28/06/20

Il fantasma di Willy DeVille



1.
E c’era questo signore anziano che assomigliava a Willy DeVille, alto, molto magro, senza mascherina, con giacca, nonostante il gran caldo, e cappello che gli nascondeva il ciuffo che forse non c’era, senza baffi e mosca al mento, e forse anche con gli zigomi meno rilevati, e insomma che gli assomigliava poco, ma forse solo perché era un Willy invecchiato, che se ne stava seduto, di profilo, su una panchina di metallo in una delle piazzole sulla riva della Martesana, con uno zainetto nero appoggiato a terra accanto alle sue gambe allungate, la testa piegata leggermente in avanti, con un’aria molto stanca, quasi sfinita. (Credo: ero sul marciapiede opposto.) Appena l’ho visto ho pensato ai tanti che si gettano a fiume in questo periodo. Mi ha preso un po’ d’ansia, nonostante tutta la gente che andava e veniva accanto a lui lungo la pedonale e la ciclabile, e invece di proseguire verso la meta che mi ero dato, una meta insignificante tanto per darmene una, 5 minuti dopo ho fatto dietro front, per andare a vedere che ci fosse ancora. Poi non so cosa avrei fatto. Probabilmente niente. Intanto meglio tornare. Ma lui non c’era già più. I passeggiatori, runner e ciclisti si erano ulteriormente infittiti. L’acqua scorreva. Sembrava pulita.
Forse era proprio Willy. Il suo fantasma venuto a trovarmi, a cantare per me “Hey Joe” (lui mi chiama così, non ho mai capito perché), che se ne è andato deluso perché non mi sono fermato. Certi fantasmi sono permalosi.
Poi, invece, 500 metri più in là, l’ho rivisto. Era seduto su un’altra panchina, di pietra, che guardava verso la strada, il capo chino, più ancora di prima, le mani sulle cosce, le braccia tese, le gambe piegate, tra la folla dei passanti che lo sfiorava senza uno sguardo, nemmeno da parte sua peraltro, dando le spalle alla grande ruota di legno vicino al vecchio ponte, alto sulla corrente oggi veloce e piena di mulinelli, dalle sponde basse e con l’unica protezione, da quel lato, di una sbarra di ferro parallela al piano della sponda, un appoggio più che un ostacolo, un invito.



Poco più in là ho incontrato l’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto, in canottiera scura, con mascherina, i capelli un po’ più lunghi del solito, ingrigiti in così poco tempo, ondulati!, quasi ricci, il passo stavolta incerto, dinoccolato al limite della zoppia. Naturalmente non mi ha nemmeno notato. Il mio sguardo è andato perso, se non per me. Il suo era diretto lontano. La sua meta è sempre molto in là. Sempre oltre. 

2.

Torno a vedere spesso Willy De Ville, in questi giorni. Cammina, siede, in mezzo a un mondo che ai suoi occhi non c'è. Non: che è sparito, ma: che non c'è mai stato. E' lì attorno, e non c'è mai stato. Si alza. Cammina. Fuma. Un risvolto dei pantaloni è rimasto arrotolato, accartocciato, quasi.


3.

Oggi stavo per arrivare alla fine del viale sul marciapiede opposto al canale con le bozze di un articolo in mano, quando l’ho visto sull’ultima panchina, sotto quelle vecchie piante che sembrano robinie ma sono ancora ancora tutte fiorite, ad agosto!, di grossi grappoli giallastri da cui cadono nuvole i fiori formando uno strato compatto sull’erba e sul marciapiede ai loro piedi. Ha tolto dalla tasca della giacca due fogli piegati in quattro (come i miei), li ha aperti e ha cominciato a leggerli. Quando gli sono passato davanti ha alzato gli occhi e mi ha guardato (forse). Erano piccoli, azzurri, liquidi e opachi, resi quasi incolori dal velo leggero della cataratta. Non era Willy.  Nemmeno il suo fantasma. Gli ho fatto comunque un cenno di saluto. Ma lui non so se mi ha risposto. La testa si è mossa, gli occhi no. Forse però ha capito. Era un addio. Anche questo.



25/06/20

Divieto di invecchiare



Sua moglie - mi dice rallentando quel suo passo strascicato che minaccia sempre di farlo inciampare, cosa che del resto avviene periodicamente, anche se con conseguenze di poco conto, per ora - non accetta che lui invecchi. Spia ogni sintomo di devastazione, o solo di lieve deterioramento, e ne trae conseguenze apocalittiche. Riguardo a lui, e di conseguenza a lei. E' un'animista manichea. Ogni cosa è viva, minacciosa o benevola; l'indifferenza non è prevista, al massimo è una pausa, le sfumature e le gradazioni sono solo per le mammolette, gli illusi; tutto ha un'intenzione, un messaggio, un sentimento; il mondo attorno impazza di energie di intensità variabile e lei ne è investita. Così come lui. Appena scorge qualcosa che non va (lei, intende), la tiene sotto tiro e si ingegna a porvi rimedio. In questo periodo i sorvegliati speciali sono i capelli, che sono sempre stati belli, grossi, forti e folti, che crescono rigogliosi, ondulati, splendenti, ma ora mostrano cedimenti, in alcuni punti si diradano e il principio di chierica che lo minaccia da qualche anno si è esteso in modo preoccupante. "Non voglio che tu perda i capelli!", gli dice (dice lui), e ogni momento e lì con rasoio e forbici a spuntare crescite disordinate, a correggere difetti e a massaggiare la cute con unguenti e prodotti miracolosi, a carezzare e mettere tutto in ordine. Cosa che a lui, confessa, piace moltissimo, peraltro. Anche se qualche prodotto brucia un po'. Ma funziona, afferma lei. Vede ogni giorno qualche pelo in più, la chierica fermarsi e rinfoltirsi. Allora i suoi sforzi non sono vani! La cheratina mostra il suo lato positivo. E' buona, generosa. Se invece le sembra che non funzioni, che quello che ha visto è stato solo un abbaglio, un inganno maligno di cui è stata fatto oggetto, allora si arrabbia. "Non è possibile!", dice. "Non devi invecchiare! Non puoi! Te lo proibisco!". E se ne va mortalmente offesa. E' un oltraggio! Non se lo merita. Proprio no...

22/06/20

Il Nobel a Peter Handke (con bonus track)



Il Nobel a Peter Handke è una sorpresa. Sembra un Nobel di recupero, specie perché assegnato in coppia insieme a Olga Tokarczuk. Un Nobel di doppia riparazione: a una donna, senza voler minimamente sminuire il suo valore, dopo lo scandalo per molestie relativo al marito di una giurata che aveva causato la mancata assegnazione dello scorso anno; e a un autore che avrebbe dovuto vincerlo molto prima, non fosse stato per un altro scandalo, quello delle sue prese di posizione in difesa della Serbia in occasione delle guerre della ex-Yugoslavia. Il ritorno sulla scena di Handke, che in verità non era mai sparito perché ha continuato a pubblicare libri splendidi anche negli ultimi 20 anni; o meglio: il ritorno dell’accettazione pubblica, era stato annunciato dall’assegnazione degli importanti premi “Thomas Mann” e “Kafka” nel 2008 e ribadito dal premio “Ibsen” nel 2014, dopo che nel 1999 egli aveva restituito il premio “Georg Büchner” a causa dei bombardamenti della NATO contro i serbi.
Per uno che aveva iniziato con il libretto teatrale Insulti al pubblico (1966) e opere narrative e poetiche provocatorie e al limite dell’illeggibilità (su questo primo periodo vedi il mio articolo qui) arrivare all’ufficialità planetaria del Nobel, che pure ha trascurato nomi fondamentali a volte per ragioni discutibili e preso abbagli che non depongono a favore della sua infallibilità, potrebbe sembrare un’ironia del destino. Ma per i lettori che lo seguono da 50’anni è solo un atto dovuto. Conosciuto agli addetti ai lavori già negli anni ’60, giovanissimo (è nato nel ’42), per le sue opere teatrali, attività che è proseguita ininterrotta per decenni (si vedano da ultimo Ancora tempesta (2010) e
 I bei giorni di Aranjuez (2012) tradotti da Quodlibet, nel 2015 e 2017), i romanzi di taglio sperimentale e per le sue collaborazioni con Wim Wenders, Handke diventa noto anche al grande pubblico internazionale con il libro in cui parla della depressione e del suicidio della madre, Infelicità senza desideri (1972), un testo dalla scrittura in superficie controllatissima, quasi fredda, impersonale e distante come appare la vita a chi ha dentro di sé ogni passione spenta, per controbilanciare l’incandescenza dei sentimenti filiali, e la rabbia per un mondo che ha ridotto a un passo così tragico la persona che più ami: un piccolo libro dal peso specifico altissimo, che ormai è un classico della seconda metà del ‘900. Negli anni successivi la sua produzione, sempre intensissima, si fa più intima, in apparenza, non tanto per la presenza di diari, come Il peso del mondo (1977), quanto perché nata dalla necessità di allargare il campo della percezione e dell’esperienza della vita, alla ricerca del “vero sentire”, passando sia dalla scoperta di un mondo marginale, di piccole cose, come la foglia, il frammento di specchio e il  fermaglio da capelli che rivelano al protagonista del romanzo intitolato appunto L’ora del vero sentire che non c’è alcun “mistero dell’Universo” da scoprire e di cui avere paura e gli permettono di cominciare a superare l’angoscia che attanagliava la sua esistenza, sia dal ripensamento sul proprio mondo privato, come con Lento ritorno a casa (1979) o Storia con bambina (1981), e della propria attività di scrittore. Lentamente anche la sua prosa si modifica e si sbarazza sempre più dei generi per approdare una serie di brevi testi che vengono talvolta intitolati saggio e altre romanzo, e sono insieme una riflessione che è una storia, che è una scoperta di sé e del proprio passato, che è un’indagine della scrittura e dell’arte, che è un attraversamento del mondo ignoto in cui viviamo giorno per giorno.


Questo rende necessario l’abbandono dei generi tradizioni verso i quali l’artista carinziano nutriva da sempre fondati sospetti, per cercare forme sempre diverse, a seconda degli oggetti di indagine o degli spunti e delle emozioni di partenza e che rispondessero alla necessità di raccontare senza trama, senza personaggi o accadimenti, e conseguente svolgimento (e relativi passaggi, nessi, parallelismi o contrapposizioni, intreccio di tempi e luoghi, ecc.), se non ridotti al minimo o funzionali (o piuttosto inseriti, successivi, con-seguenti, accanto e non soverchianti il resto).
Non si tratta tanto di rinnovare la letteratura o le forme espressive, quanto di ritrovare un rapporto con se stessi e con il mondo che non sia imprigionato negli stereotipo e nella vuotaggine da una parte né dal disorientamento dalla separazione e dall’angoscia dall’altro. Pian piano l’individuo, secondo Handke, dovrà cercarli da qualche parte, in sé prima di tutto, se vuole salvarsi, salvare la vivibilità, la vita, un rapporto con il mondo in qualche modo saldo, non costantemente spezzato: non come momenti salienti però, come epifanie o baleni di qualche rivelazione (che comunque possono essere un fattore scatenante del cambiamento,), ma come persistenza e continuità, nella convinzione che, in qualche modo, come scrisse Quevedo, “solamente lo fugitivo permanece y dura”.   
Si tratta cioè di trovare nuovi modi per sfuggire all’incapacità di fare esperienza, cioè di incontrare il mondo e gli altri, caratteristica dell’uomo moderno. E questo passa necessariamente per un continuo rinnovamento delle forme e dei modi di espressione. Per quanto non più nei modi radicali degli esordi, questo resterà sempre un tratto caratterizzante di tutte le opere di Handke, che conserveranno sempre un che di sperimentale anche dopo che avranno ritrovato una leggibilità certo non facilissima ma nemmeno ostica.

Da questo punto di vista l’adozione del saggio come forma prevalente diventa comprensibilissima. Un saggio ricreato in modo originale, che adotti anche quel passo narrativo che nel romanzo non sarebbe per Handke accettabile e quel tanto di soggettività senza la quale nessuna esperienza (nessun esperimento, nessun saggiare) sarebbe possibile. A saggiare infatti non è una mente astratta, la prova non è effettuata da una razionalità disincarnata, ma deve per forza passare attraverso l’esperienza di chi la affronta, e senza di lui non ha valore: ciò che comporta la necessità del soggetto e insieme quella del suo superamento, perché è soltanto uscendo da se stesso, andando verso l’oggetto, lasciandosi catturare da esso mentre lo si cattura, e verso gli altri, che l’oggetto può essere recepito e trasmesso: in uno spazio comune. Nascono da questi presupposti fulminanti libretti come Il pomeriggio di uno scrittore, Saggio sulla stanchezza, Saggio sul Juke-box, Saggio sulla giornata riuscita, Saggio sul luogo tranquillo, tutti editi da Garzanti tranne il primo e l’ultimo, da Guanda.


Nei saggi invece c’è un narrare più disteso, si potrebbe anzi dire, paradossalmente, che mentre alcuni scrivono saggi in margine, in alternativa o a proposito di romanzi e racconti, Handke li scrive per raccontare.
Poi, viceversa Handke quando torna al romanzo, con grandi riuscite come Il mio anno nella baia di nessuno (1994, trad. it Garzanti 1996) o La montagna di sale: una storia di inizio inverno (2007, trad. it. Garzanti 2007) o a notte della Morava (2008, trad. it. Garzanti 2012), non sarà mai in modo piano ma spesso spostandolo verso toni lirici, o di epica quotidiana, e insieme di indagine sulle proprie patrie e radici e lingue. Le prese di posizione sulle vicende della ex-Yugoslavia (Appendice estiva a un viaggio d’inverno e Un disinvolto mondo di criminali, Einaudi, entrambi fuori catalogo) si inseriscono in questo contesto e anche in questo senso vanno prese in considerazione, pur senza sconti per certe affermazioni in difesa di Milosevic, che non si sa se nate da convinzioni o da volontà provocatoria in opposizione al discorso ufficiale troppo monocorde e compatto per non essere ai suoi occhi sospetto).
Ma a parte questo, che non è poco ma certo non inficia un’opera che dall’opposizione alla subordinazione della letteratura alla ideologia e all’impegno era nata, Peter Handke resta uno scrittore che ha profondamente segnato la cultura teatrale, narrativa e poetica (ricordiamo su tutto il magnifico Il canto della durata, da poco riproposto da Einaudi)  del nostro tempo.

Un’opera esemplare degli ultimi 50’anni, dall’ultimo sussulto delle avanguardie, con la loro radicalità che portava gli scrittori a scontrarsi con il mondo dei lettori e i loro preconcetti e con quello reale, uscito da due guerre che hanno lasciato segni indelebili e che quasi nessuno osava indagare fin nelle pieghe del proprio vissuto e di quello della propria famiglia, specialmente in Germania e in Austria, e pieno di contraddizioni che sembravano poter essere risolte o attraverso la negazione o la rivolta (due sorelle) e l’impegno anche delle arti e della letteratura, a partire da quello sul proprio linguaggio e le proprie forme, al bisogno di recuperare, ripartendo da capo, dalla propria esperienza diretta, dal proprio mondo quotidiano, e dalle sensazioni e dal corpo, senza enfasi, ma ricostruendo a poco a poco il tessuto della vivibilità e visibilità e conoscenza del mondo, la possibilità di un reincantamento non ingenuo, che tenga conto dei vincoli e del linguaggio e delle remore della tradizione senza passare per l’ironia o la parodia e la giocosità del postmodernismo.


Un autore che si ama non è un modello, ma un modo. Il suo procedere non è la proposta di una direzione sociale o esistenziale, ma, per chi legge, una realizzazione e al contempo uno strumento: un arricchimento, non una regola. Al massimo un invito, delle occasioni eventualmente da sperimentare. Un esercizio, materiale e spirituale.

Quello che trasmettono allora i suoi libri, non sono solo idee o emozioni, che certo non mancano, quanto un modo per imparare a vivere, per vivere imparando a vivere, perché si vive solo se si cerca ogni momento di imparare a vivere, a muoversi tra le cose, nel mondo, e a vederle, maneggiarle e insieme rispettarle per ciò che sono e in tutte le relazioni possibili, che le avviluppano e le collegano allo spazio e al tempo, anche, se non soprattutto a quelli interiori, per riuscire a essere saggi. Cioè felici. O non infelici. O solo un po’ meno, se possibile.


.... (Bonus Track)

Gli è sempre rimasto però il rifiuto del romanzo tradizionale, del raccontare storie, (scrittore dell’istantaneo” CIT) e per questo si è dedicato a tutti i generi, mescolandoli, contagiandoli, non nel senso postmoderno (ironico, destrutturante) del termine ma per servirsi  degli strumenti che ciascuno di essi ha affinato (affilato) per lo scopo che di volta in volta persegue, per l’indagine, il ricordo, ma anche la costruzione di insiemi narrativi sono la forma stessa del saggio, la sua storia e la sua vocazione, a favorire questa (controllatissima) deriva sperimentale, e al contempo a richiedere una struttura e un lavoro sul linguaggio che lo scampi dalla “lingua da fuchi di un’età di latta”, dal suo “tanfo di banalità”, che non rinuncino alla trasmissione, cioè alla comunicazione, e a un legame, sia pure disgiuntivo o oppositivo, con la tradizione. Legame che Handke, dopo le “provocazioni” avanguardistiche giovanili, ha voluto ben presto ripristinare, sia pure in modi innovativi,

La ricerca della durata, il suo rinvenimento e la sua cura, sono il tentativo di aderire alla propria vita e di trovare non solo una pacificazione, tanto più necessaria per chi è afflitto, o dotato, di “una sensibilità in costante conflitto con i passaggi e gli snodi epocali del suo tempo” (H. Kitzmüller, Peter Handke, Bollati Boringhieri, 2001, p. 8), ma una composizione che consenta di tenerne insieme tutti i momenti, le persone e le cose più importanti, che non sono necessariamente i più vistosi.
“L’unico mezzo che fa sì che la durata tenga, dice lo scrittore, è la fedeltà a ciò che si ha vissuto… la fedeltà formale, nello scrivere, riferire… ritornare… è l’unica via, non è una strada maestra, una via regale, ma è un piccolo sentiero… La strada per la durata è la fedeltà, la fedeltà alla forma... che è l’estetica… Si tende a screditare l’estetica, ma l’estetica è l’istanza dell’etica.” “La durata ha a che fare con gli anni, i decenni… la nostra vita… ecco, la durata è la sensazione di vivere.”
 

….
Sembra una forma di misticismo laico, immanente, che a una lettura spiccia rischia di emanare un profumo dolciastro, di facile consolazione, mentre invece è una conquista, il frutto mai acquisito una volta per tutte di un costante impegno, perché tale, contro tutte le distrazioni, l’indulgenza e la pigrizia, è la fedeltà a se stessi nel tempo, il tener fermo ciò e chi ci è caro, anche quando non ci si pensa (e ancora di più allora), e custodito dentro di noi, che dura e non pesa, e ci avvolge e riscalda senza che noi ci facciamo caso, per riscoprirlo solo ogni tanto con una sensazione forte e insieme quieta in un oggetto, la ripetizione di un gesto, il ripresentarsi di un momento o di una parentela tra spazi insignificanti, quotidiani, senza nome.

Ma forse il senso della durata non è nemmeno questo; non è il ritorno dello stesso o la percezione di continuità che si instaura attraverso la ripetizione e la ricorrenza di certi atti o sensazioni o la presenza continua, anche se spesso silenziosa e in disparte, di oggetti e ricordi ecc., ma solo il sentimento che la nostra vita non è a pezzi, disseminata in frammenti e scarti che se ne stanno irrelati, ciascuno per conto proprio e senza la possibilità di un senso comune o di qualsiasi legame: che persiste, nel mondo attorno a noi, qualcosa che rimanda alla nostra persona e, in noi, qualcosa della presenza che non tramonta del mondo.

Questo testo è uscito in forma più breve su doppiozero l'11 ottobre 2019

20/06/20

Comincia facile (Appunti per niente - 16)


Ecco, ho appena letto un articolo che pensavo sarebbe stato difficile, e invece per tutta la prima parte si è rivelato più facile di quanto avrei mai supposto, e persino gradevole, ma poi, chissà come, pian piano, è diventato sempre più arduo, fino al limite dell'incomprensibile, che la chiusura (una citazione molto affascinante su un oggetto letteario che mi è caro) ha infine oltrepassato, e io sono rimasto lì a guardami attorno, con il respiro un po' accelerato, senza capire dove fossi e come fossi capitato lì, e a chiedermi chi diavolo sono, come mai e perché, io.

(E poi, alla fine della fine, mi sono chiesto se un testo non è così che deve essere; non è questo effetto che deve fare.)