12/02/17

I MORTI E IL CAMMINARE



Cammino sui morti. Tutta la terra qui intorno è solo morti, e più in là, ovunque. Li sento sotto le scarpe che urtano, si muovono, mi fanno sobbalzare, mi aggrediscono, così che non posso mai arrestarmi e riposare. Cammino, di giorno e soprattutto di notte, perché la notte, in quel suo povero silenzio di gente chiusa in casa che finge di dormire e in realtà trattiene il fiato impaurita, non sentirli è impossibile: sono loro l'incessante rumore della notte, quello che l'udito si esercita da millenni a non udire fino quasi a riuscirci, quello che altrimenti attribuiscono alle fabbriche e alla città lontana. Ma quali fabbriche? quale città? Riempiono la notte di rumori arbitrari e fasulli per non sentire quello dei morti che si agitano. Ma io li sento, di giorno e di notte ancora più chiari, e non mi resta che camminare. Miliardi e miliardi di erbe e di piante con la loro debole anima, miliardi di insetti, di animali e soprattutto di uomini: uomini morti è la terra che calpesto. Dovrei abitare all'ultimo piano di un palazzo del marmo più lucido e duro, o meglio di cristallo se sapessero cos'è il vero cristallo, e invece mi hanno inflitto questa camera incastrata nella terra,quasi tutta sepolta nella terra, in questa casa fatta di questa stessa terra che è fatta di morti.
Cammino tutta la notte su questa piazzetta che costeggia la strada dalla quale arriveranno i camion che trasportano il cristallo per la mia vera casa, l'altissima casa di cristallo che costruirò per potermi fermare a riposare e finalmente a vivere: una sfera sopra uno stelo piantato in un cubo immenso tutto di cristallo. Tutta la notte avanti e indietro sul selciato intollerabile di questa piazzetta a spiare il diverso rumore, il rumore vero, dei miei camion che devono arrivare. Li sento da lontano, sento il loro vero rumore che avanza tranquillo e inconfondibile come l'unico canto possibile tra il rumore dei morti e gli altri rumori e falsi canti che servono solo a coprirlo senza riuscirci; lo sento, e poi d'un tratto più nulla. E poi subito, dopo un intervallo infinitesimale che io solo so percepire, di nuovo rumore di camion, ma non più dei miei: gargarismi mimetici di falsi camion che si avvicinano e mi passano accanto arroganti senza fermarsi, alcuni solo fingendo di frenare per la ridicola curva che precede la piazzetta, come a volermi irridere illudendomi, illudendo me che da molto avevo capito e li avevo dimenticati. Passano e se ne vanno, solitari o a gruppi come un'orda onnipotente, e in realtà per proteggersi a vicenda, per dissimulare la loro debolezza essenziale.
Cammino per ore e ore fino alla prima luce con l'orecchio più puro teso all'ascolto, fumando sigarette su sigarette, le peggiori, quelle che non fuma nessuno e che mi regalano con la torbida pietà di chi vuole solo ammansire. Di giorno è inteso che non verranno, non ci devono scoprire prima che tutto sia finito e quindi indistruttibile. Farò tutto in una notte. Una notte è lunghissima, non finisce mai, quindi una notte basta. Nessuno deve accorgersene, nessuno deve saperlo, eppure ci sono dei giovanotti che vengono certe sere, sul tardi, quando non c'è più nessuno in giro, solo le scie della paura della gente fuggita nelle sue tane, mi parlano delle loro avventure (ma quali avventure?) e tra un discorso e l'altro, come distratti, cercando di soffocare il misero sarcasmo di cui soltanto sono capaci e alcuni un fondo infetto di umanità mortale, mi chiedono della mia casa. Non è una casa, dico loro per sviarli con una menzogna molto vicina alla realtà, di solito la più efficace: non è una casa, è un ponte che sorvolerà altissimo tutto questo paese di cui siete gli stupidi prigionieri, secondini di voi stessi, la strada eccelsa per uscirne; ma loro continuano a chiedermi della casa offrendomi le sigarette migliori, che io accetto per non tradirmi e perché mi piacciono anche se non ignoro di cosa sono fatte. A cosa serve un ponte se tutta la terra anche fuori del paese è solo morti? Un ponte lunghissimo servirebbe, tanto lungo da non poterlo percorrere tutto prima di morire, una fascia tutto attorno al pianeta su cui trasportare la terra e i morti che muoiono e moriranno ancora, fino a liberare il nucleo di cristallo che sta sotto e che i morti hanno coperto morendo a cominciare dal primo essere, dal primissimo che c'è stato e che per aver voluto essere è morto.


Cammino su questa terra dove ora sequestrando i miei camion mi impediscono di costruire come prima ostacolavano i miei scavi. Hanno inzuppato la terra di acqua, sotto, per far marcire i morti vecchi, come se servissero a qualcosa, e non permettere a nessuno di scavare fino in fondo. Ogni volta che ho scavato mi hanno fatto trovare l'acqua, acqua in quantità enorme, inspiegabile, per potermi dire: smetti di scavare, è inutile, anneghi, c'è sotto solo acqua, dappertutto. Per prendere le arie degli amici affettuosi che intendono proteggerti mentre proteggono solo se stessi. Ma io lo so benissimo che ci sono dei posti dove sotto l'acqua non c'è, e che c'è qualcuno che al cristallo ci arriva, ma se lo tiene ben stretto, si fa le case per sé, e gli altri via lontano. Solo che quello non è il vero cristallo, io quelle case le ho viste, ignare quanto presuntuose, e sono scoppiato a ridere: non è il vero cristallo quello! è ancora e solo terra, terra lucida e trasparente che sembra cristallo. Il cristallo vero c'è solo una persona che lo ha trovato, che è stato capace di raggiungerlo perché se lo era meritato, e questa persona io la conosco, è il mio amico del cuore che mi ha promesso di mandarmelo perché io sono il suo amico del cuore, l'unico che ha capito insieme a lui. Noi due sappiamo, sappiamo distinguere. Mi ha giurato che mi manderà i camion tutte le notti finché qualcuno non sarà riuscito a raggiungermi. Ma finora nessuno ce l'ha fatta. Ogni notte, uno ogni ora dal primo buio, partono i meravigliosi convogli, ma loro li fermano, gli fanno sbagliare strada, li sequestrano senza nemmeno sapere cosa stanno sequestrando, qualcosa che non gli interessa e che quindi si limitano a frantumare e a gettare qua e là per la campagna senza sospettare che così piano piano si formeranno delle isole e che queste isole piano piano si ricongiungeranno l'un l'altra coprendo tutta la terra dei morti che finiranno così col non avere più spazio, i morti e coloro che devono morire perché accettano di vivere volendo vivere nel modo della morte, coll'ostacolare inconsapevolmente la propria crescita e coll'eliminarsi da sé. Combattendoci lavorano per noi: è la nostra rivincita. Chissà quanto tempo ci vorrà però...
Io, nel frattempo, cammino, sono costretto a camminare senza poter dormire nè riposare, sigaretta schifosa dopo sigaretta schifosa, per l'inconsistente sollievo di uno schifo diverso, perché i miei camion tardano ad arrivare, col terrore che non facciano in tempo, che le mie suole si consumino, che la terra dei morti mi raggiunga e mi assimili prima che io possa veramente vivere. Ma le mie suole non si consumeranno, contrariamente a quanto credono loro fino quasi a contagiarmi quando sono sfinito inoculandomi lo sconforto impalpabile che muove ogni loro gesto, loro che non fanno altro che erigere incuranti la propria tomba chiamandola coi nomi più diversi, alta ormai fino a impregnare di morte tutta l'atmosfera e oltre; le mie suole non si consumeranno perché non solo il cristallo io l'ho veramente visto, ma il mio amico del cuore me ne ha dato due pezzi, due pezzi piccoli che nessuno avrebbe notato, due frammenti perfetti, eterni, da cui ho tratto queste suole che sono la mia unica difesa.



10/02/17

L’epopea di Gilgameš


C’è questo Gilgameš che, come tutti noi, così dicono, è figlio di un dio, ma che diversamente da noi che ce ne siamo dimenticati e quindi pensiamo di essere solo umani e quindi che prima o poi, beh, insomma... si sa, ci tocca morire, lui invece se lo ricorda benissimo, perché è un grande re, è bello, e forte, e ha tutti questi poteri che gli altri esseri viventi, e gli uomini comuni in particolare, non hanno, ed è per questo che quando scopre che di un dio sarà pure figlio, ma lui un dio in tutto e per tutto non è, e che quindi prima o poi anche lui... insomma: quello... ci siamo capiti... ci resta proprio male e non riesce a farsene una ragione. Per gli altri sarà anche ingiusto, ma non così tanto, che gli altri mica sono come lui... ma lui, dài... non è possibile! e proprio non si rassegna. Non gli possono fare un’ingiustizia del genere! È un’infamia! Ci sarà pure un modo per evitarlo... che poi magari vien buono per tutti. Il risvolto umanitario si trova sempre. Di figli di dio come lui, con queste belle pensate, lui non lo sa, ma il mondo è pieno... però va bene, è da apprezzare lo stesso. Anche perché fanno tutti una brutta fine, per questo, che a un pessimista verrebbe da pensare che è così che va a finire, sempre, la generosità. Insomma, Gilgameš si chiede cosa può fare, ma all’inizio non è che ci pensa tanto: è un re di un grande regno, che lui rende sempre più potente, uno che viaggia, compie imprese, perché ci tiene al suo buon nome, tanto più che la gloria è anche un modo per non morire del tutto, come diceva il poeta, ma è anche un giovanotto piuttosto arrogante e prepotente e libidinoso, come si addice a uno che per nascita, biologia e censo è superiore a tutti, e i suoi sudditi lo ammirano, ma alla lunga si stancano anche (specie i mariti, che non gradiscono il fatto che le fresche mogliettine, tutte vergini ovviamente, vengano prima deflorate da lui, con il rischio alquanto plausibile di non reggere poi, loro, il confronto) e insomma tutti quanti pregano gli dei che mandino qualcuno che gli faccia abbassare le arie.
Così gli dei creano un uomo selvatico, ispido, sporco, fortissimo, ma piuttosto sempliciotto, chiamato Enkidu, che vive nella steppa e nei boschi con le fiere, in totale simbiosi, tanto che alcuni malignano di rapporti anche più intimi..., e grugnisce e muggisce e ruggisce e si intende benissimo con tutte, si nutre di erbe come loro e scorrazza giulivo in lungo e in largo senza pensieri, spaventando però i contadini e i cacciatori, liberando le fiere catturate e imperversando al loro fianco. Un bestione anche simpatico, che appena entra in scena si capisce subito che diventerà amico inseparabile del protagonista e che se qualcuno dovrà morire, come in tutti i film hollywoodiani che si rispettano, quello sarà lui, e molto probabilmente al posto di quell’altro, in sua vece, come la capra al posto di Isacco, come tutti gli animali al posto degli uomini. Intanto però gli dei lo hanno creato per contrastarlo, questo amico predestinato, Gilgameš, ma lui, essendo sempliciotto, viene buggerato. Da una donna, manco a dirlo. Sono le donne che fanno uscire dall’eden e entrare nella cultura, o nella civiltà, se si preferisce, nelle dolcezze dell’infelicità. Questo è quanto dicono gli uomini, perlomeno. Gli mandano una prostituta sacra che gli insegna tutti i segreti della carne per sei giorni e sette notti (è una formula che ritorna spesso), facendogli recuperare in una volta sola tutta l’astinenza pregressa, dopo di che lui è come se si svegliasse al mondo, mentre io, e chiunque come me, sarebbe crollato molto, ma molto prima, anche se poi mi sarei vantato della performance come tutti... La prostituta lo porta in città, lavato, pettinato, profumato e ben vestito, e lì, anche se così conciato sembra un po’ un fighetto di taglia xxxxl, sfida Gilgameš, e cosa strana, lo vince, ma in realtà poi non lo vince davvero, e lo sconfitto, magnanimo, prende a volergli bene e lo coccola e lo impone anche al popolo come il miglior amico che gli dei potessero inviargli. Che vi avevo detto?

Ne fanno insieme di cotte e di crude, finché non gli viene in mente di tentare l’impresa delle imprese, quella di andare in una montagna sacra coperta di grandissimi cedri, che poi sarebbero venuti utilissimi per i palazzi e l’edilizia di lusso della capitale, la grande metropoli di Uruk, già dotata da Gilgameš di possenti mura di mattone cotto, e di ammazzare il custode Hubaba, un mostro protetto da una cooperativa di dei che lo hanno dotato di forze e strumenti di guerra insuperabili. Eppure i due, dopo una lotta memorabile, ce la fanno, con l’aiuto non secondario, bisogna dirlo, dei doni del dio supremo che li ha presi sotto la sua ala. Immobilizzano e poi, nonostante le suppliche, macellano il mostro, o demone, o incarnazione di tutti i mali, che almeno sparissero per sempre con lui!, e se ne vanno carichi di bottino e di fama. Le montagne e le foreste tremano, scosse da brividi, e anche gli dei non sono contentissimi quando i due depongono la testa tagliata davanti a loro (un’usanza che da quelle parti non è mai venuta meno, perché loro, diversamente da noi rinnegati, alle tradizioni ci tengono); specie Enlil, potentissimo dio della terra e parecchio altro ancora, che al defunto era particolarmente affezionato.

I due non si preoccupano e quando tornano sono feste e canti e danze per tutti! La gloria rifulge attorno a loro. Attorno a Gilgameš, in particolare, tanto che vedendolo, Ištar, la dea dell’amore, per non smentire il suo titolo, è presa dalla foia per lui e gli si offre senza mezzi termini. Di corsa uno ci andrebbe! Vogliamo scherzare? La dea dell’amore! Altro che tutte le sciacquette e gli sciacquetti che girano per la corte e in città! Godurie mirabolanti, come minimo... impensabili! Invece Gilgameš le dice di no! No??? ...eh no! Mica è scemo! Lo sa che fine hanno fatto tutti i suoi amanti una volta che se ne è saziata... non solo, glielo rinfaccia anche! Le dà, senza mezzi termini, della troia! strega e vampira e assassina... Un tatto squisito. Una volta a palazzo usava così (le moine arrivano dopo, con i francesi e quei loro baffettini a filo di labbro). Che già rifiutare una donna, anche racchia (mi scuso per la mia, di indelicatezza), uno si attira odio eterno e vendetta garantita, figurarsi una che, oltre che dea dell’amore, lo è anche della guerra! Perché a quei tempi avevano le idee chiare e non avevano ancora diviso l’endiadi come faranno, per esempio, greci e romani, salvo poi cercare di rimediare, parzialmente quanto meno, facendo dei rispettivi titolari due amanti. Va be’, Gilgameš, l’impavido, non cede, lascia il talamo della dea vuoto e desolato. Uno si aspetterebbe che la dea oltraggiata si faccia vendetta da sé, che ci vuole?, e invece no, come una bambina viziata lei va a chiedere aiuto al babbo e ai famigliari. C’ha la bua, poverina! Fa i capricci. Lo voglio morto, lui e quel bifolco calzato e vestito del suo amichetto! Pretende un Toro Celeste che li stermini, compresi un bel po’ di concittadini, già che c’è. Gli dei glielo confezionano seduta stante e lo spediscono a Uruk, dove appunto imperversa spargendo stragi su stragi. Poi però arrivano i due amigos, che all’inizio tremano di paura (sono forti e coraggiosi, ma non cretini: il pericolo lo vedono, e ne sono atterriti) ma poi si riprendono e decidono di affrontare lo stesso il Toro e le proprie paure (il coraggio sarebbe questo, dicono i filosofi, che raramente ce l’hanno però; non che io sia meglio, sia chiaro...). Dopo una lotta furiosa, Gilgameš trattiene per la coda il bestione inferocito e gli conficca lo spadone nel coppino. Poi, invece di tagliargli la testa, che è un onore che si fa solo agli uomini, gli strappano il cuore e lo offrono al loro protettore, il dio del sole e della saggezza. Ištar naturalmente ci resta malissimo, torna a lamentarsi e in più lancia maledizioni belle a sentirsi. Enkidu, che sarà anche forte ma non brilla per intelligenza, strappa una coscia al toro e gliela scaglia contro. Non bisogna esagerare con le umiliazioni! Anzi, a rigore non si dovrebbe nemmeno umiliare. Ma questa è storia recente, quindi lasciamo perdere. La dea corre di nuovo dagli dei e stavolta, appoggiata anche da Enlil, già furioso per  la brutta storia del suo protetto Hubaba, ottiene dal consiglio il decreto che uno dei due deve morire. E a chi toccherà mai, secondo voi? Dovrebbe essere Gilgameš, a essere onesti, ma dopo i soliti negoziati, immagino, si accontentano di far morire Enkidu. Q.E.D.
C’è sempre qualche dio tra i piedi. Un pover’uomo non può starsene un momento in santa pace che qualcuno degli dei superni, o sottani, arriva a tampinarlo, gli manda un sogno, una punizione, a volte anche un aiuto. Non resistono a starsene per conto loro, hanno sempre bisogno di essere temuti, pregati, adulati, invocati, al limite anche maledetti, ma guai a fargli uno sgarbo! Sono una brutta razza, è risaputo... a quei tempi ancora di più, antichi e bambini al contempo, volubili, irritabili, che basta un niente che decidono di sterminare gli uomini, mandare cataclismi, carestie, pestilenze... Diluvi! Troppo facile, così! E se anche per una volta sembra che ci passino sopra, stiamo certi che la punizione arriva, se non al primo colpo, al secondo; e se non direttamente, di lato. Ma allora è ancora più tremenda. Non colpisce te, o Gilgameš, ma individua ciò che ti è più caro, come Enkidu, ed è su questo che si accanisce. Non di te stesso ti priva, che allora amen, uno non ci pensa più, ma ti fa vivere senza ciò che era la tua vita. Nel dolore che non muore. È la loro misericordia.
Altro che fama imperitura! In quei momenti il desiderio di lasciare ai posteri un nome duraturo, compiendo imprese, sfidando mostri, abbattendo nemici potenti e altre iniziative testosteroniche, si rivela per quel che era: puro fumo, niente, fame di vento..., perché chi se ne frega dei posteri, in fondo, il postero voglio essere io, solo questo conta! Io con i miei cari! Non senza... Ma la morte, per il povero Enkidu, non tarda ad arrivare. Il regno buio, la casa di polvere, prima si affaccia nei suoi sogni, poi comincia a corroderlo dal didentro per giorni e giorni, senza pietà né remissione. Che sia maledetta in eterno! Non valgono lacrime né preghiere. Le offerte, abbondantissime, lusingano gli dei, che appena sentono un profumo di sacrifici accorrono come mosche (viene usata proprio questa formula), ma stavolta non si lasciano impietosire. I loro capricci di gentaglia viziata diventano legge. Figurarsi che, quando ancora si degnavano di abitare sulla terra, avevano decretato il diluvio perché infastiditi dal numero degli uomini e dal chiasso che facevano, che allora non c’erano nemmeno le fabbriche, gli aerei e le discoteche... Che poi si sono pentiti, a vedere tutto quello sterminio, ma tant’è: ormai il disastro era fatto E per fortuna che ci aveva pensato Ea (dio, tra l’altro, delle acque dolci e della sapienza) a salvarne uno, cioè il saggio re Utnapištim e tutta la sua famiglia servi compresi... anche se poi c’è stato pure chi, pentito o meno, si è risentito che il segreto era stato spifferato... il solito Enlil, che però alla fine, come se niente fosse, non solo lascia sopravvivere il buon Utnapištin, ma gli concede per soprammercato la vita eterna, alla faccia delle coerenza. 

Gli eroi invece hanno una parola sola: gente seria, forte, capace di grandi gesta e sacrifici, ma anche squassata da sentimenti smisurati, inclusa la paura, immensa, indomabile, sfrenata! ...gente che non si vergogna di piangere, e anzi vi si abbandona anche in pubblico con tutto il repertorio di vesti e capelli strappati e altre pagliacciate di contorno... mica sono stati sedati dalla società delle buone maniere, repressi e incitrulliti! ...si concedono tutto alla grande, persino le debolezze, e proprio questo ce li fa amare ancora di più: non perché tramite queste debolezze li assimiliamo a noi, ma perché proprio esse ci mostrano la loro incommensurabilità. E noi ci stupiamo e li ammiriamo. Cioè li amiamo. Li amiamo senza chiedere niente, per pura gratitudine. Attraverso la quale, solo, ci accostiamo a loro e siamo davvero prossimi... Tale è la grandezza, la scintilla divina, che in sé ogni gratitudine contiene.
I sogni portano agli amici meraviglia e terrore, e la consapevolezza definitiva che “la fine della vita è dolore”. Se è per questo basta essere un po’ svegli per accorgersene. Ma pazienza, a quei tempi l’ultima parola spettava sempre ai sogni. La realtà viene dopo. A mettere il sigillo. Ma quello definitivo, allora: come il verme che esce dalla narice di Enkidu, che solo quando appare si decidono a seppellirlo.
I sogni sono l’annuncio o la ratifica: vengono dagli dei, come è noto, quei creatori instancabili, di fuffa piuttosto che di niente, e allora la loro sentenza è definitiva, non rivedibile. E questa storia, di sogni è piena; forse essa stessa è sognata.
Solo quando l’amico del cuore muore, Gilgameš è sopraffatto dalla vera e profonda consapevolezza di essere lui pure mortale. Prima era un pensiero vago, qualcosa di lontano, forse nemmeno così grave come si dice... qualcosa che si può aggiustare... Ora invece, “contaminato dall’inquietudine”, si dispera, sprofonda nell’angoscia più nera, ma poi, da quello spirito indomito che è, decide di mettersi in cammino a cercare l’unico uomo che abbia ottenuto l’immortalità (in realtà anche la moglie... ma quella non conta, è inclusa nel pacchetto regalo degli dei), il citato Utnapištin, la cui storia viene poi raccontata diffusamente per quanto a ben vedere c’entri poco. Per raggiungerlo Gilgameš attraversa le viscere della terra in dodici ore doppie (è scritto proprio così: ed è come se queste ore fossero infinite) di tenebre, “con la carne degli dei nel suo corpo ma la disperazione nel cuore”, fino al giardino degli dei, dove gli viene consigliato di lasciar perdere e di godersela, intanto che può, che è in forze e ne ha tutti i mezzi. È un re mica per niente! Suggerimento sagace!, ma per chi ha la morte dentro, tutte quelle parole, al pari della saggezza racimolata durante le imprese e i viaggi, sono vuote. Aria pura. Cosa vuoi che gliene freghi di feste e banchetti o di qualche scopata?
Lascia stare, insiste però l’ostessa del giardino degli dei... torna a casa, è impossibile, non ce la puoi fare! Succeda quel che deve succedere, Gilgameš invece non desiste. Morire per morire, meglio rischiare di diventare immortale! Trova il traghettatore, lo tratta anche male già che c’è, distrugge le steli protettive come uno stupido arrogante, ma riesce a convincerlo a portarlo da Utnapištin, di là dal mare di morte. Però poi, quando arriva a destinazione, non riesce a superare la prova che gli farebbe ottenere l’immortalità, e invece di restare sveglio per i fatidici 6 giorni e 7 notti, come era stato capace di fare Enkidu con la prostituta sacra, si addormenta subito come un sasso. Neanche mezz’oretta resiste il poveretto, stracciato dalla fatica... crolla e tanti saluti! Non se ne accorge nemmeno. E non servono le scuse, al risveglio, una seconda possibilità non c’è. Inutile piangere e farsi compatire. Un po’ di dignità, che diamine! È finita! Capitolo chiuso!
Anche se... Anche se cosa? Ci sarebbe, suggerisce Utnapištin, o piuttosto sua moglie, impietosita, questa pianta in fondo al mare, che assicura l’eterna giovinezza... Una pianta irraggiungibile, spinosissima, ma il cui effetto è garantito. Nessun problema, fa Gilgameš, sarà irraggiungibile per gli altri, non per lui! ...e sulla via del ritorno, giunto al posto indicato in mezzo al mare, si lega delle pietre ai piedi, come i campioni di apnea che tentano i record, e si lascia andare giù, verso il fondo! ...sì, per non morire si attraversano i mari, si va agli inferi, si raggiungono i giardini degli dei, e si va in fondo, in fondo, giù, dove ci sono mostri e piante strane... una vita orrida sconosciuta, mai raggiunta dalla luce del sole... fiori di tenebra... il fondo del fondo!, da dove chissà se si potrà mai tornare... giù, dove si andrà comunque se si fallisce, se si muore... e intanto, in questo, la vita va... e se non tutta la vita, la vitalità, la gioia di vivere, la forza di affrontare le cose, di rivoltare il mondo... Però Gilgameš è Gilgameš, un eroe mica per caso, un testone che non molla mai, e arrivato sul fondo la pianta la trova e poi, liberatosi dalla zavorra, la porta su, per sé e per tutti. Non moriremo mai! Saremo sempre, tutti, giovani e belli! E non da qualche parte nei cieli, o in altre dimensioni, improbabili, temute e insieme ambite, ma qui, sulla terra, a casa nostra, tra i nostri amici. Sia gloria eterna a Gilgameš


Solo che poi, appena risalito sulla barca, lo stanco eroe si distrae e un serpente sbucato dagli abissi (un altro serpente? allora è un vizio!) gliela ruba e, spine o non spine, se la pappa tutta quanta. E subito cambia pelle. Quindi funzionava davvero! Intanto però il ladro si è di nuovo inabissato e chi lo ritrova più! Va a godersi l’eterna giovinezza, a sprecare questo dono inestimabile, come forse è destino che vadano sprecati tutti i doni del genere, da solo, in quei postacci bui e disabitati, che io in un buco del genere quello che vorrei sarebbe solo crepare in fretta... altro che giovinezza! E intanto la barca va, inarrestabile, solca le acque dolci e quelle salate, ripete la traversata a ritroso, e a nessuno sarà  più concesso di tentarla. Mai più. Mai più...
A Gilgameš allora non resta che tornarsene a casa, dove sarà accolto con giubilo e feste, dove potrà compiere magari altre imprese, governare con maggiore saggezza, quella che le esperienze, e anche la disillusione, lasciano in eredità, e fare incidere la sua storia su una stele, essere cantato ancora in vita, celebrato e ammirato e invidiato, e infine, come tutti, morire.
Perché alla fine, al contrario di tutti i film hollywoodiani che si rispettano, anche il protagonista morirà, per sempre, senza remissione, gloria o non gloria, regno o non regno, madre divina o non madre divina.
Poi sì, è vero, qualcuno racconta anche altre cose di lui, ma io solo questo ho sentito, e solo questo ho letto e racconto. E sebbene pure qui dentro ci sono altre storie, per stavolta non le riferirò. Solo questo dirò: in tutte la morte regna sovrana, ma sempre l’incanto le viene appresso.
Perché così è: la storia più antica nasce dalla più antica domanda, quella che l’uomo ha cominciato a farsi non appena è diventato uomo, cioè ha cominciato a pensare, cioè a pensare a se stesso: perché devo morire? E noi oggi questa storia non ci stanchiamo di leggerla perché anche noi continuiamo ancora a farcela, questa domanda, sempre senza risposta, sempre con lo stesso terrore e lo stesso meravigliato infinito sgomento.



L’epopea di Gilgameš, a cura di N. K. Sandars, trad. di Alessandro Passi, Adelphi, 1986
(Ma vedi anche, per chi preferisce le edizioni filologicamente più accurate e commentate, che ricostruisce tutte le vicende della saga e della sua tradizione con tante varianti e versioni alternative spesso bellissime di interi episodi, La Saga di Gilgameš, a cura di Giovanni Pettinato, postfazione di Silvia Maria Chiodi, ultima edizione Oscar grandi classici, Mondadori, 2004, ora purtroppo introvabile anche sulle piattaforme online.)










05/02/17

Soldati morti quarant'anni fa (2 parte)





qui potete leggere l'inizio
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2017/01/soldati-morti-quaranta-anni-fa-inizio.html


Affrontammo questi primi impegni con il cuore meno pesante, perché alla levata una remissione temporanea aveva fatto sperare che la bufera fosse finita, o almeno che si fosse attenuata tanto da consentire una marcia non troppo disagevole, ma già durante i preparativi il vento riprese a imperversare, trascinando ondate di neve non si sa se dal cielo o da terra o da entrambi. I montanari della truppa bestemmiavano ribadendo in tutte le salse terrestri e celesti che era una follia avviarsi con quel tempo su un versante così sguarnito e esposto, e un giovane tenente di carriera se ne era fatto portavoce con il maggiore, o capitano o tenente colonnello che fosse, guadagnandosi come compenso un cazziatone memorabile davanti a tutta la truppa, da lui accettato a testa alta, sull’attenti, senza aggiungere nemmeno una parola a propria o nostra discolpa, ma, immagino, con la coscienza a posto, ora. Come se la coscienza a posto bastasse.
Bisognava anzi sbrigarsi, accelerare le operazioni e partire anche prima del previsto, per evitare che la neve finisse per riempire il canale della pista che avevamo scavato, guastando tutto il lavoro di una settimana e obbligandoci a nuovi interventi per consolidare le pareti onde evitare smottamenti e per liberare i passaggi più intasati. Nonostante il rallentamento che il tempaccio avrebbe causato, dovevamo arrivare in cima al massimo a mezzogiorno, per poi scendere per un paio d’ore fino a una malga dove avremmo consumato in tutta fretta un rancio sommario e subito dopo proseguire per raggiungere la caserma sull’altro versante della montagna prima del tramonto. Era tassativo! Il programma andava rispettato, nei tempi e nei modi preventivati fin nei minimi dettagli, e se le condizioni erano più dure di ogni previsione, tanto meglio: più gloriosa sarebbe stata l’impresa, infinita la soddisfazione e incancellabile la memoria.
I fiocchi sfarfallavano innumerevoli alla luce delle lampade, fluttuavano in ogni direzione come se la gravità fosse stata abolita, solo per loro, con effetto immediato ed esenzione perpetua: scendevano e tornavano a alzarsi, si scontravano e univano e dividevano, poi deviavano e si perdevano lungo tutte le diagonali del buio. Nel cavo della pista si stava depositando uno strato di neve fresca che superava l’altezza degli scarponi e si insinuava tra il cuoio e la lana dei calzettoni, nonostante la pressione successiva dei muli e degli aprifila avesse stampato delle sagome profonde a cui adattare i nostri passi. Procedevamo al buio, alzando i piedi a fatica, la testa china contro la tormenta, stremati prima ancora di metterci in cammino, svuotati dall’umore nero e da un furore che si ripiegava in se stesso, senza sfogo, il sangue che si rifiutava di affluire alle estremità, la voce di uscire.
Era tutto scuro, ma anche quando giunse l’alba dal cielo coperto riusciva a filtrare solo un piccolo barlume di luce scura, che però pian piano si andava illuminando come dall’interno, o dal suolo, da sotto la neve, così che tutta la valle aveva preso quasi a luccicare, pervasa da un biancore tenue ma assoluto, che copriva e avvolgeva tutto, le cose, gli alberi, le poche rocce che sporgevano dalla coltre, la pista, mentre le nostre figure apparivano minuscole macchie sfuocate, puntini grigioverdi in rapida dissolvenza, in dissolvimento in tutto quel candore, come se anche la nostra materia si stesse sciogliendo per fondersi con tutto il resto, assimilata, resa nulla e pacificata.



Eravamo una lunga fila di sonnambuli, o piuttosto di ectoplasmi di sonnambuli, ologrammi a bassa definizione sempre in via di svanire, che scorrevano silenziosi su un binario nascosto nella neve: la rassegnazione incarnata, l’apoteosi dell’esercito, il sogno realizzato dell’autorità. Ufficiali inclusi però. A parte il maggiore, o capitano o tenente colonnello che fosse, che aveva un ruolo da sostenere, una sua dignità da sventolare nel vuoto. Anche se al momento si limitava a guardarci dallo spiazzo davanti alle malghe; non vedendo che il niente, peraltro – per dirla con un’immagine che ha l’unico merito di definirlo alla perfezione. Io, secondo gli ordini, stavo in fondo alla fila, seguito dal dottore, da un sergente maggiore che aveva firmato il prolungamento della ferma perché si era innamorato di una bellissima autoctona, che poi lo aveva addirittura sposato seminando grossi dubbi sul suo discernimento e facoltà limitrofe (l’entusiasmo con cui la famiglia aveva dato il suo assenso li aveva poi fugati tutti con una clamorosa controprova genetica), e dal sunnominato tenente, militare di terza o quarta generazione, figlio di un generale a tre stelle, imprevedibilmente intelligente e colto, che ogni tanto indulgeva a parlare di libri e cinema con il sottoscritto. Imprevedibilmente secondo la mia supponenza e i miei schematismi di allora.
Un giorno mi aveva rivelato, non so a qual fine, di aver letto Marx e di condividere alcune delle sue idee: alcune, non tutte; ma forse era solo una tecnica per farsi benvolere, un modo per strappare informazioni ben più compromettenti. Nella truppa pascolavano sovversivi o presunti tali; alcuni, in libera uscita, si incontravano pure con giovinastri locali dalle idee poco sudtirolesi. Si era nel febbraio del 1972. Tralicci saltavano su quelle montagne e altri stavano per essere vanamente minati altrove. A me il tenente sembrava sincero. Per nulla ingenuo, e sincero. Ma forse l’ingenuo ero io.
Io, come detto, stavo in fondo alla fila, unico soldato senza arma, con la fondina del revolver gonfia solo di una sagoma di legno, il bauletto dei medicinali sulle spalle, leggero leggero, e lo zaino legato al basto dell’ultimo mulo, assieme a quello del dottore, che mi seguiva privo di altri impedimenti al di fuori del suo corpo impacciato, piccolo e rotondo, non allenato, che aveva visto la neve solo da lontano, sulla cima dell’Etna, senza aver mai avuto il desiderio di toccarla con mano, mentre ora quasi vi sprofondava, con poco più del collo che sporgeva dalle pareti della pista, i piedi che si trascinavano a fatica, il corpo compresso sotto abiti pesanti che non era abituato a indossare, il freddo che mordeva la pelle che già a aprile si bagnava nel mare. Io ogni tanto gli rivolgevo la parola, per fargli sentire la mia presenza nel buio davanti a lui, al di là della parete di neve che vibrava davanti ai suoi occhi, per tenerlo sveglio, dispensargli un po’ di forza, come se io ne avessi in esubero, da gettare al vento delle buone intenzioni, come un bengala sparato nella notte, da consumare nella gloria dell’autocombustione.
Si camminava piano, i muli spesso si bloccavano e ci volevano i santi a smuoverli, i soldati inciampavano o finivano addosso a chi li precedeva non appena rallentava o prendeva una pausa. Di avvisare, chiamare, mandare un segnale qualsiasi mancava, più ancora delle forze, la voglia. Nessuno aveva intenzione di sprecare il fiato, di liberare la bocca dal passamontagna ed esporla al gelo. Nessuna parola gelata pioveva dal cielo. Nessuno prestava attenzione ad altro che a se stesso. Così spesso finiva per farsi del male, per perdere l’equilibrio, inciampare sull’altro e cascare a muso in giù nella neve.


 
La testa della fila era già nei pressi delle malghe superiori quando arrivò la notizia. Come una scossa elettrica di incredulità e di paura che fece schizzare il sangue, di colpo, verso la periferia a irrorare i muscoli gettandoli in un’agitazione frenetica senza altro scopo che il proprio scatenamento momentaneo, galvanico, e compresse tutta l’aria dai polmoni nella gola, ricacciata indietro dal panico a bloccare ogni gesto, per ristabilire una stasi immemoriale, il presunto equilibrio della materia inerte, la salvezza minerale. Una slavina ha travolto gli alpini! Venti, trenta...! C’è bisogno di tutto, pale, coperte, medicinali... Chiamate il dottore, l’infermiere, fateli passare, veloci! ...e avvisate il comando più vicino con la radio, chiedete aiuto anche a loro!
Non era così semplice fare in fretta, per noi... sorpassare soldati e muli! Il passaggio era stretto, la ressa grande, la confusione ovunque. Tutti volevano accorrere in aiuto, ma le pale erano contate, i muli non potevano essere abbandonati, e il pericolo che altre masse di neve seguissero la prima sempre incombente. Più di tutto serviva ordine, organizzazione: quello a cui avremmo dovuto essere più addestrati; quello che invece, in quei momenti, più veniva a mancare. Io e il dottore avremmo dovuto avere la precedenza, la strada libera, aperta al nostro passaggio, e invece incontravamo ostacoli a ogni passo, gente che si muoveva ubriaca, cadeva, procedeva a strappi, altri che dondolavano come in una preghiera meramente corporea, in una specie di inno disperato dell’anatomia, e i muli che si mettevano di traverso, contagiati dall’agitazione anche loro, zaini che cadevano tra i piedi, pezzi di obice che scivolavano a terra, da soli o con tutto il basto a cui erano fissati. Io ero un buon camminatore di mio e in più ora,  per essere stato gentilmente assegnato a tutte le sacrosante marce e esercitazioni, ero allenato, mentre il buon dottore, già scarsamente predisposto al movimento in condizioni normali, era alla sua prima vera uscita e in quella situazione si muoveva a momenti come dentro uno scafandro di acciaio, e in altri a scatti, come un robottino, cadendo a ogni passo, rigido, col solo sguardo vivo, ma di terrore. Allora lo prendevo per mano, lo rialzavo, e lo lasciavo solo quando sembrava che riuscisse ad avanzare con le sue forze, correvo avanti ma durava poco, non ce la faceva a starmi dietro, subito qualcuno mi chiamava, lui o un altro che nel frattempo si era interposto, e quindi dovevo tornare a raccattarlo, lo prendevo sotto le ascelle, per un braccio, e lo trascinavo, per abbandonarlo di nuovo quando le richieste di aiuto riecheggiavano più forti, più pressanti. Correvo, arrancavo, sostavo, mi precipitavo, ma una volta sul posto cosa avrei potuto fare io da solo? Che ne sapevo? A distinguermi da qualsiasi commilitone era poco più che la denominazione dell’incarico: aiutante di sanità. Aiutante! Poco più di un servo! Uno che dà una mano a chi sa e può, ma che da solo non è in grado di fare alcunché. Nient’altro che essere lì. Aiutare in qualsiasi cosa venga richiesto. Cercare, quantomeno. Tentare. Niente di più. Capace solo, al massimo, di eseguire ordini. Purché chiari, dettagliati.
Trovai la baita grande invasa dagli alpini scampati, sconvolti, frastornati, prostrati. In un angolo, vicino a un camino, sdraiati sui sacchi a pelo, sotto pile di coperte, c’erano quelli che erano già stati estratti dalla slavina, scioccati ma solo ammaccati, o feriti in modo leggero. Ragazzi che stavano verso i bordi e che quindi erano stati coperti da poca neve, e che in genere ce l’avevano fatta a venirne fuori quasi subito, da soli o con l’aiuto dei compagni più vicini. I due cadaveri recuperati sino a quel momento erano stati invece deposti in una malga più piccola lì accanto, la porta sorvegliata da una guardia armata, con l’ordine tassativo di far entrare solo gli ufficiali e il medico, quando fosse arrivato, per certificare il decesso. Non c’era niente che potessi fare. Nessuno aveva bisogno di me. Allora mi diressi verso il luogo del disastro. La slavina era caduta a pochi passi dalla spianata dietro le baite. Parte di essa aveva travolto il tratto che per 5 giorni avevo scavato io: dove stavo ancora il mattino prima, fingendo di rifinire i lavori, che non ne avevano più bisogno peraltro, e in realtà, appena potevo, seduto sul pastrano, nascosto dalle pareti di neve, a leggere il Fedone. Le belle fantasie sulla morte e l’anima e il resto. Quei teneri ricami.

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Chi desiderasse leggere tutto il racconto, può richiedermi il pdf via Facebook o a questo indirizzo:

luigi-grazioli@virgilio.it
 


03/02/17

Cosa succede quando non succede niente (un esercizio di umiltà)






Andavo dicendo che mi interessava cosa succede quando non succede niente, e che di questo, secondo le mie capacità, intendevo scrivere e già scrivevo perché proprio di questo consiste la vita di tutti per la maggior parte del tempo, e soprattutto la mia, vari anni prima di sapere che Georges Perec esistesse, e forse addirittura prima che usasse l'identica formula. Per cui, quando poi l'ho trovata nei suoi testi, invece di rattristarmi per essere stato preceduto, mi sono rallegrato di essere stato citato in anticipo.
 
(Era nell'aria già da decenni del resto, almeno da Joyce: si viene sempre dopo qualcuno; ma ciò non toglie che, anche quando l'ho incrociata successivamente, è stato come un omaggio anche a me stesso che l'ho recepita. In qualche universo Perec e io, e forse anche Borges e Joyce, siamo la stessa persona. In qualche universo quell'espressione vive, e tutti i nostri nomi sono una pallida emanazione.)

(Gli universi si scialano.)