29/06/18

Come quando non si ha voglia di scambiare parole o anche solo rapidissimi guardi



Come quando non si ha voglia di scambiare parole o anche solo rapidissimi guardi, ma nemmeno di essere maleducati o spocchiosi, o con quel minimo di altezzosità che comunque affiora se si finge di ignorare persino qualcuno che ignoto lo è davvero, pur non essendolo già più nel momento in cui ti viene incontro e lo incroci… e non vuoi non per scontrosità o tristezza o per qualche forma di concentrazione, vera o presunta, o selvatichezza, bensì solo perché ti sta bene, stai bene, così, senza interferenze, e allora, in assenza di luoghi del tutto solitari, deserti o monti o foreste, trasformi quelli che hai a disposizione in un loro surrogato, scegliendo i meno frequentati, secondo la tua esperienza, ma lo stesso poi, se qualcuno ti fa un cenno, sorridi, se ti dice una parola, rispondi.



Ma c’è anche chi se ne va a capo chino, immerso nella sua pena, refrattario a tutto e a tutti, che non guarda e non saluta più nemmeno chi conosce da lungo tempo, trasportato solo dal ritmo regolare dei passi e da quello sommesso del respiro, con il corpo rigido, la testa inastata sul collo a quarantacinque gradi, con rari piccoli sussulti laterali, quasi accenni subito rientrati di negazione, come questa signora signora che percorre tutte le mattine, in una specie di circuito memoriale innescato e portato a termine dal corpo in totale autonomia, le stesse strade che percorreva fino a poco fa assieme al marito, o piuttosto a volte qualche metro avanti e altre poco indietro, perché lui faceva corsette, esercizi di stretching o di respirazione, piccoli tratti comminando a ritroso, con la sua fascetta sulla fronte e, dopo l’ultima operazione, una vistosa ginocchiera, lui allegro, che salutava sempre tutti, lei dal portamento sempre controllato, elegante, seria, ma serena, con una piccola luce negli occhi che ora non c’è più.


27/06/18

Incipit - Robert Walser, Jakob von Gunten



“Qui s’impara ben poco, c’è mancanza di insegnanti, e noi ragazzi dell’Istituto Benjamenta non riusciremo a nulla...”

Subito, dopo le prime parole, ho pensato: Si parla di me. Prima come studente e poi come insegnante. E poi, in generale.
L’Istituto Benjamenta è la vita: anche qui c’è mancanza di insegnanti e si impara ben poco, nonostante la buona volontà di tutti, anche se è meglio non dirlo. “L’insegnamento che ci viene impartito consiste sostanzialmente nell’inculcarci pazienza e ubbidienza”, esattamente come fa la vita: e chi non impara, peggio per lui. Quando si impara qualcosa, o si crede di averlo imparato, è troppo tardi, il danno è fatto, l’errore che ti ha fatto da maestro è agli atti, non si ripresenterà uguale, e quindi aver imparato non servirà a nulla: quando si ripresenterà, la leggera differenza sarà quello contro cui picchierai la testa. E farà sempre male. Cioè, qualcosa si viene anche a sapere, a sprazzi, ma si tratta di informazioni, anche molte, oggi. Ma imparare è un’altra cosa. Se sai veramente qualcosa, cominci a capire anche il resto, e non è detto che sia un bene. Viene in mente un altro famoso incipit, quello di Il richiamo di Cthulhu di H.P. Lovecraft: A mio avviso, il favore più grande che il cielo ci ha reso è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che esso racchiude. Viviamo su un’isola di beata ignoranza posta al centro di neri oceani di infinito, e non era scritto che dovessimo attraversarli. Come dire che se il non sapere fa soffrire, sapere è peggio. Sai che scoperta.
Poi il dolore fortifica, dicono. Bene. Erigi il tuo sistema di difese. Vai sicuro per il mondo, che non sa che farsene del tuo sapere o non sapere, come della tua sicurezza, sempre sul punto di vacillare. Ciò che spesso fa, peraltro. Un vaso pieno di terra è sempre pronto a caderti sulla testa. La terra che conteneva ti ricopre. È la sua forma di misericordia. Non avrai nemmeno il tempo di ringraziare. 
A rigor di logica le cose vanno così. Ma la vita il rigore della logica lo spezza in continuazione. A parte il finale, certo. E lo stesso fa Walser. Così, non solo per lui, ogni tanto, lungo il tragitto, qualche folgorazione ti raggiunge, come Saulo verso Damasco. Che non a caso è caduto da cavallo, d’accordo. Però intanto era per strada, cadendo ha saggiato il terreno e gli occhi hanno visto il cielo.

Robert Walser, Jakob von Gunten (1909, trad. it. Emilio Castellani, Adelphi, 1970)
Uscito su doppiozero.com il 19-03-2018 

 

23/06/18

Sì, mela. (Appunto nato dalla costola di un altro appunto)




Dicono che ogni tanto Dio scendeva nell’Eden a fare quattro chiacchiere con Adamo. Si vede che aveva bisogno di compagnia. O pensava che a sentirsi solo fosse Adamo, pur in mezzo alle delizie del creato in cui si integrava benissimo, totalmente, senza la benché minima frizione? Non si sa. Fatto sta che “scendeva” e passava del tempo con lui. Io però non credo che chiacchieravano davvero. Si intendevano in qualche modo, questo è sicuro, ma non a parole secondo me: con qualche forma di comunicazione diretta, immediata, non linguistica quindi, come Adamo già faceva con gli animali. Dicono che ne parlasse tutte le lingue, ma è una panzana, gli animali non hanno mai parlato. Bastava che fossero l’uno di fronte all’Altro e tutto era a posto. A me sarebbe bastato. Cioè, hai Dio in persona che si è scomodato per venirti a trovare, di che altro potresti aver bisogno?
Forse Dio non scendeva nemmeno a “intrattenersi” con Adamo o a fargli compagnia, ma solo per ammirare più da vicino la sua creazione. E per farsi ammirare, sussurrano i maligni. Un Dio un po’ vanesio insomma. Un Dio narcisista. Ma tant’è, se lo può permettere, Lui.
Forse Dio ha creato Adamo solo per quello, da principio: uno che lo capisse, che godesse della sua creazione, la ammirasse, e ammirasse il suo Creatore. Che gli rendesse gloria. Anche questo a me sarebbe bastato. Lo avrei fatto volentieri. Senza nemmeno essere sollecitato. Che a me cantare “in excelsis” tutto il giorno basta e avanza.
Torniamo a Adamo, però. Era di lui che stavamo parlando. Ammettiamo pure che sapesse parlare, che nei momenti in cui se ne stava da solo nell’Eden si sia messo a rimuginare tra sé mentre guardava le cose e le creature, e gli sia venuto il gusto di mettere il nome a tutto quello che vedeva e sentiva. Ammettiamolo, anche se l’ipotesi è peregrina, perché mettere un nome significa aggiungere qualcosa, significa che vedi ogni cosa da fuori, che la tua fusione è incompleta, che vedi te, o loro, o il vostro rapporto, come qualcosa di incompleto, di imperfetto. Che Dio da qualche parte ha sbagliato qualcosa. Ipotesi a cui mi rifiuto di credere. Ma ammettiamo pure che abbia giocato a mettere nomi un giorno a questo un altro a quello. E poi? Si girava i nomi in bocca, come una caramella, ripetendoli tra sé e sé per non dimenticarli? Per parlare Adamo ha avuto bisogno di Eva.
Ma di Eva, prima di Adamo, secondo me, ha avuto bisogno Dio. Secondo me Dio alla lunga si è annoiato con quel bamboccio sempre così beato e contento di sé e di Lui. Allora gli è venuta l’idea di togliergli qualcosa, di incrinare quella sua perenne soddisfazione, e renderlo così più interessante. Così ha creato Eva. Gli ha dato una compagna: gli ha aggiunto qualcosa, dicono. Lo ha completato (lo avrebbe completato). Ma come si può completare qualcuno che è già completo? Allora per farlo, gli ha tolto qualcosa. La costola. Era tutto così perfetto che aggiungere qualcosa era impossibile, se non rendendo imperfetto qualcos’altro. Anche lui a suo modo perfetto, dopo, ma con qualcosa in meno. Una perfezione difettiva. Ma anche con qualcosa in più, tramite quel raddoppiamento identico, con qualche piccola differenza. Due perfezioni che diventano una per via della differenza che li separa. Ma due, comunque. Allora sì che le cose si sarebbero messe in moto.
È stato a quel punto che Adamo ha avuto bisogno di parlare. O piuttosto: che ha avuto occasione di farlo. Che gli è accaduto di farlo. Con Dio non c’era bisogno (ma d’ora in poi vorrei lasciar stare Dio, che tanto Lui non riusciremo mai a capirlo lo stesso…); con Eva di fronte sì. Non subito magari, ma dopo un primo periodo di prime, silenziose scoperte, che può essere durato anche anni, secoli, millenni addirittura (chi li contava a quei tempi?), un bel giorno Adamo si è ricordato di quel giochetto solitario, e mentre se ne stavano stanchi e un po’ sudati, con il fiato un po’ ansimante, all’ombra di un grande albero carico di frutti, indicandone uno ha detto: “Mela!”. E ha sorriso. “Mela”, ha ripetuto Eva, con un cenno di assenso, allungando la mando per cogliere il frutto più vicino. E sarà che era ancora un po’ affannata, o che il gesto di assenso del capo abbia prodotto spontaneamente un suono, o che sia stato il piccolo sforzo di allungare la mano verso il ramo carico di frutti: “Sì, mela”, ha ribadito sorridendo a sua volta. E quel suono è stato “Sì”. E secondo me è stato proprio così che è nato il linguaggio. 
Sì.



Uno sbuffo, un soffio, forse lo stesso con cui Dio ha dato il via alla creazione e ha insufflato vita nel fango che poi sarebbe stato Adamo, e che a quei tempi stava per quello che per noi oggi è “sì”, l’approvazione con cui Dio ha messo il suo sigillo alla creazione nel momento stesso in cui creava e giudicava buono ciò l’azione e il suo effetto, il tutto ripetuto senza volerlo da Eva, ma come se qualcosa in lei lo sapesse, il suo corpo, che presto avrebbe generato a sua volta. Come se Dio, proprio e solo a Eva, avesse voluto apporre il sigillo di chi crea, di chi dà alla luce qualcosa, qualcuno per cui, nato, la luce poi, infine, ogni volta, è.

(Ma Eva mentre con il suo sbuffo, con il suo “sì”, non essendo Dio, con lo stesso gesto complesso composto da azione, parola, riconoscimento, risposta, istituisce il linguaggio, nel farlo entrare nel mondo fa entrare, insieme ad esso, allo stesso tempo, nello stesso momento, il male. Riconosce la parola come parola, riconosce che tra la parola e la cosa c’è un legame e insieme una separazione, c’è un legame nella separazione, fa in modo che i suoni prodotti da Adamo abbiano senso e valore, istituisce la parola e il mondo che essa designa ma più ancora fa essere, cioè lo crea, rendendosi così, senza saperlo, simile a Dio, e subordinando il mondo al proprio volere e sapere, lo finalizza ai propri desideri, e coglie la mela, riconoscendola come tale e decretandola così come propria, per soddisfarli, e implicitamente per dimostrarlo. Per dimostrare di essere come Dio, e pertanto di poterne fare a meno. Cosa che, allora, era appunto il male. Ora non so. E non è molto diversamente da così, secondo me, che anche il male è nato. No.)





11/06/18

L’intelligenza di Proust e quella degli altri (breve appunto)




"Ogni giorno che passa attribuisco minor valore all'intelligenza", scriveva Proust all'inizio di "Contre Sainte-Beuve".
È una frase che viene citata spesso, in genere per esaltare il valore di ciò che all’intelligenza sarebbe estraneo, se non addirittura opposto. Sentimento, intuizione, immaginazione, esperienza pratica, scuola della vita. Tutte cose bellissime, che però con l’intelligenza possono convivere benissimo. Che dovrebbero, anzi, anche se non sempre è così.

Frasi del genere le può scrivere solo chi di intelligenza ne ha tantissima, invece.
(Senza contare che anche in quello che Proust esclude dall'intelligenza, ce n'è tantissima ancora, di altro genere...)

Ma mettiamo uno che ne ha poca, o molto ma molto meno di lui (come me): per costui averne di più non sarebbe affatto male. E saperla usare, anche, naturalmente. E allora la desidera e ricerca come qualcosa di molto importante. Di decisivo, quasi.
Per attribuire sempre minor valore all’intelligenza bisogna avergliene attribuito tanto, prima, e aver cercato di portarla ai suoi limiti, e solo una volta arrivati lì, cominciare a ridimensionarne il valore.
Diverso è il caso di coloro che non ne hanno affatto, o pochissima, e non sanno, e a volte nemmeno vogliono, usarla, ma non perdono occasione di disprezzarla, vantandosene pure. Costoro non ridimensionano il valore dell’intelligenza perché non gliene hanno mai attribuito. Essendo rimasti molto al di qua dei suoi limiti, hanno visto solo i propri, pensando che fossero i suoi, e quindi, per non sapere che farsene, la spregiano e dileggiano come cosa di nessun conto: l'intelligenza, chi ce l'ha e chi cerca, come può, di accrescerla e usarla. Che ovviamente appaiono loro come stupidissimi e boriosi, che della vita non hanno capito niente. Sempre inquieti e infelici, oltretutto.
Senza capire loro, naturalmente, che questo disprezzo dell'intelligenza non li rende superiori ad essa, come fa il ridimensionamento di Proust che la amplia e sviluppa e illumina in un contesto cha tutta la comprende, ma rivela in tutta flagranza il suo contrario, la stupidità della peggior specie, quella soddisfatta di se stessa.
(D'altra parte, se qualcuno o qualcosa è soddisfatto di se stesso non può essere che stupido.)

(Fine.)

08/06/18

D.M. Thomas, L’albergo bianco, Frassinelli, 1983



Nel carteggio apocrifo che fa da prologo a L’albergo bianco (pubblicato nella bella traduzione di M. Amante dalle edizioni Frassinelli), Freud scrive al grande discepolo e amico Ferenczi: “Una mia paziente, una giovane afflitta da una grave isteria, ha appena “dato alla luce” degli scritti che paiono fornire un supporto alla mia teoria (della pulsione di morte, ndr.): una fantasia libidica spinta all’estremo, combinata con un’estrema morbosità. E’ come se Venere si guardasse allo specchio e vedesse la faccia di Medusa”.
Nell’emergenza di questa figura che è mortale fissare direttamente, nella sua sempre più netta delineazione a partire dall’altra figura nello specchio, fino ad uscirne per dilatarsi da un luogo senza nome che è in noi ai luoghi più innominabili (ma che proprio per questo più degli altri si deve con insistenza indicare e nominare) della storia, possiamo individuare una delle più feconde vie d’accesso a questo notevole libro, stratificato e insieme leggibilissimo.
Ma come Medusa non è un semplice riflesso o l’avversario complementare di Venere, così non è lineare la sua espansione dalla dimensione infrapersonale a quella interpersonale prima e collettiva poi. Il reticolo che conduce dalla storia privata di Lisa Erdman al massacro di 34.000 ebrei a Babi Yar, come il rapporto tra Eros e Thanatos è, cioè, pluridimensionale, fitto di intersecazioni, legami, accavallamenti, contrasti, connivenze, interruzioni, ritorni e cambiamenti di livello, come la struttura stessa di questo romanzo nella varietà e discontinuità delle sue sezioni e dei suoi linguaggi. I quali non mancano, tuttavia, di moltiplicare echi e riprese o variazioni, che se da un lato creano un insieme coerente e compatto oltre le membra sparse, dall’altro consentono un ampliamento semantico e concettuale su più piani e da più angolature. Quasi a ripetere, ai vari livelli semantici, simbolici e stilistici, quella che in psicanalisi viene chiamata surdeterminazione. Così che, assecondando i suggerimenti e le tracce sparse nel testo, le sei sezioni che seguono il prologo si fanno leggere, frazionare e ricomporre in vari modi, non solo tutti legittimi, ma tali da arricchirsi l’un l’altro.
La prima di queste sezioni è composta da un poemetto scritto nelle interlinee di uno spartito del Don Giovanni di Mozart, ulteriore conferma della centralità del tema amore-morte. In esso la protagonista racconta un allucinato incontro erotico con un figlio di Freud in un albergo bianco attorno al quale si susseguono eventi straordinari e mostruosi, come tempeste, incendi improvvisi e caduta di stelle.
Sotto forma di un diario in terza persona questo episodio viene ripreso e sviluppato nella seconda sezione, alla quale fa seguito, molto abilmente modellata su quelle vere, l’analisi del caso da parte di Freud, che ci permette di ricostruire la vita della protagonista e la sua storia interna , fino alla radice della malattia legata soprattutto alla madre, perita nell’incendio di un albergo mentre consumava un suo amore più o meno clandestino.
La quarta sezione racconta la storia di Lisa dopo l’analisi, apportandovi anche correzioni e integrazioni, e accompagna la sua attività di cantante lirica fino al matrimonio con un collega che segna il suo ritorno in Russia, alle origini. Proprio qui Lisa resta coinvolta nel massacro di Babi Yar, che viene narrato con molti particolari che D. M. Thomas ha potuto desumere da un libro di ricostruzione e testimonianze di A. Kuznetsov.
Non è questa tuttavia la fine del libro, che termina infatti con una specie di sogno escatologico, il racconto di una risurrezione, quasi che il treno diretto in Israele sul quale pensavano di partire le ignare vittime, le avesse davvero condotte nel paese dove si possono reincontrare tutti coloro  con i quali si è vissuto e chi si è amato, per vivere serenamente, chiarite le menzogne e gli equivoci del passato e nominati i segreti.
Ogni sezione ha una sua traiettoria narrativa e un suo linguaggio, che va dal poetico al saggistico al documentario, ma la forza del libro consiste nel non aver ceduto alla facilità della frammentazione del caos e nell’aver saputo ricondurli a una superiore unità e coerenza sia di tono che di struttura, assumendo in tal modo una tensione etica ben lontana dalla semplice constatazione del mondo crollato in schegge incoerenti e dalla sua speculare esibizione nell’opera, come avviene spesso con un gesto che si vorrebbe oggettivo ma che di fatto si rivela consenziente e banale.
C’è in L’albergo bianco come un partito dell’oggettività che prende la forma di reperti esibiti senza commenti, ma si tratta a ben guardare di un’esigenza di misura nel tono della scrittura, onde evitare, anche nei momenti più eccessivi e violenti, la retorica complementare del moralismo e del cinismo, e che riesce anzi a coniugare ironia e pietà in una sorta di diffusa tenerezza. Proprio quella tenerezza nella quale Lisa e la madre riconoscono, nel loro incontro finale, la forma più degna dell’amore e la radice di ogni speranza e salvezza. La tenerezza, e non l’amore, troppo strettamente legato, nell’esperienza di Lisa, alla violenza e alla morte. Quest’ultima scena credo possa indirizzare verso un’ulteriore interpretazione del significato dell’albergo bianco, oltre quella canonica del corpo della madre, “luogo senza peccato, libero dal nostro fardello di rimorso”.
Tra le diverse possibilità di lettura e collegamenti fra le sei parti del libro cui accennavo prima, una delle più evidenti è quella che rapporta la prima all’ultima sezione, segnate rispettivamente da una marca edenica prima e dopo il tempo, quello della caduta e della storia, ma volte in direzione opposta. L’albergo bianco del poemetto si può intendere come il luogo chiuso dell’abbondanza e dell’appagamento dei desideri, ma anche della distruzione, che si rimpiange fuori da ogni possibile ritorno, mentre nell’ultima parte esso si configura come un campo aperto che si desidera e forse si può raggiungere, come utopia positiva che non cancella il tempo e l’errore ma opera verso una conciliazione, senza la quale la storia finisce a Babi Yar.

20-05-1983

 
D.M. Thomas, L’albergo bianco, Frassinelli, Milano, 1983, p. 306, £ 12.500