25/04/17

Giuseppe Pontiggia - Il Giardino delle Esperidi, 1984



Anche Giuseppe Pontiggia, al pari di Borges e di altri scrittori e lettori di diverso grado di nobiltà, confessa di sentire “l’aspirazione a inghiottire l’universo attraverso i libri”. Lo capisco. Che però egli non si accontenti come molti dell’astratta aspirazione, né di quella complementare di essere inghiottito dai libri, sotto la specie di una bellissima e amplissima biblioteca privata, lo prova il recente volume Il giardino delle Esperidi, tanto ampio è lo spazio indagato nei saggi che lo compongono e tanto sicuro il passo che lo percorre più mimetizzando che evidenziando l’erudizione che lo sorregge. Se la asseconda spesso, di questa voracità tuttavia Pontiggia conosce anche i pericoli: emanata dalla “percezione sia del valore della cultura sia della sua impotenza a modificare chi la possiede e di dare un significato alla sua vita” tipica della “crisi della civiltà contemporanea”, essa implica infatti “una visione suicida del sapere, inteso come una quantità che si estende all’infinito e non come una qualità che si riduce alla persona”, mentre è proprio questa riduzione alla persona che a lui preme.
Non per nulla il verbo che sempre torna nei momenti topici delle sue letture, coniugato in molti modi e varianti, è riguardare; infatti “quando il testo ci prende e in qualche modo ci riguarda, è perché l’autore sta parlando a noi e non alle nostre controfigure culturali”. Anche la lettura quindi deve essere misurata “ogni volta con la propria necessità interiore” e affrontare, contrariamente a quanto fanno di solito i critici, “la riflessione sul senso più importante del testo: ossia il suo valore in rapporto al tempo della vita”, a quello della “Storia” e insieme a quello della “esistenza”. Così, per esempio, la letteratura fantastica può dirci più cose sulla realtà di quanto non possa fare la speculazione con le sue definizioni, “rende manifesta la scomparsa del senso nella infinità dei significati” e dilata i nostri sensi con la sua “capacità di vedere l’invisibile”; e, ancora, a chi non voglia fuggire nell’attualità “recidendo i legami con il passato e il futuro” in ossequio all’ormai obsoleto imperativo del moderno ad ogni costo, i classici possono restituire il senso del tempo, poiché solo nella consapevolezza della loro distanza essi tornano a parlarci con “familiarità”.
Se Pontiggia opera dunque una costante riduzione del sapere alla persona è perché pensa che “l’essenziale non è quello che si sa, ma quello che si è”, riprendendo una verità tanto antica, e da tutti a parole condivisa, da apparire banale. Ma, in primo luogo, una verità non cessa di essere tale solo perché antica e banalizzata se dimostra, dalla sua distanza e nella sua prossimità, di essere ancora produttiva nelle nostre mutate condizioni di vita; e, in secondo luogo, rifiutare automaticamente ogni vera o presunta banalità può rivelarsi uno dei tanti tributi all’“unico fattore invariabile della storia”, la stupidità (oggetto di uno dei saggi più belli del libro) alla quale certo “abbiamo tutti sacrificato qualcosa di essenziale”, ma non per questo siamo tenuti a farlo sempre: proprio la ripetizione costante e superficiale che crea la banalità potrebbe infatti nascondere qualche prezioso insegnamento dimenticato.
Non è comunque a un deprezzamento consolatorio del sapere che Pontiggia tende con quella frase, quanto alla necessità della “convergenza tra vivere e conoscere” che era tipica, per esempio, di Solmi e prima ancora di Montaigne e dei moralisti classici, in una tensione etica che permea tutto Il giardino delle Esperidi e costituisce il vero collante che organizza in un insieme compiuto l’apparente disparità dei saggi, che pure sono collegati tra loro da una notevole varietà di ricorrenti ramificazioni tematiche.
Anche l’altro fattore principale di coesione, lo stile, di questa tensione etica non è che il complemento necessario: come “impronta di ciò che si è in ciò che si fa”, secondo una definizione di Solmi, solo in esso può attuarsi, per uno scrittore, la convergenza tra essere e conoscere che Pontiggia persegue. Come deve essere trasparente a se stesso per meglio comunicare con gli altri, così la chiarezza deve essere la nota dominante dello stile, sia pure “una chiarezza metaforica, allusiva, autoironica, discreta”. Per Pontiggia come per Daumal “la chiarezza non è il valore, ma il valore non si esprime che attraverso di essa”. Scrivere, specialmente romanzi come fa Pontiggia, significa inoltrarsi nell’ignoto (il giardino delle Esperidi, appunto) e agire in modo tale che il testo ne sappia più dell’autore, ma questo non comporta che l’ignoto permanga buio senza forma né che l’autore debba rinunciare alla “costruzione” del racconto, la quale anzi, non rientrando “nell’area del calcolo, quanto in quella del rischio”, proprio al conseguimento del sapere maggiore del testo finisce per collaborare.
“Eterno è il mondo della cose che non si possono esprimere, a meno che non si esprimano bene”, scriveva Thomas Mann, ma questo non implica, chiosa Pontiggia, il totale appiattimento di ciò che viene detto in una luminosità senza ombre né che la chiarezza si riduca a facilità, essendo la conquista della naturalezza “il supremo degli artifici”. “Solo il discorso chiaro può essere di una complessità inesauribile” ed è appunto questa complessità che l’artista ricerca, per potenziare attraverso la sua inesauribilità anche la vita. Ambizione “temeraria” forse, ma in fondo l’unica veramente coltivata dall’artista, il quale infatti, “anziché ‘realizzarsi’, come vorrebbero i più, tende a una meta infinitamente più importante: aggiungere vita alla vita, scoprire mondi che sfuggano alle possibilità di previsione e di controllo, labirinti in cui Dedalo si ritrova e si perde”. Senza doverne costruire di sotterranei aggiungendo oscurità all’oscurità, già la chiarezza e la trasparenza sono un labirinto: anche quello di dedalo era a cielo scoperto, e già Pessoa diceva: “quando parlo con sincerità non so con quale sincerità parlo”.


Questi due articoli sono usciti rispettivamente su Bergamo e Brescia Oggi, nel 1984, e su La talpa (o era già Alias?) del Manifesto, nel 1993