22/12/23

Jon McGregor, Bacino 13 (2018)



“Si trovarono al parcheggio un’ora prima dell’alba e aspettarono che qualcuno gli dicesse cosa fare. Faceva freddo e si parlò poco. Certe domande restarono non dette. La ragazzina scomparsa si chiamava Rebecca Shaw. L’ultima volta che l’avevano vista portava una felpa bianca con il cappuccio. Sulla brughiera aleggiava una foschia bassa e il terreno era indurito dal gelo.” Così inizia, come un thriller, Bacino 13, notevole quarto libro del quarantunenne inglese, ma nativo delle Bermuda, Jon McGregor, accolto benisssimo in patria da critica e pubblico come i precedenti. Il romanzo, diviso in 13 capitoli, uno per ciascun anno successivo alla scomparsa avvenuta durante una passeggiata con i genitori, narra la vita della comunità che abita nel paese immerso nelle brughiere di un distretto di bacini idrici e cave, dove Rebecca era ospite per le vacanze natalizie assieme ai genitori.

La scomparsa, con le indagini che si protraggono per anni, e l’emergere di piccole novità sulla ragazza, fa da esile filo conduttore all’interno di una composizione strutturata come un’elaborata partitura musicale; o piuttosto costituisce la linea melodica che ritorna nelle improvvisazioni dei solisti jazzisti, che nelle jam session la sviluppano e lasciano e variano fino alla ripresa complessiva finale, che però chissà se ci sarà o meno qui, in questa storia che del thriller mantiene qualche parvenza anche se talora sembra spostarla sull’indagine della realtà, del suo mistero, più che su quello relativo alla scomparsa di Rebecca. Accanto a questo motivo, la cui incidenza decresce con il passare degli anni, si dispone tutta una serie di temi, grappoli di accordi, accenni di ritornelli, linee di fuga, che ricorrono essi pure in ogni capitolo ma ogni volta con un rilievo e in combinazioni differenti. È facile azzardare che McGregor, come Perec e altri autori amanti dei vincoli da essi stessi creati, aveva un elenco di voci che spuntava a ogni ricorrenza per capitolo, a scandire il decorso temporale, le stagioni, la vita della natura e quella sociale e religiosa della comunità.

Queste voci, numerose e all’apparenza eterogenee, riguardano il paesaggio, l’erica, il bosco, le volpi, i pipistrelli, le farfalle, le poiane, le rondini, le greggi, le mandrie di mucche, il torrente, il ponte e le briglie di consolidamento, i consigli parrocchiali, l’organizzazione delle feste, la scuola, gli orti comuni, le esplosioni nelle cave, gli insetti, le felci, i pesci, i reciproci rapporti e le storie dei vari personaggi che ogni tanto si espandono in piccoli episodi, mentre di solito sono accennate e tenute vive da una o poche frasi ma in modo da costruire pian piano nella mente del lettore un’immagine solida della comunità nello scorrere del tempo, pur composta di mattoncini in apparenza slegati e autosufficienti.

Le storie della famiglia Jackson e degli altri personaggi, Les Thompson, la reverenda Hughes, il macellaio e la moglie che lo lascia, il direttore del giornale locale e la moglie cinese che lavora (fino al licenziamento) per la BBC, famigliari con problemi di ogni genere, disadattati e malati, le unioni solide e quelle effimere, i ragazzi che crescono e se ne vanno, gli emigranti e i nuovi arrivi, vengono seguite ogni volta per un breve tratto e si intrecciano al poco che si viene a sapere della ragazza scomparsa e dei suoi genitori, che in ogni capitolo viene arricchito di un nuovo tassello che chissà mai se porterà a capire cosa è davvero successo.

Ogni capitolo inizia con i festeggiamenti per l’anno nuovo e attraversa alcuni passaggi obbligati (Feste del raccolto e dei Pozzi, Notte degli scherzi, partita di cricket con un paese vicino, la transumanza e la tosatura delle pecore…) che saldano la vita della comunità a quella della natura in cui è inserita (gli amori degli animali, la nascita e lo svezzamento dei piccoli, la caccia dei carnivori e dei rapaci) in dettagli che aggiungono ogni volta sfumature diverse pur lasciando l’impressione di un eterno ritorno dell’identico, a partire dalla percezione che i personaggi stessi ne hanno, i quali vi sono immersi e ne fanno parte nello stesso modo degli animali, della vegetazione e del cielo sopra di loro. La natura è lì: una voce anonima e impersonale ne riporta questo o quell’aspetto con variazioni di tono sottili, non marcate, perché scandiscono dei ritmi e compongono uno spazio all’interno dei quali le vicende dei personaggi non devono distinguersi dal punto di vista narrativo in quanto a loro volta non si distinguono sotto quello vitale e esistenziale. I sentimenti, le emozioni, le frustrazioni, i conflitti, la continuità silenziosa degli affetti e le loro incrinature, sono come i cambiamenti nel ciclo naturale, o poco più, forse anche per coloro stessi che li vivono. Tutto non è che una serie di riprese, variazioni, sviluppi, risonanze, echi, abbandoni, concatenamenti, interruzioni, sfumati, sospensioni, accostamenti, contiguità, lacune, assenze.

 

A parlare è una specie di narratore onnisciente con il gusto della disseminazione e della frustrazione, a volte più laconico che reticente, altre reticente e basta (abilissimo!: ma con il rischio risaputo che la troppa abilità, come l’astuzia, a volte si ritorce contro chi se ne compiace), che sa, o che si immagina che potrebbe sapere, tutto, ma è come se dicesse solo quel poco che attira la sua attenzione e colpisce i suoi sensi in un dato momento e non oltre. A volte questo momento si prolunga, per una pagina al massimo, e allora è un susseguirsi di azioni o gesti o parole piuttosto sintetiche, veloci annotazioni di sensazioni confuse o inespresse di qualche personaggio, che illumina un aspetto di lui o mostra in modo nuovo la sua figura, ma senza indugiarvi e soprattutto senza spiegazioni e senza indicare o solo suggerire nessi e implicazioni di alcun genere. Solo qualche accenno, qua e là, a qualcosa del passato, ma anch’esso fugace, raramente perspicuo. Anche le informazioni e gli indizi sparsi come per caso, in contesti diversi da quelli che ci si sarebbe atteso, non è mai sicuro che lo siano davvero o siano invece parti di altri insiemi o false piste. A dominare è l’implicito, o ciò che viene dato come tale, scontato per chi vive la situazione o ne viene a conoscenza dall’interno, e orchestrato con grande perizia dall’autore.

Chi parla insomma è come se fosse parte della comunità descritta e ad essa si rivolgesse, uno che conosce tutti e ne parla a un pubblico che li conosce a sua volta (una specie di versione moderna del narratore anonimo popolare dei Malavoglia, con qualche tendenza a microscopiche infrazioni subliminali, che non sai se reputare più irritanti o ammirevoli quando te ne accorgi), al quale quindi non è necessario dare nessuna informazione circostanziale o storica o caratteriale.

Anche il lettore, dopo un iniziale disorientamento, pian piano entra a sua volta nel paese e nel paesaggio, come se fosse lui pure parte del coro o uno dei personaggi. Cosa lo distingue, a ben vedere? E’ come se a parlare non fosse nessuno o ci fosse un momentaneo punto di vista per ogni personaggio ogni volta che il discorso si focalizza su di lui, ma non la sua voce.  La voce è sempre la stessa, più distaccata che partecipe, anche se non fredda e soprattutto mai giudicante. Nessuna riflessione, o quasi, e comunque ben mimetizzata nel flusso narrativo, come sorta dalle cose stesse narrate, al loro stesso livello, o a volte, ma parziale, non generalizzabile, dai discorsi dei personaggi.

A volte però le vicende individuali e soprattutto le loro ripercussioni emotive e esistenziali, le solitudini, le debolezze, i segreti…, vengono ad essere più note al lettore che agli stessi famigliari o amici dei personaggi. La vita che li circonda – i nuovi nidi, i volpacchiotti che escono a caccia per la prima volta, il corteggiamento dei cinghiali, il letargo dei pipistrelli e dei tassi, le metamorfosi delle farfalle, le trasformazioni dei cespugli e del bosco –, non sono colore o allegoria, sfondo o contrappunto, motivo secondario o basso continuo (anche se ogni lettore è libero di interpretarli anche in questo modo): sono invece la stessa cosa della trama quasi del tutto assente; sono, se mi è concesso, la trama della trama. Sono la storia allo stesso titolo degli eventi umani, personaggi allo stesso titolo di quelli dotati di un nome proprio. Niente distingue formalmente e sintatticamente gli uni dagli altri. Le frasi si susseguono senza nessi e senza stacchi che non siano quelli dettati dalla punteggiatura, tutti sulla stessa linea, segmenti di pari valore e senso di uno stesso percorso, senza soluzioni di continuità, in perfetta contiguità, come lungo un asse sintagmatico liberato da qualsiasi complicazione paradigmatica e nondimeno pullulante di sfumature e risonanze, che sembrano però generarsi lungo la catena temporale del discorso, nella memoria del prima e del dopo e nelle diverse occorrenze del simile e dell’uguale che fanno presagire, ma senza alcuna garanzia in quanto mai meccaniche, il loro ritorno imminente, la loro risorgenza, appena variata, futura.

E infatti praticamente nessuna delle annotazioni “naturalistiche” ha qualche ripercussione sugli eventi della trafila umana e viceversa, come nessuna ripercussione sul comportamento delle nubi ha quello degli abitanti, sul cui capo però esse corrono o rovesciano pioggia o neve. Le storie degli uomini non si distinguono, cioè non hanno più valore, da quelle delle piante e degli animali o degli elementi. Le gazze rubano le uova, le poiane piombano sulle loro prede, gli insetti si accomodano alle piante e a volte le minano, l’erica cresce,  i pipistrelli si rimpinzano in vista dell’inverno, le mine fanno saltare la roccia, il livello dell’acqua dei bacini si alza o si abbassa, le trote passano sotto i ponti come i ragazzi sopra, nelle grotte e nelle forre la vita è nota e misteriosa; i legami si serrano e allentano e sciolgono, i figli vanno e non sempre ritornano, sono affidabili e incomprensibili, ognuno a sua volta noto e misterioso.

La comunità sembra chiusa e fuori dal tempo, e invece i cambiamenti e i traumi incombono, a cominciare dalla scomparsa di Betsy, che ritorna nei ricordi e qualcuno pensa addirittura di vedere qua e là, a volte. La scomparsa non scatena nessun male, al di fuori del dolore dei genitori e di qualche eco in chi l’ha conosciuta (e del vampirismo mediatico che casi come questi non mancano di suscitare, a caldo, e periodicamente anche a freddo, quando un episodio simile si verifica o le programmazioni necessitano di riempitivi, come sanno anche i telespettatori italiani, che praticamente di questi riempitivi sono a loro volta riempiti); e se fa da cartina da tornasole per qualcuno, specie tra i ragazzi che l’avevano conosciuta, per il resto si inserisce nel normale corso delle cose, dove il male è un dato che alcuni segna, altri solo sfiora, e poi, duole dirlo, passa.

Il figlio problematico e violento di Irene trasforma la casa in un intrico di cavi, schermi, luci e chissà che altro; i supermercati scalzano i negozi; i piccoli commercianti e gli artigiani perdono il lavoro; il costo del latte in negozio è inferiore alle spese e al lavoro richiesto; il vecchio Jackson vuole resistere solo con la tradizionale attività di pastore e non accetta le proposte e le opportunità concrete di rinnovamento avanzate dai figli, due dei quali un giorno emigreranno; nel pc del bidello viene trovato materiale pedopornografico; la reverenda si trasferisce in città e nessun nuovo pastore viene a sostituirla tra i fedeli locali, sempre più sparuti; sulle colline si moltiplicano le pale eoliche, qualcuno apre un pub biologico… Sembrano tutti solo frammenti di storie individuali o di piccoli nuclei famigliari, ma a staccare lo sguardo e adottare una visuale un po’ più distante ci si accorge che al di là delle ricorrenze e delle feste tradizionali, che peraltro spesso subiscono nuovi per quanto a prima vista minimi aggiustamenti, il cambiamento è già ovunque e non si ferma. Si inserisce anch’esso nel ciclo naturale, nel normale evolversi degli eventi (nello stato normale delle cose, come viene detto nel libro d’esordio di McGregor, Se nessuno parla di cose meravigliose: a indicare una continuità di riflessione pur nel capovolgimeto dell’approccio: qui condensato, là rallentato e dilatato, come in tante istantanee, o fermo-immagini, dei frammenti strappati al loro continuum e inseriti in quello della narrazione costituito da altri frammenti analoghi e dello stesso tenore, anche se non dello stesso argomento, ecc.; e spesso solo didascalie di istantanee inesistenti, o implicite, che hanno grande evidenza, ma si possono solo immaginare: si devono, anzi) che ogni individuo o nucleo o segmento della comunità avverte e affronta come per conto suo. Ma per gli stessi esseri umani il cambiamento storico è parte del loro ciclo naturale e anche gli eventi traumatici pian piano vengono assorbiti e entrano a farvi parte, al pari di ciò che sembra restare uguale o cambia solo lentamente.

I ragazzi crescono, i giovani maturano, chi più chi meno, gli adulti invecchiano, i vecchi muoiono, le storie seguono il proprio corso prevedibile, alcune si intessono, altre si interrompono, altre ancora si riallacciano; alcune prendono vie diverse per incrociarsi di nuovo, o forse no, tutte continuano, e se qualcuna finisce, un’altra prende il suo posto.

E tuttavia nemmeno per il lettore, non è facile accettare “l’ordine delle cose”, che presuppone che le cose abbiano un ordine che sia il loro, che esse prima o poi vadano a sistemarsi in un ordine, o che in qualunque stato siano, in qualche ordine sono già disposte, e che quell’ordine sia visibile e decifrabile, o che ci sia anche se non si vede, e magari che tanto più perfetto sia, a modo suo, quanto meno è visibile e decifrabile, e che esso non sia né buono né cattivo. E più difficile ancora è accettare che forse non sia nemmeno il caso di stare a chiederselo, perché in ogni caso è quello che è, e come tale vale la pena accettarlo senza cercare in alcun modo di alterarlo o addirittura sovvertirlo, perché qualsiasi cosa uno faccia, esso resta quello che è, e che quindi è più saggio, o meno stolto, adattarvisi. Perché, come dice il poeta, le cose sono come sono, terribili per gli idioti. Anche se, a pensarci un po’ di più, come le cose sono, ammesso che lo si possa capire, per chi idiota del tutto non lo è, probabilmente è ancora più terribile.

(Eppure anche questo “terribile” tutto il dolore, tutto ciò che non si saprà mai , nell’ordine delle cose è niente, rimane, e va a sistemarsi anch’esso al suo posto: né bene né male, solo come è.)

 

Ma le cose non sono come sono, si può anche pensare. L’ordine delle cose non esiste, è solo quello che sembra di percepire mentre si prova a descriverlo, a dargli appunto un ordine, quello che viene costruito mentre viene narrato. Nessun perno esterno o sottostante salda insieme la sfilata degli eventi e delle cose, nessun mistero centrale tiene insieme tutto con la sua forza di attrazione, perché il centro non c’è. E’ vuoto. In Se nessuno parla… alla fine si veniva a sapere verso cosa tutti i personaggi stavano muovendosi nel momento fatale; qui tutto resta ancora in movimento. Il 14° anno (il 14° bacino) resta ancora da riempire, la realtà ancora sempre da indagare, e edificare. Molte cose saranno prevedibili; altre chissà. Poi, da lontano, una volta narrate anche loro troveranno il proprio ordine, che non sarà insito in quello che esse saranno, ma sarà solo quello in cui verranno raccontate, se qualcuno si prenderà la briga di farlo, e a seconda di chi lo farà.

 


Nota di lettura

Jon McGregor è nato nel 1976. Ha pubblicato il primo romanzo nel 2002 riscuotendo grandi apprezzamenti da parte sia della critica che del pubblico, rinnovati anche per i 3 romanzi successivi, tutti tradotti in italiano. Tutti raccomandabili.

Se nessuno parla di cose meravigliose, trad. it. Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2003

Diversi modi per ricominciare, trad. it. Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2006

Neanche i cani, trad. it. Anna Mioni, Milano, Isbn, 2011

Bacino 13, trad. it Ada Arduini, Guanda, 2018

 

18/12/23

Mentire, ingannare, imbrogliare, raggirare.. Giancarlo Alfano, L’impostore


Prima ancora che l’uomo facesse la sua comparsa, gli impostori già vagavano per la terra e il cielo nella forma perfetta degli dei. Competizione, sopraffazione, libidine, potere, puro gioco, segreto, c’era già tutto, al massimo grado di perizia e raffinatezza. Poi i superni si devono essere stancati di riservare tanta sublime arte alla propria consorteria in fin dei conti ristretta e hanno cercato un altro pubblico e nuove vittime. E così, come per tutto, è iniziata la decadenza, il piccolo cabotaggio. Sono arrivati gli umani. Che, manco a dirlo, non ci hanno messo niente a imitarli. Così potevano pensare di essere simili a loro, se non uguali. Anche l’illusione è facile. Ciò non toglie, però, che qualche fulgido esemplare sia comparso qua e là, anche se soprattutto sotto forma di personaggio mitico o letterario. Giancarlo Alfano ha provato, con ottimi risultati, a rintracciarne i caratteri salienti e a seguirne il mutevole percorso nei tempi moderni nel suo ultimo libro, Fenomenologia dell’impostore. Essere un altro nella letteratura moderna (Salerno editrice, 2021, p. 225), ibridando “la teoria della letteratura coi modelli della sociologia, … questioni letterarie e antropologiche, … la retorica e l’esperienza teatrale”. Impresa ardua, che doveva per forza passare per esempi fondativi e paradigmatici. Ovviamente, dato che, andando bene a vedere, fare la storia dell’impostore sarebbe stato come fare la storia praticamente di tutta la letteratura: e non solo perché già da prima di Manganelli è risaputo che la letteratura è menzogna, ma perché di menzogne, inganni, maschere, sostituzioni, infingimenti, doppiezze essa di fatto parla sempre. Tutto il resto è scipito, sembra, a dispetto di quanto sostiene Carrère nel suo ultimo libro (Yoga, Adelphi, 2021): per il quale la letteratura è “il luogo in cui non si mente”, da rispettare (sempre per lui e pochi altri, come il buon J.J. Rousseau: uno dei primi paladini della sincerità e della trasparenza a oltranza, che Alfano smonta con grande acume, sulla scorta di Starobinski), come un “imperativo assoluto”, silenzi e omissioni a parte. Una buona campionatura è stata quindi per Alfano indispensabile, da Boccaccio a Shakespeare a Molière a Rousseau a Thomas Mann a Carrère a Cercas, sviluppata in un percorso mai slegato dal contesto di emergenza all’“incrocio tra struttura sociale e struttura narrativa. Tanto più che una fenomenologia si trattava di disegnare, per quanto articolata sull’asse storico, dato che l’“l’impostura [… è sempre] embricata nel suo spazio-tempo”, nelle sue credenze e convenzioni.


Il libro si apre con la cinquecentesca storia, esemplare e  “fondazionale”, di Martin Guerre, sparito da casa un bel giorno e tornato dopo anni tra mille dubbi sulla sua identità, confermata in un primo tempo dalla moglie e da alcuni conoscenti, finché non è comparso un altro Martin, quello vero, che però ha dovuto a sua volta provare di esserlo: una vicenda storica riportata in auge da N. Zemon Davis in un libro ora purtroppo fuori mercato, ripresa e variata da tanti autori anche cinematografici (Il ritorno di Martin Guerre, di Daniel Vigne, e Sommersby, di Jon Amiel), che serve ad Alfano per tracciare un primo perimetro di massima della figura dell’impostore. Poi però, per iniziare davvero il suo percorso storico, Alfano torna indietro di due secoli, a Boccaccio, come aveva fatto anche Guido Almansi nel suo qui non citato Bugiardi. La verità in maschera (Marsilio, 1996), ad analizzare quella che può essere considerata la prima grande figura moderna dell’impostore, quella di Ser Cepparello, nella straordinaria novella che apre il Decameron, e non a caso. Alfano, come farà per tutte le tappe successive di questa sua indagine delle “nascite dell’individuo” moderno, lega l’emergenza di questa figura e le sue prime caratteristiche salienti, a dei grandi cambiamenti avvenuti nel periodo precedente, relativi alla storia culturale e delle mentalità: in questo caso, sulla scorta di Michel Foucault che sarà, accanto a Erving Goffman, uno dei punti di riferimento di molte delle riflessioni successive, all’affermazione della pratica (e teoria) della confessione che favorisce lo sguardo su di sé, una prima mappa dell’interiorità e una prima definizione dell’identità individuale.

L’impostore è uno che si spaccia per un altro e a volte fa di tutto per diventarlo davvero, come il sedicente Martin Guerre, rinunciando in tal modo a se stesso, con una dinamica però complementare a quella di tutti coloro che se stessi cercano di restarlo a dispetto delle circostanze e del tempo mutevoli: entrambi soggetti al divenire e alla metamorfosi, che si affannano attorno a un fine che si sposta con loro come l’orizzonte, quello dell’identità, negata o affermata che sia.

Godendo del vantaggio di un’identità fittizia, l’impostore può sfoggiare la leggerezza del funambolo e l’estro dell’improvvisazione, ma porta anche il peso del ruolo, la gabbia della necessità di adeguarsi all’immagine che lui stesso si è costruito magari con disinvoltura, ma che le sue vittime pian piano consolidano attorno a lui come una prigione sempre più solida e stretta. Da una parte gioca con l’identità, ne evidenzia i limiti e le porosità, la dipendenza dal riconoscimento degli altri, che è manipolabile anche quando si tratta di congiunti prossimi, fungendo così da critica, a volte esplicita ma più spesso implicita, cioè a sua volta mascherata, della sua definizione e importanza soggettiva e sociale: funzionando come un meccanismo di decostruzione insomma che “mostra come noi fabbrichiamo npoi stessi quotidianamente” (C. Arnaud, Qui dit je en nous?, Grasset, 206, cit. da Alfano); ma dall’altro, da questa centralità dell’identità è costretto a dipendere e a erigerla a perno della sua deviazione, restandone così ostaggio, perché per quanto si faccia beffe delle convenzioni sociali che la garantiscono, le deve rispettare per essere riconosciuto nella diversa identità che ha assunto, perché gli altri lo accettino per quello che dice di essere. Ancor di più se usurpa un’identità reale, perché deve rispettarne le caratteristiche talvolta fino ai minimi dettagli, che lo imbrigliano, lui che faceva della fluidità il proprio presupposto e metodo, come una rigida corazza, se non addirittura come una vergine di Norimberga, che deve indossare ogni istante per non tradirsi e per non essere smascherato. Denuncia l’identità come recitazione di una parte dettata dalla società, per ritrovarsi costretto a recitarne un’altra di sua invenzione, magari divertente all’inizio, ma alla lunga ben più faticosa, perché sempre sotto forzato controllo, senza possibilità di rilassarsi e di concedersi l’abbandono e la smemoratezza che punteggiano i giorni dei suoi turlupinati interlocutori; mentre se viceversa di identità cambia spesso, diventa succube del cambiamento, schiavo di un’estenuante, interminabile metamorfosi. (anche se in certe sue incarnazioni letterarie viene spesso evidenziato il camaleontico virtuosismo, come nell’impostore trionfante del racconto The confidence-man di Melville preso in esame da Alfano, che “produce innanzitutto credenza: e lo fa esercitando la finzione”).

Non è un lavoro semplice, a volerlo fare bene (a volerlo fare bene, nessun lavoro lo è), ed è per questo che necessita di conoscenze, tirocinio e esercizio costante. Diventare impostore a tutto tondo, se così si può dire, e non in modo episodico, è un’arte (l’“ottava arte”, la chiama a più riprese Alfano), che richiede competenze e persino una scuola, a qualsiasi livello sociale la si voglia esercitare. E così Alfano, rifacendosi alla straordinaria raccolta di testi e documenti curata in modo mirabile da Piero Camporesi, Il libro dei vagabondi, (Einaudi, 1973), prima si sofferma sulla “scuola dell’impostura” dei simulatori e truffatori medievali che è facile immaginare dura e selettiva, e sull’esperienza sempre precaria del picaro che ha avuto la sua più alta incarnazione in Lazarillo de Tormes (Adelphi, 2019), anche perché ne va della libera sopravvivenza; ma non dimentica poi anche i ceti superiori, che quasi nello stesso periodo, per districarsi nella vita di corte sempre più rigida e ricca di competizione e trabocchetti, trovano nel capolavoro di Baldassar Castiglione, Il Libro del Cortegiano, una bibbia che verrà studiata in tutta Europa da generazioni di nobili e di funzionari, con i suoi “aggiornamenti” apportati dai manuali gesuiti e secenteschi sulla “dissimulazione onesta”.  Si tratta sempre e comunque di subordinati, tuttavia, sia che si arrabattino ai margini della società, sia che ambiscano a scalarne i vertici, perché anche qui l’impostura nasce da uno stato di inferiorità e di bisogno (fosse pure quello “affettivo”, di Otello); l’impostore non è mai chi sta veramente in alto, ma chi aspira a innalzarsi: chi cerca di giocare le regole perché non le può dettare; chi rischia di aggirare la legge perché qualcuno l’ha già in pugno. Per questo bisogna armarsi.

 

L’imbroglione “naturale”, il burlone per qualità innate o per bonarietà di carattere, non va molto lontano se non affina doti e capacità di osservazione con studio e esercizio. Il fenotipo spontaneo resta chiuso in una dimensione circoscritta, domestica o locale; improvvisato e di bassa lega, è destinato a un veloce smascheramento e vituperio, alla ritorsione della derisione sulla sua persona e alla condanna. Il suo repertorio non si discosta mai, in fondo, dalle piccole furbizie quotidiane che sono l’appannaggio, il parco giochi e la riserva indiana, dell’uomo comune (ma anche a volte la sua ultima risorsa) che, truffando i suoi simili e venendone incessantemente truffato, finisce forse per contribuire alla redazione di una brillantissima enciclopedia della miseria, di cui però saranno gli altri a godere. Il professionista e l’artista invece, come ci insegnano tante storie inventate (orali, scritte, rappresentate e filmate) e reali, sono ammirati e spesso la fanno franca in misura del loro successo, perché più questo cresce più essi sono in grado di cambiare le regole e di imporre le proprie, o quanto meno di piegare a proprio vantaggio quelle vigenti, con il plauso delle folle. Doppio salto mortale con atterraggio in piedi. Viva il comandante! Viva il presidente! (Poi verranno smascherati e puniti, si sa, presto o tardi, per la buona pace delle coscienze sensibili; quasi sempre.)

Quello che si impara, comunque, tra i secoli XVI e XVIII, è a difendersi, a conoscere se stessi e gli altri, introiettandoli e insieme proiettando l’immagine di sé che pensa che loro si aspettino: è in questo periodo infatti che, assieme a quello dell’individuo moderno si ha “l’atto di nascita dell’impostore”, secondo le parole di Valentin Groebner citato da Alfano. Questa duplice azione apre lo spazio a una nuova dimensione dove ritagliarsi uno spazio proprio, quello della propria interiorità come ultimo baluardo di difesa dall’invasione, più ancora che dall’invadenza degli altri. Baluardo sempre più fragile man mano che ci avviciniamo ai nostri giorni, come è noto. Finto baluardo. Ennesima impostura.

Boccaccio, Ser Ciappelletto

Quello dell’impostore è un doppio movimento, di potere e di difesa. Difesa dagli altri impostori (da tutti gli altri, che lo sono perlopiù senza saperlo, al riparo dei ruoli sociali che ne garantiscono la legittimità e accettabilità), che diventa sopraffazione (sui pochi o i tanti, a seconda di capacità, opportunità e ambiente di azione: forza, comunque; potere).

D’altra parte è impossibile non essere impostori davanti a se stessi, prima ancora che davanti agli altri, perché per non mentire bisognerebbe conoscere la verità. Ma quale? Il problema, che acquista sempre maggior rilievo negli ultimi due secoli, sta qui: di quale verità parlo e di quale me stesso parlo, quando parlo di verità? A rigore non si dovrebbe parlare nemmeno di menzogna, allora… Si tratta di verità relative a questo o quel nostro ritenerci noi stessi, rispetto a ciò che sappiamo o ignoriamo, e al tempo, al ricordo o alla rimozione o all’omissione eccetera. Parole.

Mento, indosso (assumo, faccio mia) una maschera, che è mia sempre al posto di altre, non perché la voglio assumere ma perché non posso evitare di farlo sin dal primo momento in cui sono guardato; ancor prima di sapere di essere guardato, e anche prima di sapere che quello che mi guarda sono io (come insegnano Freud, Lacan, Pirandello, Pessoa, Goffman, zio Giacomo, l’amico Witold…).

Il discrimine tra l’impostore “vero” e l’uomo comune sarebbe allora l’assunzione volontaria di un ruolo e una maschera che non corrispondono a quelli che i parametri socio-culturali vigenti esigerebbero nei comportamenti pubblici e riguardo alle aspettative personali, cioè a ciò che un individuo è indotto a esigere da se stesso.

Far coincidere il soggetto da truffare con se stesso svelandogli le sue caratteristiche, più che nascondendo la propria identità, cioè l’opposto di quanto avveniva nell’antico regime, è la nuova strategia dell’impostore nell’epoca del capitalismo, il quale, confermando “ciò in cui i suoi interlocutori credono” conferma anche la loro identità soggettiva, come fa l’“uomo di fiducia” dell’omonimo racconto di Melville.

Solo la condivisione di qualcosa di esterno (consuetudine, legge, regole ...) permette di fissarsi per un po’, e per un certo numero di soggetti, in un’identità ritenuta vera e autentica. Subito, però, riparte il ritornello dell’altro che ci soggioga e inganna, della necessaria riservatezza, del segreto che dovrebbe appartenerci e fondarci in quanto individui separati che sanno chi sono e si ritagliano uno spazio inaccessibile e invisibile per non essere presi nella rete e ingannati. Ma questa invisibilità è anche la nostra condanna. Allo stesso modo, anche chi di noi che per affermarsi in quanto individuo si rifugia nella propria interiorità e la scandaglia fino a attingere una piena trasparenza e a coincidere con se stesso senza distanza né differenza, alla fine si ritrova così prossimo a sé che non (si) vede più niente. Così al buio che brancola e afferra il primo sostegno che capita, per orientarsi, per non perdersi o cadere. La sua sicurezza si ribalta in esposizione e fragilità. La sua indipendenza in assoluta dipendenza. Ed è proprio allora che arriva a soccorrerlo, a soccorrerci, con il volto aperto e suadente così simile al nostro, l’impostore.

A meno che, sull’esempio dell’impostore ma senza la volontà di ingannare, anche noi non ci adattiamo alla continua, incerta, euforica ma anche faticosa e ansiogena, altalenante, metamorfosi dei ruoli che rappresentiamo di fronte a noi stessi e agli altri, lasciandoci alle spalle, come una pelle di serpente, benigno o maligno si vedrà, le nostre pretese di identità e trasparenza, di sapere chi e cosa siamo e di tenerlo fermo, accada quel che accada.

09/12/23

Una voce dal coma profondo Donghi, Tre centimetri dietro gli occhi

 


Un uomo in coma profondo da anni può ancora, a dispetto di tutto, pensare? Può percepire qualcosa del mondo esterno anche se non è in grado di restituire nulla di quanto avviene in lui, nonostante sia stato sollecitato e monitorato e curato con tutti i presidi tecnologici e farmacologici più avanzati? L’assenza di risposta a qualsivoglia stimolo basta a decretare quella di ogni capacità mentale, tutta interiore, che nemmeno il più sensibile metodo di rilevamento riesce a individuare? Ma se supponiamo che una capacità possa comunque sussistere, di che tipo sarà? E se pensa, cosa penserà l’uomo in coma?

Sono queste le domande da cui muove Tre centimetri dietro gli occhi (Scienza Express, 2022, p. 149), prima prova narrativa di Pino Donghi, saggista, curatore di collane editoriali e autore di libri di divulgazione scientifica. Lo spunto e il titolo sono debitori di Giulio Tononi, che durante una conferenza invitava il pubblico a riflettere sulla possibilità (lui dice evidenza) che “tre cm dietro gli occhi” di un paziente total locked-in potrebbe esserci una coscienza perfettamente vigile quanto incapace di comunicarlo all’esterno.

L’assunto di partenza non è poi così strampalato: come dice la dottoressa Monti, la neurologa che con passione e partecipazione (contrariamente al primario dott. Bruni, prototipo degli aridi burocrati che costellano la sanità nostrana) per anni illustra il caso di Riccardo, il paziente in coma e voce narrante del romanzo, agli studenti di neurofisiologia del suo corso: “l’assenza della prova non costituisce la prova dell’assenza” (p. 70); infatti secondo recenti ipotesi “la coscienza è un prodotto del cervello, solo del cervello, non ha bisogno di stimoli esterni, non ha bisogno di nervi, di collegamenti con altre parti del corpo, e non ha bisogno nemmeno di ottanta dei suoi cento miliardi di neuroni: gli bastano i venti del talamo e della corteccia” (p. 115-6).

Una volta deciso però che in questo profondissimo buio silenzioso e immobile, una voce interiore sia possibile, si tratterà poi di decidere che cosa potrà dire e come. In estrema sintesi le principali strade possibili sono due: la prima l’ha percorsa in modo così perfetto e radicale Samuel Beckett fino ai bordi del silenzio (e nelle ultime opere anche dentro) da aver praticamente precluso qualsiasi forma di prosecuzione che non si risolva in un patetico scimmiottamento; l’altra si dirama in più rivoli che vanno da monologhi interiori sempre più destrutturati e confusi, alla riproduzione di una voce narrante “normale”, con le sue lacune e manchevolezze accentuate dal suo stato fuori dal comune, ma tutto sommato ancora in grado di ricordare, riportare ciò che avverte fuori, e riflettere senza abbandonare il filo della ragione. Ed è quest’ultima la voce scelta da Donghi per il monologo di Riccardo quando, dopo cinque anni total-locked-in, viene deciso di interrompere le cure, o, come si dice con una di quelle espressioni che lui ha in odio, quando la sorella dà il consenso a staccare la spina. Una voce fin troppo razionale, ironica, a momenti petulante, altri nostalgica, lucida ma anche appassionata, disillusa eppure avida di sapere, desiderosa di capire e di trovare ragioni, come lo era il suo “portatore-non portatore” quando era ancora sveglio, attivo e pieno di vita. Il cinquantenne Riccardo Borrazzini, infatti, prima del banale incidente motociclistico che l’ha ridotto in quello stato e nel quale è morta la sua amata compagna Lucrezia, era un editor editoriale attivo specialmente in campo scientifico, come Pino Donghi, che appunto per questo ha potuto capire, e poi assimilare e discutere tra sé e al cospetto dell’uditorio virtuale a cui non cessa di rivolgere il suo discorso e le sue perorazioni, tutte le più recenti acquisizioni e ipotesi di ricerca tuttora in corso delle neuroscienze, in particolare sulle varie problematiche relative alla coscienza, e comunicarle in modo chiaro, affabile e didattico anche al lettore digiuno nella materia.

 

Nondimeno il paradosso permane: come potrebbe il comatoso riconoscere infermieri dottori e visitatori, sentire i loro discorsi, apprendere nozioni mediche, attivare ricordi ecc., senza che almeno l’udito sia ancora attivo e che questo non dia luogo a nessuna attività cerebrale registrabile? Ovviamente a Donghi non interessa il realismo e fa ampiamente ricorso, come affermato in un’intervista, alla “sospensione dell'incredulità, quella che gli storici della scienza indicano come condizione necessaria nell'impresa e nella scoperta scientifica: io direi anche nella vita. Ho provato a pensare l'impensabile - ha poi aggiunto -, immaginando un essere umano che chiede di poter continuare a vivere dalla condizione forse più estrema che è dato concepire: ho scritto di Riccardo con l'idea di denunciare una modalità prevalente del "pubblico dibattito" che si avvita dentro posizioni preconcette, argomenti confezionati, posizioni da tifoseria l'un contro l'altra armata.” Così Donghi, una volta delineati i presupposti e i limiti della narrazione, può procedere in un certo senso “come se niente fosse”, perché è altro che, nell’esperimento che viene ad essere la finzione, gli preme di indagare e di dire. Alla base della presa di posizione di Riccardo non stanno tanto l’istinto di conservazione o il conatus spinoziano per cui la vita vuole vivere, sempre, finché c’è un residuo di possibilità, quale che sia; quanto l’evidenza, a suo parere, che la vita ama vivere, sempre, in qualsiasi modo e circostanza, persino nell’estremo dolore. Anche se, come scrive Robert Walser in Jakob von Gunten (p. 102): “Un bel giorno mi toccherà un colpo, uno di quelli che annientano una persona, e allora tutto finirà: finirà questo intrico, questo struggimento, quest’ignoranza, tutto, tutto, gratitudine e ingratitudine, menzogna e miraggi, questo creder di sapere e invece non saper mai niente. Però desidero vivere, non importa come”. Ma la ragione principale, per usare le parole di Riccardo, è che non solo “tre centimetri dietro gli occhi ci sono, sono vivo e sono cosciente, e voglio vivere per questo” ma soprattutto che “voglio vivere perché l’accidente biologico che mi ha fatto nascere … è una tale assoluta meraviglia che vale la pena viverla in qualsiasi maniera, anche la più estrema”. Basterebbe questa semplice, ma non così facile, convinzione, a fargli respingere tutte le posizioni dei vari schieramenti religiosi o ideologici che infervorano il dibattito bio-etico sull’eutanasia, pronti a gettarsi sul suo caso non appena si saprà della decisione presa. Ma ce n’è un’altra, che non attiene alla rivendicazione della sua assoluta unicità e differenza non sussumibile sotto nessuna bandiera senza che questo gli impedisca di comprendere e condividere lotte e sofferenze di chi lo ha preceduto, ciascuno nella sua individualità e sofferenza, da Piergiorgio Welby a Eluana Englaro a Karen Quinlan a Terry Schiavo a Jean-Dominique Bauby , ma alla ripugnanza per le varie retoriche a cui essi fanno ricorso, alla loro meccanicità e vuotezza formulare che già da sola basterebbe a rivelare la strumentalità di potere che ogni presa di posizione cela dietro le loro convinzioni impermeabili e i principi che vengono sventolati, da cui ogni forma di pensiero sembra essersi eclissato, e per il kitsch consolatorio e pseudonobilitante a cui tutte approdano (il riferimento è a Kundera, uno dei numi tutelari, di Riccardo, e di Donghi, che da lui prende anche il modello della forma del romanzo-saggio che Tre centimetri dietro gli occhi intende essere.)

 

                                                            Karen Ann Quinlan

A compensazione di un’adesione non sempre facile alla plausibilità della voce narrante e del suo discorso, la finzione della condizione estrema dell’enunciazione, per quanto abilmente alleggerita e sfumata da tutto l’armamentario dell’understatement, ironia litoti eufemismi attenuazioni, e dalla rivendicazione dell’assoluta soggettività di ogni asserzione, assume una spiccata forza di persuasione presso il lettore, avvalorando  con un supplemento di verità, se così posso esprimermi, ogni affermazione e le varie prese di posizione sui temi più disparati di cui è intessuto il libro: dai dibattiti bioetici, con le varie riflessioni dei difensori della vita, tutte respinte al mittente (p. 81-82), alle riflessioni sulla ricerca, gli interessi del settore privato e gli obblighi di quello pubblico, al kitsch, e ovviamente all’amore.  Chi parla da lì non ha niente da perdere e quindi non c’è nessun motivo di mentire e può quindi dire la verità e nient’altro che la verità, almeno quanto a sé e alla sua situazione nonché al contesto sociale, famigliare e comunicativo che lo riguarda. Il lettore tende ad aderire e, una volta sospesa l’incredulità, a empatizzare. Altrimenti sarebbe troppo cinico. Crudele, persino! E chi mai vorrebbe esserlo?

Medici, infermiere, amici e parenti sfilano davanti a Riccardo, e lì, da soli, al cospetto del suo silenzio e della sua assenza di reazioni, essi pure non riescono a frenare il loro bisogno di una parola sincera, senza riserve, una parola di verità come se solo davanti a un testimone silenzioso e impedito a qualsiasi reazione possano aprirsi, sfogarsi, confessare, confidarsi senza ritegno, cioè senza paura, più che in un confessionale. Qui si è certi che nessuno giudica. E che nessuno andrà a spifferare niente. Forse Riccardo ascolta, forse no, e allora si può dire, svuotarsi, sgravarsi di pesi grandi e piccoli, rovesciargli addosso tutto ciò che di solito si tiene dentro, segreti, timori, desideri, e angosce.


C’è poco da scherzare comunque. Lo sa benissimo chi ha avuto o ha una persona cara in una situazione di coma profondo. Solo chi vi si trovasse potrebbe permettersi l’ironia, ammesso che voglia farlo, come pure capita a Riccardo, dopo aver superato la disperazione dei primi tempi e per tenere a freno l’angoscia che lo accerchia ora che stanno per porre fine alle procedure che lo mantengono in vita. Ma chi guarda da fuori tanta voglia non ne ha, impietrito com’è dal dolore e dall’assoluta impotenza a farsi una benché minima idea di come sta e cosa eventualmente prova la persona cara, al di là delle approssimazioni che la pietà, il desiderio e la colpa possono suggerire, comunque sempre a partire da verosimiglianza che è solo la sua, cioè quella di chi è total locked-out, chiuso fuori, dentro di sé e i propri limiti di conoscenze e immaginazione, e sempre con il retropensiero che ogni cosa potrà mai pensare e decidere, come avviene per la sorella di Riccardo nel monologo in cui gli “comunica” l’interruzione delle cure, sarà al massimo poco più di un’autoassoluzione da un lato, ma in pratica il consolidamento, una volta per tutte e sapendo che non verrà mai meno, del senso di colpa di essere vivo, quanto a sé, e di voler che questa cosa (per usare la parola mantra con cui il primario Monti liquida ogni problema), qualunque essa sia, cessi una volta per tutte. E che cessi il tormento della sospensione, e della speranza, per lasciar spazio a quello del definitivo, per quanto tremendo.

Invece è proprio la speranza che Riccardo intende tener viva contro le formule assolutorie e le frasi fatte, le frasi-nastro di Orwell, più volte citato, a cui tutti ricorrono per negarsi al pensiero invece di accedervi e approfondirlo. Come se fosse semplice non ricorrervi. Come se tutti potessero avere quella sensibilità linguistica, quella capacità di pensiero, e di sopportazione, che comporta il solo desiderio di potervi sfuggire. Ciò che sarebbe invece un dovere di chi per professione, e non solo per pura umanità, è a contatto con queste realtà quotidianamente, e del pensiero e del linguaggio deve aver cura, come l’editor Riccardo, e dietro lui lo scrittore Donghi.


 

 

06/12/23

Gente che si detesta e noi li amiamo tutti lo stesso (Appunti per niente 41)

 

Monumento a Anna Achmatova

 

E un’altra cosa che mi è venuta in mente oggi, che oggi è stata una giornata molto fruttuosa, perché mi sono venute in mente tre cose, addirittura!, un’altra cosa dicevo, la terza, è che quando leggiamo nei libri di certi autori che noi ammiriamo e ci piacciono, chi per un verso chi per un altro, e alcuni per tanti versi o in tutto e per tutto, è che mentre loro spesso si detestavano, per esempio Anna Achmatova e Esenin (sto leggendo l’ultimo libro di Paolo Nori, che a me, lo ripeto, per l’ennesima volta, piace molto), o sempre la Achmatova e altri poeti o critici da lei conosciuti, anche se questo non è un esempio proprio buono, perché lei ne detestava parecchi di colleghi, è che invece a noi possono stare tranquillamente simpatici, o piacerci, l’una e l’altro, e l’altro ancora e così via, e non ci vediamo niente di male, e ci meraviglieremmo anzi se qualcuno ce lo vedesse, ma il fatto è che noi li pensiamo vivi da morti, e vivi sono per le loro opere infatti, per il loro ruolo in questa o quella circostanza, e a volte anche solo per qualche singolo verso o parola, mentre loro quelle cose le hanno dette e scritte tra molte altre e in quelle e altre simili circostanze ci sono vissuti davvero, tutti interi, uno davanti all’altro, l’uno contro l’altro, in certi casi, e proprio non potevano sopportarsi o amarsi come facciamo noi, o almeno come faccio io, ma questo poi in fondo non importa, perché loro allora erano vivi, e poi sono morti, e quello che per noi li fa vivi, è che quelle circostanze e le loro persone sono passate, mentre quello che a noi importa di loro sono le cose che hanno detto o scritto o fatto, in queste e quelle circostanze e basta, e è quello che ci dà l’immagine di tutti loro e è questa cosa parzialissima e importantissima che amiamo in tutti loro, questo essi sono per noi, e questo, giusto o sbagliato che sia, ci basta per amarli senza riserve, senza badare a tutto il resto.

 


 

02/12/23

Lorenzo Lotto


Nel 1510 Lorenzo Lotto stava affrescando a Roma gli appartamenti papali, quando arrivò Raffaello e tutto quello che lui aveva dipinto venne cancellato per lasciar spazio a quanto avrebbe fatto il divino Urbinate. Niente da dire: capolavori. All’interno dei quali alcuni però intravedono frammenti di sua mano che non sfigurano affatto. Tornato a Venezia, dove è morto da poco Giorgione e il vecchio Giovanni Bellini detiene ancora una buona fetta di mercato, sfolgora la stella di Tiziano. Alla morte di Giovanni (1516), è lui il secondo pittore della città. Eppure nonostante sia ormai un uomo maturo con alle spalle una carriera già cospicua di opere di altissimo valore, stupende nell’esecuzione e originalissime in molti aspetti della composizione, ma quasi tutte disseminate in provincia, a Treviso, Bergamo e nelle Marche, non riesce a ottenere che poche tra le numerose grandi commissioni che stanno cambiando il panorama artistico religioso e civile della città. Nella sua patria, dove è nato nel 1480, le sue opere, anche quelle che ai nostri occhi appaiono splendide, non riscuotono il successo che meritano e anzi alcune più tardi saranno dileggiate dai velenosi scrittori e critici del tempo (come l’Aretino e Ludovico Dolce), tutti proni in adorazione delle inarrivabili creazioni del Vecellio, che rendono ciechi davanti a ciò che si discosta dal suo canone. E così lui deve mettersi continuamente per strada, andare e tornare nella bergamasca dove è ammirato e ha tutta la libertà di inseguire le sue visioni originalissime, e talvolta persino stravaganti, e nella provincia marchigiana, anche in piccolissimi borghi dove pure lascerà alcuni dei suoi capolavori assoluti, come la meravigliosa grande Crocifissione di Monte San Giusto (Mc) o i mirabolanti affreschi dell’Oratorio Suardi a Trescore Balneario (Bg) dove la sua “travolgente vena narrativa” (Pinelli) ha modo di diffondersi nella più grande ricchezza di scene e personaggi e descrizioni anche della minuta vita quotidiana, che pochissimi vedranno ai suoi tempi e ancora meno dopo. Sono ancora là, in attesa dei pochi visitatori di passaggio e, ora, degli ammiratori in pellegrinaggio cresciuti negli ultimi decenni, come la fama dell’artista, dopo alcune mostre memorabili e il lavoro appassionato di tanti studiosi che hanno fatto seguito agli studi inaugurali di Bernard Berenson a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900, che hanno prodotto un numero copiosissimo di ricerche e monografie. Ora, a riassumere e coronare questo enorme lavoro, arriva Lorenzo Lotto. Catalogo generale, curato per Skira (con la collaborazione di Raffaella Poltronieri, Valentina Castegnaro e Marta Paraventi), da Enrico Maria Dal Pozzolo che l’ha introdotto con un saggio di rara sapienza e bellezza e corredato di accuratissime schede e apparati, da cui attingo le informazioni di carattere storico, formale e iconologico, nonché le citazioni non segnalate altrimenti.

1 - Crocifissione, (1523) -1529 ca., Monte San Giusto (Mc) 

2 - Oratorio Suardi, (1523)-1524,Trescore Balneario (Bg)

Il volume fa il punto delle ricerche più significative, inquadrandole in una visione completa e approfondita di tutti i documenti e delle opere autografe e di sicura attribuzione, riprodotte in modo magnifico, e seguite da sezioni in cui vengono analizzati i dipinti dubbi, quelli di bottega e della stretta cerchia, le copie da originali perduti o non individuabili con certezza nonché la trafila delle false attribuzioni. Mancano i disegni, in particolare quelli superstiti per le straordinarie tarsie della Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo, che entreranno forse in una pubblicazione futura.

È il classico trionfo postumo di un autore misconosciuto per secoli anche se in vita di estimatori ne ha avuti (un documento trevigiano del 1505, dunque quando ha appena 25 anni, lo definisce “pictor celeberrimus”) sia pure prevalentemente in luoghi marginali rispetto alle grandi piazze che hanno fatto la storia dell’arte. La sua è stata una vita non sempre fortunata, e spesso inquieta per rovelli religiosi e personali che l’hanno condotto a vivere anche presso conventi e istituzioni religiose, fino a ritirarsi negli ultimi anni come oblato presso il santuario della Santa Casa di Loreto a cui lascerà tutti i suoi residui averi e le ultime opere. Più frenato che aiutato da un’indole buona e generosa, come mostrano doni e lasciti che faceva anche quando gli affari non andavano benissimo, non sempre capace di gestirsi e in varie occasioni preda di committenti insolventi o pronti a tirare sul prezzo o a pagare molto meno del dovuto, era invece sensibile alle nuove idee religiose e cultore di conoscenze a volte esoteriche e a rischio di scomunica, di fede fervida e periodicamente attratto dall’isolamento dal mondo eppure attento a ogni aspetto della vita anche semplice che ha rappresentato con grande vivezza, benevolenza e ironia negli affreschi e in molte predelle, e acutissimo osservatore di tutte le sfumature della psiche, del carattere e dello status, sempre rispettato anche quando umile, degli uomini e dei committenti.

3- Cristo morto sorretto da due angeli, 1505, cimasa della Pala di Santa Cristina, Quinto di Treviso

Poco si sa della sua formazione, anche se si notano nelle opere dei primi anni, accanto a una precoce maestria tecnica, rimandi ad alcuni dei grandi maestri presenti a Venezia tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500: Vivarini, Bellini, Antonello, Dürer ecc., sempre ricondotti comunque a uno sguardo e a una cifra stilistica personali.

Fin da subito infatti, per esempio nella Pala di Santa Cristina di Treviso (1505), affiorano alcuni tratti che lo differenziano dai suoi contemporanei per la forte empatia che non indulge quasi mai al patetismo, che caratterizza i suoi soggetti di natura religiosa e in dettagli inediti nella rappresentazione anche dei soggetti più comuni: si prendano per esempio i due Angeli che nel Cristo morto sorretto da due angeli, cimasa della Pala di Santa Cristina, a Quinto di Treviso (1505), sorreggono il corpo di Cristo, il primo dei quali, alla sua destra si nasconde dietro la spalla del morto per non mostrare che sta piangendo, squassato da singhiozzi incontenibili che sembrano agitare persino le sue ali, la sinistra messa quasi di traverso, come disarticolata; mentre l’altro, affranto, volge la testa perché gli manca anche il coraggio di guardare, gli occhi velati, persi, pur mantenendo il contatto con il Signore a cui da una parte regge il braccio come l’angioletto del Cristo in pietà di Antonello del Prado (ma dipinto a Venezia: vedi qui), e dall’altra appoggiando la mano sinistra sulla spalla, quasi solo sfiorandola, con un’estrema delicatezza, che Lotto eguaglia mostrandone solo la punta delle dita, appena percepibili, come nascoste. 

Ritratto del Vescovo Bernardo de’ Rossi, 1505, Napoli, Museo di Capodimonte

Lo stessa originalità si riscontra anche nei primissimi ritratti, genere in cui Lotto raggiunge vertici di assoluta grandezza, per esempio nel Ritratto del vescovo Bernardo de' Rossi, ancora del 1505, di memoria düreriana ma già pienamente lottesco, per l’incarnato che non nasconde arrossamenti e leggere imperfezioni della pelle, il taglio della figura rappresentata, cosa rara ai tempi, di tre quarti, lo sguardo diretto verso lo spettatore che suggerisce una forte personalità, rafforzata, in modo discreto ma proprio per questo molto marcato, dal pugno che stringe la pergamena, con la mano e l’avambraccio tagliati a metà, con evidente sprezzatura, che tanto anche quel frammento già basta.

Sono spesso, scrive Dal Pozzolo, “ritratti portentosi … personaggi di un teatro … più feriale che eroico, e senza precedenti”, di gente di provincia e delle più varie professioni, che più che imporre i propri desideri e i capricci dell’alterigia e del rango, erano già contenti che un simile maestro li ritraesse (quasi tutti, perché nel tempo ci saranno anche quelli che li rifiuteranno e rispediranno al mittente, che si adatterà a riciclarli in qualche altro modo e ad accettare pagamenti quasi umilianti, anche in natura…). Ritratti che perseguono una precisione tale da apparire a volte persino spietata, quando non omettono le vene sul cranio lucido, la verruca sulla fronte o sulla guancia, couperose e doppi menti, la piega del labbro o la forma del naso che non ci sarebbe voluto molto a rendere più gradevoli, sguardi non proprio vispi o viceversa inquietanti, o che trasmettono senza infingimenti il senso di una vita.

 

 Ritratto di Liberale di Pinedel, 1543, Pinacoteca di Brera, Milano

 Anche nei ritratti, come nelle grandi pale e nelle opere per privati, le innovazioni sono numerosissime: personaggi mai visti prima, almeno come ritratti singoli e non in scene ampie, con “un’immediatezza realistica che non conosce più limite di accademia o di tradizione” (Pignatti 1954), come il Busto di donna di Digione, che sembra una “massaia”, dal volto identico a quello di una mia ex-allieva in questo caso, o con lineamenti che ho visto spesso dalle mie parti, come è comune che mi capiti con Lotto (sono bergamasco). Pose informali, imprese simboliche dentro il ritratto, criptoritratti, tagli dell’immagine inconsueti, ritratti doppi e matrimoniali, dove le reciproche relazioni sono messe a nudo a volte con tenerezza, come nelle bellissime sacre conversazioni, così informali e vive, e altre con ironia o addirittura velata malizia, ma tutti sempre con “prodigiosa perizia mimetica”. Si veda a tal proposito il giovane di Vienna, “primo esempio in cui Lotto introduce un’impresa simbolica proprio dentro il ritratto e non sul suo coperto”, come in quelli che si trovano a Washington, primi esempi delle allegorie che hanno accompagnato tutta l’opera del Lotto, “raffinatissime” non solo per la concezione, per la quale si avvalse di amici e di committenti molto dotti per la simbologia e le storie, ma a cui aggiunse spesso qualcosa, o anche molto di suo, sia a partire dai suoi interessi teologici ma anche alchemici e astrologici, sia soprattutto in virtù di un’esecuzione pittorica che non si limitava ad applicare le indicazioni e le fonti ma le sviluppava autonomamente e apportava loro quell’approfondimento e la particolare riflessione che nasce dall’atto stesso di dipingere e che solo l’immagine può apportare.



Ritratto di Giovane con lampada, 1506 ca., Vienna, Kunsthistorisches Museum


Numerosi sono anche gli autoritratti, veri e presunti, disseminati in tutta l’opera, tra cui quello probabile di uno dei Magi dall’Adorazione (1554-55 ca.) e del vecchio che si affaccia da una porta nella Presentazione di Gesù al Tempio (1554-56 ca.) di Loreto, forse in assoluto la sua ultima opera da cui è partito Francesco Scarabicchi per il suo notevole libretto di poesie con ogni mio saper e diligentia. Stanze per Lorenzo Lotto (liberilibri, Macerata, 2013) dedicato al pittore. Nella prima delle due tele, incompiuta e forse non tutta di sua mano, l’autoritratto sarebbe quello dell’anziano re che si prostra a terra, in una postura molto rara se non da lui inventata, per baciare il Bambino, mentre nella seconda nel vegliardo che si sporge da una porta che dà sullo spazio vuoto nella parte alta del Tempio e della tela, lasciandoci così un’immagine completa di sé: quella di un uomo di grande spiritualità, certo inquieto, ma che ha trovato alla fine la pace in un porto sicuro, conservando intatta la sua curiosità per ogni evento, persona, spazio e oggetto, a cui ha prestato la propria attenzione e cura per tutta la vita, per le variazioni di ogni tipo di luce, per ogni ombra, per la superficie di ogni epidermide e di ogni tessuto, per la sacralità di tutto.

Nozze Mistiche di Santa Caterina, Palazzo barberini, Roma


È soprattutto dal periodo bergamasco in poi, alla metà degli anni ‘510, che le innovazioni si moltiplicano: accanto a quelle citate della ritrattistica, Lotto, scrive Dal Pozzolo, “sconquassa i moduli della pala d’altare”, non limitandosi a proporre nuove soluzioni, [ma] scardin[ando] dall’interno schemi iconografici consolidati”: ambientazioni in plein air, paesaggi protagonisti e non solo di sfondo (“chiave a cui egli accorda lo strumento della sua poesia”, come scrisse Anna Banti), baldacchini invece di strutture architettoniche, scenografie, committenti ritratti come santi e in alcuni casi addirittura come Madonne o partecipi nelle Sacre conversazioni o nei presepi, nelle quali davvero i personaggi sono in relazione e conversazione tra di loro, in un gruppo sacro presentato in modo “affabile” e “composto in placido scambio di affetti”.

Ovunque, lo sguardo insegue sempre il visibile in tutte le sue sfumature sino alle più sottili variazioni di materia e di luminosità: effetti di luce, dettagli naturali, pieghe dei panneggi, piedi, mani e sguardi, posture, piccoli enigmi, oggetti, tendaggi, ali, scorci, aneddoti, “eccentricità iconografiche”, varietà e naturalezza delle posture singole e dei personaggi tra di loro, mai ingessate o rigide, ieratiche e monumentali solo ove strettamente necessario, e piene sempre di vitalità, invece, di movimento e di trovate curiose, senza essere bizzarre o gratuite, giocose piuttosto, e che non mancano anzi, ai miei occhi, di una certa dolcezza. Come quella del San Giorgio che cerca di leggere (o sbirciare) nel libro che san Gerolamo tiene tra le mani (ovviamente una Bibbia, ma quale pagina? Probabilmente una relativa alla Vergine o all’avvento del Salvatore…) nella Madonna con santi del Museo Nazionale di Palazzo Barberini a Roma, e che mi sembra un po’ l’emblema dell’atteggiamento del pittore verso la realtà e insieme di quello auspicato per lo spettatore ideale delle sue opere.

Pala di San Bernardino, Bergamo


Non ci si stanca mai a guardare il Lotto. È un pittore che sempre inventa e si reinventa. La relativa marginalità rispetto ai protagonisti delle grandi capitali, se da una parte sarà stata certamente motivo di cruccio e fors’anche di depressione per il mancato riconoscimento di una grandezza che ai nostri occhi di oggi (ma non così fino a qualche decennio fa) appare evidente, gli ha permesso di recitare in provincia un ruolo prestigioso che ha assicurato alla sua inventiva rivoluzionaria, al suo sperimentalismo formale e nel trattamento dei temi abituali, una libertà altrimenti impossibile. Vedi un suo quadro sempre con stupore e emozione e anche quando qualcosa ti sembra di riconoscere in dialogo o ripresa da altre fonti, in ogni caso non è possibile confondersi: è un Lotto, o un suo imitatore. L’imitatore non è mai lui.

Ogni volta che incontro qualche suo quadro mi scatta qualcosa in testa, una riflessione, il sussulto per un gesto, un colore o un accostamento, effetti di luce, dettagli naturali, pieghe dei panneggi, intrecci di mani e sguardi, oggetti, tendaggi, ali, scorci, aneddoti, un ricordo, una fantasia. Non mi capita mai di essere distratto o indifferente. Prendiamo come esempio la strepitosa varietà e briosità di angeli, in volo o appena atterrati nelle inarrivabili notissime annunciazioni, solitari ai piedi dei troni, intenti in piccoli gruppi a un lavoro comune (stendere drappi ecc.) e in raggruppamenti più ampi, pieni di aneddoti, scambi divertenti, persino bisticci come nel coro musicante della Madonna in Santo Spirito a Bergamo, o acrobati stupefacenti come i quattro che sorreggono il telo del baldacchino nella Madonna con Bambino e santi (1521, Bergamo, chiesa di San Bernardino in Pignolo). Dato che sto scrivendo, vorrei concentrarmi brevemente, per finire, su quello che in quest’ultima pala sta ai piedi del trono della Vergine: il giustamente famosissimo angelo adolescente che isolato dalla scena sembra scrivere non sul piedistallo del trono della Madre, ma sul marmo del sepolcro del Figlio. Come a suggerire che ogni scrittura è funeraria. Un’ombra vela il suo viso che si volge indietro verso chi guarda, quasi attendesse da lui il dettato da trascrivere, ma indietro anche verso il passato, un passato che però deve ancora essere fissato pur essendo già definito e aspetta solo di essere scritto. L’ombra, la stessa in cui sono immersi la madre e il figlio sotto il baldacchino trascorre sul suo viso lasciando macchie luminose sulla punta del naso, all’angolo sinistro della bocca e un riflesso nell’occhio sinistro, vivacissimo. La postura è quella scomposta di uno scolaro che non starebbe fermo sulla sedia neanche a legarlo, come capitava a me a scuola, e come mi capita tuttora. Il piede destro sporge dall’ultimo gradino del piedistallo mostrando la pianta che riapparirà più sporca nella Madonna dei pellegrini del Caravaggio. La postura, rappresentata con quell’humor affettuoso che Lotto dissemina in tantissimi dettagli delle sue opere, è quella di chi fatica a contenersi e stare composto, ed è pronto, una volta terminato il suo dovere, a rizzarsi in piedi di scatto per schizzare via di corsa, più che in volo, per liberare la sua incontenibile energia, ma intanto si trattiene, bravo ragazzino, a scrivere ciò che gli viene suggerito, a scriverlo tutto, e bene, perché questo è ciò che gli è stato richiesto e che lui assolverà finché non gli sarà concesso di smettere. Mai, io sospetto, perché il compito è infinito. Il tempo passerà e qualcosa sembrerà compiuto, ma poi altro proseguirà verso un traguardo ignoto, e lui resterà sempre così, con questa vita addosso, a ristorare tutti quelli che avranno occasione di guardarlo, di rivolgergli le loro domande, dettargli le loro storie e le loro speranze, o solo di restare muti a guardare, pensando che un altro mondo è possibile.


Enrico Maria Dal Pozzolo, Lorenzo lotto. Catalogo generale dei dipinti, con la collaborazione di Raffaella Poltronieri, Valentina Castegnaro e Marta Paraventi, Skira, 624 pagine, 521 illustrazioni a colori e in b/n, E. 95,00.