegliere da solo, cioè di essere adulto, mentre quella di Pimko mira all’infantilizzazione vera e propria, a ricondurre tutto a un’aura di innocenza anche del soggetto più ribelle, perché gli adulti fatti regredire e “culettizzati” sono ancora meglio dei bambini allo stato “naturale”; tutto viene permesso e concesso, con divieti formali per rendere più appetibili i loro oggetti, che però sono i più idonei alla conservazione dello stato di minorità; deviazione delle energie in eccesso verso violenze settoriali, magari di grande effetto, ma di fatto innocue (a parte i loro bersagli: ma chi se ne frega? verranno buoni anche loro...), lasciando impensate, e quindi impregiudicate, intoccate e intoccabili le gerarchie soggiacenti e i rapporti di forza consolidati. Vecchia storia, ora; un po’ meno un secolo fa. Ma che funziona sempre, tanto che il processo di immaturazione generale può dirsi ormai compiuto. I e le quarantenni sono in gran parte ancora adolescenti, come lo erano alle medie, se non prima. Maturano in fretta, oggi, si dice. Geniali tutti. Anche se arrivati alla prima soglia non avanzano di un passo. Restano lì pietrificati. Già padri e madri, eppure ancora più cretini dei figli (come i Jovinelli della seconda parte del romanzo, genitori della liceale moderna che tutti soggioga, incluso Pimko, prima che l’inoculazione di forti dosi di assurdo da parte del protagonista, nella fattispecie un poveraccio pagato perché se ne stia immobile tutto il giorno con un ramo in bocca sotto le finestre del loro appartamento, in cui Giuso era stato preso come ospite con l’intento di favorire il suo adattamento ai comportamenti giovanili moderni , ne mandi a gambe all’aria la routine quotidiana con tutte le sue parvenze di felicità), che al momento hanno almeno il conforto dell’età, che però passa in fretta senza che nulla cambi. L’accesso alle merci e al sesso basta alla patente di maturità anticipata e garantisce da subito l’ibernazione di tutti gli altri fattori di crescita, fino a che si saranno atrofizzati e esauriti per assenza d’uso.

Viceversa anche la maturità odierna, nel libro esemplificata dalla classe insegnante e dalla piccola nobiltà terriera , pur non essendo per questo meno colpevole, è innocente proprio nel suo essere artefatta, imprigionata nella Forma, non retorica e pertanto risibile come in passato, ma solo diversamente trombona: la trombonaggine dell’eterna giovinezza, fin nella tomba.

 

Parallela all’attrazione per la giovinezza esemplificata dalla spregiudicata liceale moderna, c’è quella per il “garzone” (nella prima traduzione era un “palafreniere”: mi piacerebbe sapere chi ha ragione... il palafreniere!), idolatrato dal compagno di avventure del protagonista, Mentino, come incarnazione della spontaneità popolare, che lo ricerca per fuggire le moine e le posture imbarazzanti anche della gioventù cittadina, con esiti disastrosi. Come disastroso sarà l’ultimo tentativo, apparentemente riuscito, del protagonista di ritornare adulto, con una fuga dalla casa degli zii che prende, se così si può dire, la forma della forma per eccellenza, quella dell’amore adulto, della precipitosa proposta di matrimonio a una scipita cugina: cioè un nuovo comportamento impulsivo di reazione, e quindi infantile. 

Non si sfugge. Non vi sfugge il narratore, che pure sa di essere costitutivamente immaturo. Non sfuggono gli altri personaggi. E noi?, mi chiedo. E io?

Io boh. Intanto, col mio bel ghigno stampato sul muso, rido.

 

Leggi anche

Kronos. Il diario intimo di Witold Gombrowicz

Witold Gombrowicz, Corso di filosofia in sei ore e un quarto (1994)

Illazioni e legami - Su Witold Gombrowicz (1993)

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

16/06/22

Tutte le volte di ogni parola (Ricordi di copertura 21)


Sentiva allora in ogni parola (da giovane, negli anni in cui aveva cominciato a scrivere), afferma scuotendo inavvertitamente la testa da sinistra a destra, tutte le volte e le circostanze in cui l’aveva letta, o sentita, o usata lui stesso; tutti i contesti, le variazioni, le sfumature e soprattutto le meccaniche ripetizioni; e questo lo stordiva, e nauseava e, quasi sempre, lo bloccava. Come avveniva con la lettura al Solomon Šereševskij studiato da Lurija, ha scoperto poi, che ricordando tutte le occorrenze di tutte le parole lette non riusciva a concentrarsi sul testo che aveva sotto gli occhi e in genere a fare astrazione da tutte le occorrenze uguali o simili che ogni cosa o evento gli suscitavano. O al Funes di Borges per tutti gli istanti vissuti. Anche ora gli capita spesso, confessa; e sempre con ogni parola o espressione che pretende di alzare la testa (la cresta) sopra le altre, di richiamare l’attenzione, vanitosa (squallida e ridicola); solo che ora, se non a non farsi bloccare (non sempre, cioè), ha imparato anche, aggiunge, a lasciarsi sorprendere da queste costellazioni innumerevoli, a farsi incantare e, qualche volta, persino a gioirne.

 

(Anche l’ascoltatore, poco professionalmente, non visto però, scuote inavvertitamente la testa, ma dall’alto in basso, senza riuscire a trattenere del tutto un accenno di contrazione automatica delle labbra, di smorfia o sorriso, o entrambi.)

06/06/22

Su Lucetta Frisa e Marco Ercolani

 

     

I Lucetta Frisa, L'emozione dell'aria

 

 

Il quarto libro di cui vorrei parlare è L'emozione dell'aria di Lucetta Frisa (ed. CFR, pp. 88, E. 12,00). Vorrei, ma non lo farò, perché è un libro di poesia e la poesia mi disarma (è anche il motivo per cui che ne sono attratto d'altronde). Non ne so parlare: non ci riesco e non ne sono capace. Dovrei entrare in dettagli che non so maneggiare o finirei per perdermi in parole astratte, non particolarmente simpatiche. Dovrei girarle attorno, in lunghi giri. Camminarci sopra mi ripugna. La prosa la calpesto in lungo e in largo senza problemi (ogni riga che scrivo lo dimostra), la poesia no. Vecchi tabù. Ma allora perché non parlo dei libri in prosa di Lucetta: per esempio dei bei racconti riuniti in La torre della luna nera, ed. puntoacapo, pp. 184, E. 16,00, che contiene alcuni pezzi davvero entusiasmanti, come “Kafka è morto a 67 anni”, o di altri scritti in collaborazione con Marco Ercolani, come gli splendidi Anime strane, Greco&Greco 2006, e Sento le voci, La vita felice, 2009? Ma è semplice: perché Lucetta sopra ogni altra cosa (è anche traduttrice, lettrice a voce alta), è una poetessa. Senza aggettivi qualificativi, che sminuiscono. Una poetessa che mi piace molto. Come poetessa e come donna. E quindi, non potendo parlare della prima, dirò un paio di cose sulla seconda. La prima è che le voglio bene, che come motivo per parlarne già basta e avanza. La seconda non è specificare perché gliene voglio (che senso ha specificare i motivi per cui si vuol bene a qualcuno, ammesso e non concesso che per voler bene ci vogliano dei motivi? Mica sono così meschino...), ma dire almeno cosa mi incanta in lei. Mi incanta la sua capacità di incanto.

Più che una predisposizione, Lucetta ha una vera e propria vocazione allo stupore che non ho riscontrato in nessun altro. Nemmeno nei bambini. Non mi spingerò a dire che i bambini sono stupidi nemmeno se lo pensassi (…), ma è certo che il loro stupore nasce dall'ignoranza, quello di Lucetta anche (come per tutti), ma da quell'ignoranza che sgorga da tutto ciò che sa (che è tanto, come dimostra tutta la sua opera), dalla conoscenza che resta vicina alla sua sorgente, da quanto sa dimenticare in ciò che sa per trasformarlo in capacità di ascolto e di canto. Come se fosse geneticamente predisposta a rispondere a tutto ciò che, in ogni cosa e conoscenza, fa appello all'incanto. Lo chiama in lei, e lei, alla vocazione, risponde. Tiene aperto l'ascolto, e lo sguardo, anche nella sofferenza, di modo che, quando si ripiega in se stessa, non è per chiudersi. ma per esporsi, per ampliare le proprie superfici sensibili interne, lasciare che angoli e spigoli e ogni forma di connessione si moltiplichino, e incidano, nella sua vita prima ancora che nei suoi versi. E' da lì, mi pare, che viene anche la sua disponibilità (e capacità) a lasciarsi abitare, a assumere le parole altrui seguendole sulle loro vie lungo un percorso che ogni volta, alla fine, estrae da esse immagini e cose e suggestioni inedite e al contempo disegna il suo profilo, questo o quel lineamento, e proietta una luce che prima di lei non si conosceva, arricchisce la nostra e la sua conoscenza (la sua di lei), proprio lì, quando si fa porta-voce di altri, come a distogliersi da se stessa, non per esprimersi attraverso la loro voce o per nascondervi la propria, ma per cercarla, e ogni volta trovarla.

 

II - Marco Ercolani, Turno di guardia

 


Marco Ercolani è psichiatra e quindi non sorprende che la follia occupi un posto rilevante nel suo lavoro di scrittore e critico. Sorprendono invece la varietà dei modi in cui il suo rapporto di medico e artista con essa è stato declinato e la molteplicità delle forme che ha assunto: mai come ambiente, fonte di storie o serbatoio di personaggi o aneddoti, ma sempre spazio mutevole indagato al limite, in bilico sul filo tra follia e opera, esperienza e studio, malattia e sintomo, persona e paziente, cercando di preservare a ciascun corno della dicotomia la sua specificità e autonomia, il rispetto per la voce che gli è propria e insieme la possibilità di un passaggio dall'uno all'altro: ponte, porta, segno, empatia. Vale a dire attenzione che rifiuta al folle il ruolo di astrazione, ma anzi riceve proprio dalla sua individualità lo stimolo a riconoscere in sé un identico spazio e a provare a rispondere alle sue radicali interrogazioni senza stemperarle, ma anche senza idealizzarle dimenticando che è dalla follia che provengono: dalla malattia e dal dolore da cui il folle chiede di essere liberato. E questo sia che il rapporto con la follia prenda poi la forma di riflessioni saggistiche (come in L'opera non perfetta Note su arte e follia 1999-2009, Nicomp L.E., 2010), sia che riporti, come quadri circoscritti, ma senza cornice, i deliri, le voci e le esperienze, fatti e misfatti, dei malati (come in Anime strane, Greco&Greco, Milano, 2004 e Sento le voci, La vita felice, Milano, 2009, scritti in coppia con la moglie Lucetta Frisa), ovvero che essi abbiano il ruolo di attori e interlocutori diretti come nel recente Turno di guardia (Il Canneto Editore, Genova, p. 113, E. 7). Sottolineo malati e folli, perché tali sono e li chiama Ercolani, senza ricorrere a eufemismi o palliativi di sorta: sono malati, pazienti, che patiscono  e non hanno più la pazienza di sopportarlo, anche se a volte non manca chi, "guarito", rimpiange la malattia: "Non sarei dovuto guarire. Ora detesto la vita. Non sarei dovuto finire così. Prima c'erano ventisette ponti, trecento odori, seicento colori. Ora niente. Sto dentro un appartamento e aspetto di morire." (Ma se è guarito, che ci fa al pronto soccorso in piena notte? Forse che la "guarigione" non è che una forma più accettata ma non meno dolorosa di malattia?)

Se però il rapporto di Ercolani con la malattia è sempre personale, non è mai dato di trovarlo in prima persona nelle sue opere: anzi, la sua cura è sempre stata di eclissarsi, di annullarsi, non solo come forma di pudore e rispetto per la sofferenza, ma come igiene dello sguardo e precisa strategia di scrittura, come aveva fatto in molti dei libri precedenti non a caso spesso imperniati sul tema dell'apocrifo e sui diversi stili che ne conseguivano.

Le cose cambiano invece, e con esiti molto felici, proprio in questo Turno di guardia, dove lo psichiatra, che i turni li fa (li patisce) in un ospedale di una grande città, è in primo piano non solo come soggetto dell'enunciazione e portatore dell'esperienza professionale nonché di artista e studioso, ma anche come bersaglio di considerazioni sarcastiche o aggressive, oltre che di richieste, imploranti o imperative, da parte del tragico campionario umano ai cui bisogni egli cerca di assolvere, ritrovandosi spesso impotente, nelle infinite notti di guardia, in turni anche di 12 ore che a volte si susseguono per giorni e giorni senza pause.

Dementi, barboni, tossici, alcolizzati, suicidi mancati o potenziali, paranoici e schizofrenici, tanti stranieri: stranieri tutti. E straniero, altro, è anche lo psichiatra stesso, lo psichiatra che è scrittore e che come tale è talvolta riconosciuto, e stigmatizzato, deriso e accusato, dai suoi pazienti, a cui cerca di prestare le cure più urgenti in notti "interminabili" in cui la fatica e il sonno si accumulano, combattuti da un lato con letture, film in dvd, testi da scrivere e referti da stilare o consultare; e soprattutto intralciati, dall'altro, dalle chiamate dal pronto soccorso, casi urgenti da ascoltare o sedare, voci che urlano nei reparti, a volte in ululati ininterrotti, e altre come grida isolate, ma più lancinanti, a intervalli regolari, con scansioni esatte, cronometriche, ed effetti più catastrofici sul decorso del tempo, che negli intervalli non si distende in pausa e sollievo, ma si riempie dell'attesa angosciosa del loro ritorno inesorabile.

Brevi storie scandite in capitoli che spesso non superano la pagina, destini chiusi in poche frasi, in dialoghi rabbiosi ma che celano la supplica nella negazione che alla rabbia dà voce, o in brevi monologhi, definizioni e esemplificazioni illuminanti delle malattie e dei loro sintomi (deliri, allucinazioni, crisi epilettiche, di panico, di violenza...), e sintesi di grande efficacia espressiva e di disincantata ma partecipe saggezza, o come condensato, o meglio: precipitato esperienziale. Mai però riducendo a simboli i folli, sempre invece "esseri veri che producono finzioni", che "vivono, giorno dopo giorno, secondo dopo secondo, la percezione di un mondo disintegrato, un mondo che non sentono neppure legato al proprio dolore psichico, ma che avvertono come disastro continuo, concreto, reale, fissato nelle cose, ripetuto nel tempo".

Ma la ricchezza di questo libretto non si limita a questo: essa deriva anche dall'intreccio delle storie con la riflessione che Ercolani non cessa di esercitare sul proprio lavoro: lavoro duplice, in cui scrittura e psichiatria rimandano l'una all'altra e quasi si confondono, perché la prima non va senza la competenza e la strumentazione della seconda, e viceversa queste non possono trovare espressione senza la riflessione e la consapevolezza delle forme, dell'artificio e delle implicazioni della prima.

Chiedersi come parlare ai pazzi quando non c'è tempo di fare nessun discorso, come affrontare l'urgenza delle ferite invisibili e che non si esprimono se non indirettamente, e spesso attraverso il rifiuto e il silenzio, non può essere disgiunto dal chiedersi come dare voce a questi incontri, come trarre esperienza dai loro insegnamenti senza cercare insieme le forme, il linguaggio e le modulazioni e intensità adeguate; e come, infine, conservare ogni istante la consapevolezza di avere di fronte un essere umano singolare e dell'unicità del dialogo che esso richiede, impedendo al contempo che "la conoscenza di destini eretici o infelici influenzi il lettore con irrilevanti sentimenti di compassione". La partecipazione si nutre anche di distanza; la terapia, di riconoscimento e uso della differenza. Se "aver avuto terrore e non volerlo più provare è la giustificazione segreta del delirio", il medico, da parte sua, anche se "per ogni mondo parallelo" prova sempre "un'ostinata tenerezza", deve però aiutare il malato a dargli "una logica" e chiedergli "di delirare con prudenza", di non lasciarsene sopraffare, incerto di riuscirci lui stesso quando, stremato, esce "dai muri della stanza di guardia come dalle pareti di uno specchio". Di uno specchio, aggiunge, che "è crepato", in cui si può mettere "la testa dentro", ma da cui è possibile, per lui, "guardare anche fuori. Affacciar[s]i all'altro mondo con la testa semidecapitata dal cerchio delle loro, delle [sue] visioni". Come noi dal cerchio delle nostre, all'uscita dallo specchio di questo libro.

 

Marco Ercolani, Turno di guardia, Il Canneto Editore, Genova, p. 122, 7

 

III - Lucetta Frisa e Marco Ercolani, Il muro dove volano gli uccelli

 


 

Con Lucetta e Marco ci conosciamo da vent’anni ormai. Ci scriviamo, telefoniamo e leggiamo reciprocamente, ma gli incontri di persona saranno poco più di una dozzina, e per quasi tutti l’occasione è stata una mostra o un museo: a Genova, Milano, Bergamo, Firenze, Monaco di Baviera... La scrittura, dunque, ma altrettanto la pittura. Il loro primo libro sull’argomento precede la nostra amicizia: è anzi uno dei primissimi che hanno pubblicato a quattro mani: L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), ma tracce di questo amore si trovano sparse in molte altre opere. La scrittura, saggistica o di invenzione, è il derivato naturale di questa vera e propria passione. Non dico che visitano musei e mostre per scriverne; ci vanno (ci andiamo) perché i loro sensi hanno fame di pittura: la testa viene dopo, magari di pochissimo, attimi, ma dopo; e la scrittura a partire da quanto visto, dopo ancora, o forse mai, anche se la passione è tale che prima o poi trabocca in inchiostro (mi scuso per la metafora). Giriamo per le sale, Marco più veloce, ma meditativo e metodico, Lucetta, che pure non trascura nulla, più ondivaga, trascinata dall’entusiasmo per questo o quel dettaglio o per l’insieme già intravisto da lontano ma che necessita sempre di un accostamento, lento o saltellante, e di lunghe soste, di uno sguardo miope, con tutto il corpo che segue l’occhio, si mette al suo servizio, ma poi ne guadagna un surplus elettrico, di pura gioia. Nel frattempo io sparo un po’ di scemenze ma, chissà come, loro le metabolizzano in positivo e me le rimbalzano con una sfumatura in più o un distillato della loro personale alchimia, tanto che mi sento più intelligente anch’io. Gli amici servono a questo. Puro egoismo.

 

Poi io torno a casa contento di averli visti e di ciò che ho visto, e oltre non vado quasi mai; loro continuano a alimentare i loro forni e col tempo da quelle loro storte e alambicchi escono racconti, epistolari e carnets apocrifi, saggi critici o ekphrasis di singole opere che dialogano le une con le altre e con altro ancora (testi, citazione degli autori, dichiarazioni di poetica, luoghi e contesti), e poi vanno a comporsi in piccole costellazioni tematiche che a loro volta ne formano di più vaste che sono insieme traiettorie originali nella storia dell’arte e riflessioni sulla sua natura, e indirettamente, ma non in subordine, sulla propria opera, sulle ossessioni, le procedure e le implicazioni che stanno alla sua base.

 

Questo Il muro dove volano gli uccelli ne è la dimostrazione e, assieme a L’opera non perfetta (Nicomp, 2010) di Marco per quanto concerne la pura teoria, il risultato più alto (oltre che più soddisfacente per gli occhi, per le opere riprodotte e commentate, e per la lettura, grazie a una scrittura piena di sorprese, di improvvisi cambi di direzione e soprassalti che posso definire solo come poetici). La seconda parte esemplifica nel modo migliore quanto appena detto: si tratta infatti di una cinquantina di Dispercezioni (è il suo titolo), suddivise per nuclei tematici: Ombre del sacro; Chiaroscuri, maschere; Soglie, dissolvenze; L’opera come ossessione; Intorno al nero; Colori, alchimie; Imminenza, visione; Speccho, misteri. Seguendo la suggestione di ciascuno di questi titoli e più ancora cambiandone l’ordine, cucendoli con i pochi nessi che l’ordine configurato produce quasi da sé, usando l’uno come chiave interpretativa degli altri, non si scopre solo la stratificazione di queste letture brevi e apparentemente solo focalizzate sull’opera prescelta, ma si individuano anche alcune delle strutture portanti delle opere dei due autori. Si potrebbe anche fare un piccolo gioco delle attribuzioni e delle prevalenze, ma lo lascio al lettore: basta scorrere i titoli dei loro libri per iniziarlo.

 

La prima parte è composta di saggi davvero belli, che articolano con più ampio  respiro queste tematiche e ne esplicitano i presupposti teorici, a partire dai graffiti delle origini fino a Nicolas de Staël passando per Braque (il titolo del libro è ispirato da una sua tela: Les oiseaux) e avendo come numi tutelari Giacometti e,

soprattutto, Michaux. Si tratta di un’indagine, o meglio: di un vero e proprio viaggio nel paesaggio materiale, organico, della creazione, in quel territorio dove i gesti, gli impulsi, i respiri, l’eccitazione dei nervi e il dolore, le pieghe della carne e le sue contrazioni si traducono in atto creativo, al di qua del senso, dell’ordine che esso sempre comunque impone: necessario, utile, plurivoco, ma sempre secondo, ulteriore, anche quando si volge indietro e rimonta a prima, cercando di attingere il prima del prima. Un itinerario che va indietro nel tempo, alle grotte con i primi graffiti, ai primi segni le impronte delle mani e figure di animali e a prima dei segni, quando un segno è solo traccia, graffio animale, scarabocchio, pura grafia, gesto che traccia e ancora non è finito, segmento di nessun insieme: non ancora nel gioco delle differenze che lo spossessano di se stesso fissandolo in un’identità ripetibile e differenziata, ma appunto per questo, infine, visibile, riconoscibile, con il capo fuori dall’informe. Ma un’indagine che risale anche al momento prima che il gesto cominci: all’agitazione, al brulicare delle viscere, allo sguardo che fibrilla e alle sensazioni in eruzione prima del pensiero, dove ancora nessuno può dire io. Così anche il loro sguardo, la loro capacità di lasciare che l’occhio si incendi e la scossa passi nei sensi e nell’immaginazione, le analogie, i nessi e le nuove immagini che ne vengono prodotte sono meno un percorso emotivo personale o mappe culturali, che pure a me piacciono moltissimo, che l’affioramento di parentele, affinità e scambi senza proprietario che legano nello stesso vincolo, in una visione comune, chi guarda e le trova e chi le riceve e trasforma e rilancia.  

 

Il muro dove volano gli uccelli - di Lucetta Frisa e Marco Ercolani, Edizioni L'arcolaio, 2013

 

 

IV Marco Ercolani, Camera fissa

 


Comincio con Camera fissa, di Marco Ercolani (Nuova Editrice Magenta, 2013, p. 85, E. 10).

E’ un breve romanzo giovanile, che l’autore ha rivisto a più riprese, fino a questa versione, matura e definitiva, con cui ha vinto il Premio Morselli 2012.

Un uomo giace a letto, incapace di ogni movimento o parola escluso quello degli occhi, in seguito a al fallito suicidio di qualcuno che si è gettato da un palazzo e gli è caduto addosso. Un giorno riceve la visita di un uomo che si rivela il responsabile della sua condizione. Le visite si ripetono, ma mentre l’altro implora il suo perdono, il protagonista ordisce, in modi sottilissimi e con l’aiuto di un vecchio che lo accudisce, insieme la sua vendetta e la propria liberazione.

Il libro è composto di brevi capitoli in cui sono riportate le minime percezioni, ricordi e sogni e progetti del corpo immobile a letto o messo a sedere davanti a una finestra, ridotto a puro sguardo. La camera fissa del titolo, più ancora di quella in cui giace, è quella con cui si identifica quello sguardo, crudele riduzione di un uomo cresciuto da una madre cinefila e lui stesso regista cinematografico. E trame, citazioni, personaggi di film del passato costituiscono il tessuto connettivo tra i capitoli, i personaggi e le vicende: alcuni in citazione e con funzione esplicite, altri in modo velato, come richiamo criptato e chiave di lettura.

Un libro cupo e crudele, costruito con pochissimo eppure denso; una tensione che cresce nell’immobilità di eventi assenti, ridotti a un fiato, a una pupilla che si sposta appena.