28/12/18

Lovecraft, un classico




Ci sarà qualche ragione se la fama e i lettori di H. P. Lovecraft aumentano di anno in anno, se le edizioni delle sue opere si moltiplicano (in Italia le opere complete sono edite da Mondadori, per la curatela di G. Lippi; e da Newton Compton e Fanucci, fino a edizioni per ragazzi) e non si contano le ristampe di singoli racconti o romanzi, come la recente di Le montagne della follia con la nuova ottima traduzione e curatela di A. Morstabilini per Il saggiatore, ecc. o raccolte “tematiche” in vesti accattivanti e con utili e leggibilissimi apparati, come Cthulhu. I racconti del mito e Il necronomicon che negli ultimi anni sta allestendo ancora Mondadori. Ci sono gli adepti, come in ogni mitologia settoriale che si rispetti, con molti meriti peraltro, che coltivano le loro ritualità, e ci sono gli altri lettori (non dico “normali” perché nessun lettore lo è), che ogni tanto, o a folate, si leggono o rileggono questo o quel volume senza farsi altri problemi al di fuori del piacere, in tutte le sue sfumature, che la lettura può indurre. Anche quella di romanzi dell’orrore può darne, senza essere necessariamente masochisti per provarlo.

Essere invasi dalla paura guardando il cielo è una delle esperienze più antiche dell’uomo; declinata in stupore o sgomento, alternativamente o insieme, a seconda delle circostanze. Si tratta di uno stesso e unico sentimento a cui diamo nomi diversi per evidenziare la sfumatura in un dato momento prevalente, ma la paura prevale sempre, sino a diventare vero e proprio terrore, a volte, da quando la consapevolezza dell’infinita grandezza dell’universo e l’ipotesi non inverosimile di infiniti altri hanno messo radici nelle conoscenze scientifiche e nell’opinione comune. Con tutte le implicazioni, perlopiù confuse, che questo comporta per la percezione di se stessi e della vita, della sua origine e del suo significato, dopo che le religioni hanno cessato per molti di essere delle risposte. Ma anche se “Nessuna forma di vita ha un significato o un principio centrale (…) noi siamo ciò che siamo semplicemente perché lo siamo” (Lettera a R. Kleiner del 13-5-21), al senso pare difficile rinunciare. Uno qualunque. E appena il senso entra in scena, la metafisica da dietro le quinte fa capolino.
“Paura cosmica” e “orrore soprannaturale” ne sono la diretta conseguenza, e prima o poi non poteva che nascerne la corrispondente letteratura: piuttosto tardi che prima però, contrariamente a quanto prevedibile, a meno di non considerare i miti e i libri delle religioni come forma originaria di tale letteratura, chiusa nella gabbia della verità subito dopo essere stata aperta però. Di questa letteratura Howard Phillips Lovecraft è stato il capostipite e resta tuttora il massimo rappresentante. Alla base della sua opera c’è un paradosso, dal momento che essa tratta di temi soprannaturali su base integralmente materialistica, che a ben guardare tale non è: più si fa affidamento sulla ragione e sulle spiegazioni “naturali” e scientifiche infatti, più si resta stupiti, e forse anche sconvolti, non solo da ciò che essa ti mostra e fa intravedere, ma anche dai limiti che essa incontra e che travalicano talmente le sue potenzialità da non poter indurre altro che paura e orrore. Questo mostra come tali confini siano fragili e porosi, e lascia immaginare quanto di innominabile e spaventoso attraverso essi può filtrare in noi e nel mondo che definiamo reale, dove poi giace e fermenta e inquieta, pronto a esplodere o a contagiarlo, che provenga da altri tempi e luoghi e dimensioni, lontanissimi o contigui che siano… Posti di fronte a tali scenari il vago “schema cosmico” che puntella le nostre esistenze traballa, e appunto lì va a innestarsi la letteratura del terrore come la intende Lovecraft (vedi il saggio L’orrore soprannaturale nella letteratura, SugarCo 1978). Il quale in una lettera a Clark Ashton Smith del 20 novembre 1931, scriveva: “Per me, il climax di una storia del terrore è costituito dalla dimostrazione palese di una sconfitta temporanea dello schema cosmico. Per rappresentare ciò, impiego come simboli dei burattini umani: ma il mio interesse non è con loro, è invece nella sensazione della sconfitta di cui dicevo prima, e nel sentimento di liberazione che essa implica. È questo che mi garantisce l’emozione e la catarsi dell’impresa artistica.” Dove a colpire non è la considerazione degli umani come “burattini”, ma il fatto che la sconfitta sia “temporanea”, come del resto è naturale, dal momento che siamo ancora qui a raccontarcela (sulla “catarsi” è meglio sorvolare).

Lo “schema cosmico”, frutto della nostra ignoranza e approssimazione, è del resto la nostra salvezza, come si evince dall’incipit di Il richiamo di Cthulhu: “A mio avviso, il favore più grande che il cielo ci ha reso è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che esso racchiude. Viviamo su un’isola di beata ignoranza posta al centro di neri oceani di infinito, e non era scritto che dovessimo attraversarli”. Per questo ogni volta che qualcosa, che venga dall’esterno o dall’interno, ci porta a voler evadere da questa isola, o ci obbliga ad abbandonarla mettendoci di fronte a ciò che abita questi “neri oceani”, la sensazione che si prova è quella di uno sgomento mostruoso, che travalica i nostri strumenti di comprensione, morale oltre che intellettuale.
Non a caso uno degli aggettivi più usati da Lovecraft, materialista e ateo, era “blasfemo”, con i suoi paggetti “sacrilego”, “empio”, “eretico” ecc., riferito più o meno a tutto (esseri viventi e sognati, reali e mitologici, luoghi, cose, libri, sculture, immagini, voci, odori: a p. 99 di Le montagne della follia, persino una “connessione”, anche se “con i dimenticati eoni solitamente preclusi alla nostra specie”, che beh, allora ci sta pure), tanto che vien da pensare che blasfema, per lui, fosse la realtà in tutte le sue dimensioni, spazio-temporali e “altre”: un’offesa “innominabile” (altro aggettivo del suo pantheon linguistico) a princìpi superiori peraltro inesistenti, e in ultima analisi, anche se non sta bene dirlo, alla sua personale sensibilità, a lui stesso. Anche per questo Lovecraft piace a coloro che si sentono offesi dal mondo (questo, e a maggior ragione gli altri, che, come sosteneva anche Philip K. Dick, sono persino peggio): a ragione Michel Houellebecq sottotitola Contro il mondo, contro la vita il suo notevole libretto sul nostro autore (Bompiani, 2001). Cioè praticamente tutti. Incluso il sottoscritto.
Anche se lui ovviamente avrebbe preso come una volgare insinuazione questa deduzione riduzionista. In un certo senso lo è. Lui era un razionalista a cui erano completamente estranei l’antropocentrismo e i pregiudizi suoi corollari; si dichiarava “indifferentista” (corsivo suo), uno che non commetteva l’errore di interpretare il cosmo e le sue forze come dirette a uno scopo e tantomeno preoccupate della sorte e del benessere o malessere dei suoi abitanti. Non c‘è bene o male: ci sono solo gli effetti di queste forze, che da chi le incrocia vengono avvertiti in modo positivo o negativo. Ma quelli sono solo affari suoi.
In realtà il vero bestemmiatore è lui, ateo integrale, che mette al centro del suo cosmo divinità idiote, che blaterano senza senso, non sanno quello che fanno, si muovono a fatica quando sono sulla terra, si fanno ricacciare in altre dimensioni da qualche formula o se ne stanno relegate negli abissi terrestri o oceanici, o di altri universi, aspettando tranquillamente che si aprano porte dimensionali o che qualcuno li riporti fuori quando si verificano le condizioni, perlopiù astrali, adatte. Nel frattempo li si può immaginare che fanno la calza, o se ne stanno da qualche parte a bollire nella loro rabbia, storditi da non si sa cosa, forse dal loro stesso puzzo disgustosissimo. Il puzzo è una degli indizi più sicuri della loro presenza; ma per Lovecraft ogni odore è disgustoso, peraltro forse perché associato alla materia (al corpo), e in particolare alla materia in putrefazione (l’associazione con il sesso è fin troppo facile e quindi non saremo così banali da istituirla).


Per quanto razionalisti incalliti come il loro autore fossero la maggior parte dei suoi protagonisti e narratori che tentavano vanamente di far quadrare tutto, e nonostante lui stesso abbia accennato qua e là a dare coerenza ai suoi universi e ai loro abitanti, non è questa che dobbiamo cercare: la comprensione dei singoli testi e l’immersione nei loro specifici territori non richiede la decifrazione dei richiami intertestuali e delle ricorrenze di nomi di luoghi e divinità e di tutta la biblioteca dei libri maledetti, che contribuiscono al lavoro della fantasia senza determinarne con precisione i termini e i caratteri, che restano sempre e comunque quelli che ciascun racconto è in grado di creare di per sé, spesso riuscendovi.
Ciononostante molti hanno cercato di ricostruire in qualche modo il pantheon e la biblioteca sparsi nella sua opera, continuandola e integrando le lacune con tutta una proliferazione di testi più o meno fedeli al canone, come certamente facevano i rapsodi con l’epopea omerica.

La ricostruzione più dettagliata degli “antichi” e della loro storia si ha proprio in Le montagne della follia: in esse il narratore trova, nella città perturbante scoperta oltre le altissime montagne prima sconosciute al centro dell’Antartide, molti bassorilievi e fregi che sembrano scrittura (p. 124) che ricoprono le pareti di alcuni degli edifici e che, per quanto antichissima espressione di esseri e di culture “aliene” anche nel vero senso della parola, si possono comunque leggere e in qualche misura interpretare. Sculture, monumenti, forme di scrittura li ritroviamo poi anche in altre opere, come se, per quanto primordiali, originarie e assolutamente “altre” possano essere le entità che le hanno prodotte, tutte, non si sa come, alla scrittura e alle arti non potessero che approdare; e come se, allo stesso modo, le specie successive, senza contatti con esse e quindi senza averne ricevuto l’insegnamento, non potessero che scoprirle di nuovo, e trovare qualche forma, benché probabilmente equivoca, di comprensione. La scrittura vivente della Trilogia dell’area X di VanDermeer (2014, trad. it Cristiana Mennella, Einaudi 2015) sembra ispirata da questi testi, e in particolare dalla scrittura degli abissi (p. 127), come criptocitazione per gli adepti e omaggio indiretto, anche se declinato in modi differenti (ma non tanto).

Alcuni hanno interpretato in senso esoterico i riferimenti a libri e divinità di Lovecraft, nonostante l’esplicita dichiarazione della loro origine giocosa, a cui hanno contribuito amici e corrispondenti: ma se uno vuole credere una cosa, una qualche ragione la trova sempre (vedi in proposito i bei testi di Danilo Arona), a dispetto anche del fatto banalissimo che se qualche dio ha voglia e sa come passare da una dimensione spaziotemporale all’altra, lo può fare senza incantesimi e performance di landart varie (rune, pentagrammi e altre eleganti figure), e una volta passato non si mette al servizio di nessuno e nemmeno gli riserva un trattamento di favore perché gli viene reso un qualche culto per lui superfluo e incomprensibile: si fa i cavoli suoi e amen. Sta di fatto che gli uni (i libri) e le altre (le divinità), qualche nervo scoperto talvolta finiscono per toccarlo e le reazioni dei singoli possono comprendere benissimo la paura l’angoscia. Anche queste, per raggiungerci, non si fanno pregare. Così, circoscriverle, cercare di addomesticarle mediante simulazioni in un recinto protetto, anche se non proprio innocente, come la letteratura, venire a patti e gestirle come il bambino di Al di là del principio di piacere di Freud con il suo rocchetto, non è qualcosa di cui vergognarsi. Ma lo sgomento resta sempre. La serenità anche solo ostentata, comunque, è già ammirevole. Tanto, non dura.

I protagonisti delle storie di Lovecraft, come chiunque davanti alla morte, sono sempre soli. Qualche volta hanno il supporto o la compagnia di un amico, destinato però a perire o a perdere il senno. Di donne quasi non c’è traccia, e quando c’è, duole dirlo, è poco lusinghiera (sorvoliamo poi sul razzismo e le simpatie per il fascismo dell’autore, che hanno trovato difensori e accusatori quasi più che nel caso sacrosanto di Heidegger: diciamo solo che i racconti si possono leggere senza tenerne conto, a meno di aver assoluto bisogno di rassicurazioni psico-sociologiche).
Le comunità dove avvengono i fenomeni misteriosi che danno il via alle vicende sono chiuse, e i contatti con l’esterno sono rari. Quando qualcuno, da fuori, o anche dall’interno del gruppo, ma pur sempre ai suoi margini (come nel capolavoro Il colore venuto dallo spazio), viene a sapere o esperisce direttamente ciò che non va, inquietante e repellente, magari ne è anche sconvolto, ma viene colpito come singolo individuo, senza ripercussioni esterne di qualche conto: fuori prevale l’incredulità, l’ironia, o la volontaria cecità, persino nei rari casi in cui persone al di sopra di ogni sospetto di superstizione, come incalliti positivisti e professori universitari, non possono evitare di constatare l’inspiegabile, orrido e innaturale. Eppure siamo già in un’epoca di automobili, treni, giornali, aerei ecc. L’uso della fotografia come prova è singolarmente assente in quasi tutti i libri (tranne nel bellissimo Colui che sussurrava nelle tenebre). Le forze dell’ordine a volte sono presenti ma, come sempre, raramente incidono, o altrimenti fanno danni; gli studiosi, persone fededegne, o non sono credute, se protagonisti, o preferiscono, in quasi tutti gli altri casi, sorvolare o dimenticare, nonostante a volte ci siano tremendi effetti materiali, morti, distruzioni, cadaveri sfigurati in modo inumano, o,ggetti dalla geometria inquietante e certo non terrestre…
Dei fatti narrati, si dice in Il caso di Charles Dexter Ward (il cui ritratto, tra parentesi, assomiglia molto a Lovecraft stesso), ma vale per tutti i racconti, esistono quasi sempre “prove pressoché definitive, anche se contrastanti con tutte le leggi naturali conosciute”, che però proprio per questo vengono espunte da ogni considerazione, travisate come tali e, più o meno addomesticate, ridotte al noto, o al semplice, e rassicurante, bizzarro.
Il punto di partenza è sempre la negazione. I narratori e testimoni più significativi (lasciamo perdere il popolino e i diretti interessati) sono sempre scettici ostinati che prima di cedere all’evidenza danno voce a tutte le possibili spiegazioni razionali, per cui tanto maggiore sarà poi la loro credibilità di fronte agli eventi che le smentiranno tutte. Se non si raccapezzano loro, figuriamoci gli altri… Figuriamoci noi lettori.
Loro stessi preferirebbero tacere, dimenticare, anche perché l’impossibilità di cancellare o mettere in sordina il ricordo è la sicura premessa della follia. Quando si decidono a scriverne è per dovere, per rendere testimonianza prima di essere travolti da ciò che hanno scoperto o per impedire che vengano compiuti degli errori fatali che potrebbero spalancare le porte dell’orrore e della distruzione per intere regioni se non per tutto il mondo: quello degli uomini quantomeno, come accade con il progetto di spedizione nell’Antartide cha dà il via a Le montagne della follia o per il progetto di un bacino idrico di L’orrore di Dunwitch.


Il linguaggio è di volta in volta indeterminato e allusivo, e precisissimo nel lessico scientifico e tecnico, da referto di dissezione anatomica che descrive minuziosamente la figura e gli arti dei mostri e la materia di cui sono composti, la struttura e resistenza della pelle (come per gli “antichi” di Le montagne della follia ritrovati nel ghiaccio dell’Antartide) che tuttavia nessuna rappresentazione visiva potrebbe rendere in modo realistico e con altrettanta efficacia di quella verbale (anche presso disegnatori straordinari come Alberto Breccia, figuriamoci gli altri), con la sua esattezza nelle designazioni di suoni e colori (se di questo mondo), della geometria e volumetria degli oggetti e delle architetture.
Lo stesso accade per la geografia, anche del New England e Vermont e Rodhe Island che costituiscono le contee dell’orrore lovecraftiano, dove la topografia reale e quella immaginaria si fondono in una sola, come quella di Yoknapatawpha lo è del mondo di Faulkner. Il dato reale o realistico è duplicato da una più vasta geografia ultra o extra-terrena che con essa comunica attraverso passaggi, angoli, voragini, abissi e tutto un sistema di smagliature che crivellano la nostra precaria realtà.
Si ha spesso un accumulo di dettagli, parte dei quali distorti o esagerati, e comunque incongrui, che vengono descritti, o piuttosto elencati, in modo da rafforzare con la loro concretezza l’effetto “realistico” dell’ambiente o dell’evento in questione e di coloro che vi agiscono, quando invece, come Lovecraft peraltro sa benissimo, ne basterebbero molti di meno. Ma l’esagerazione, l’amplificazione e l’accumulo, la distorsione e l’abnorme, sono una scelta precisa: se tutto è abnorme, diventa tutto normale. Magari un normale “altro” ma pur sempre normale. Se tutto è fuori posto, l’ordine è il fuori posto. Il fuori posto diventa l’ordine di quello specifico spazio; il fuori luogo è l’ordine del luogo descritto, il luogo dove gli eventi si producono, e dove narratori e personaggi sono invischiati, tanto che a volte non riescono a evaderne se non portando con sé lo stigma permanente dell’orrore, che a breve o lungo termine non mancherà di produrre i suoi effetti letali.
Però è proprio questo che contribuisce alla suggestione che i racconti di Lovecraft suscitano. Ci si adagia nella normalità anormale dell’orrore, finché lo si dà per scontato, non si mette più in dubbio la sua esistenza, di modo che poi più forte è il colpo che subiamo quando la rivelazione ultima, o il percorso che ad essa conduce, con tutti i gradini che comporta, si manifesta.

“L’universo mitico di Lovecraft è un universo del linguaggio e attraverso il linguaggio opera un ultimo definitivo ribaltamento del nostro preteso universo ‘razionale’” (G. Lippi) Le descrizioni costituiscono uno dei tratti salienti del suo fascino: che si tratti degli “antichi” o delle città intraviste sulle cime delle montagne o ai loro piedi in Le montagne della follia, vere e proprie “cacofonie corporee pietrificate” (per citare fuori contesto il Thomas Bernhard di Amras), sono insieme vivissime e vaghe: se uno prova a raffigurarsele il risultato è deludente, a volte stravagante ma per nulla inquietante, e anzi, spesso, francamente ridicolo… La concretezza singolarizza e definisce, quindi banalizza; a inquietare è il “senza nome” (espressione che L. usa con frequenza, e a buon diritto); anche quando il dettaglio è nominato, l’insieme ha sempre un che di abnorme, di informe, e rimanda a geometrie non euclidee, ignote e vaghissime, la cui stessa evidenza, a incrociarla, disorienta e stordisce. La descrizione “oggettiva” dei paesaggi e delle cose non è quasi mai disgiunta dall’eco delle emozioni che suscitano. Mentre le cose vengono così dettagliatamente sezionate e nominate, quasi nulla di rilevante avviene “in praesentia”, ma viene raccontato solo attraverso memorie altrui o resoconti riportati di coloro che lo stanno magari vivendo ma non possono certo soffermarvisi pressati come sono dal pericolo che quasi sempre li annienterà, o evocato attraverso premonizioni e avvisaglie, poche e nebulose, o dagli effetti, descritti solo in parte tuttavia, per orrore, pietà e, appunto, “indicibilità”. La descrizione e l’adesione a quanto di reale persiste anche nei frangenti più straordinari, la concretezza della resa anche dei dettagli che non rispondono alle leggi della geometria e della percezione abituali, sono perseguiti con tenacia e rigore proprio perché solo così si può giungere al limite dove la possibilità di dire, sperimentata ogni possibilità, viene meno, e l’incontro con cose, esseri o forme “al di là di ogni descrizione” (Montagne, p. 101), anziché sciogliersi nell’indistinto di formule vuote, produce un effetto più credibile e prorompente. L’insistenza analitica che aveva prodotto un fortissimo “effetto di realtà” (per citare Barthes, che garantisce sempre una patente di nobiltà anche ai discorsi più strampalati), diventa così il necessario preambolo all’irreale, come se il razionale, invece di arginare il suo opposto, dell’incomprensibile costituisse la premessa necessaria, e la materia fosse solo un episodio di ciò che materia non è.

Suoni (toni, cadenze, litanie…) e odori (tutti sul versante del disgustoso e nauseabondo)… tutti i sensi sono sollecitati, ma di più quelli a cui si reagisce istintivamente; quelli che non corrispondono a qualcosa di certo, che non consentono definizioni rassicuranti, fossero pure quelle del riconoscimento di una minaccia e della sua fonte, a cui reagiscono invece sempre e per primi gli animali, non ostacolati dalle sovrastrutture della comprensione, della volontà di sapere. Miraggi che poi, spesso, tali non sono.
Prima o poi, a segnare l’avvicinamento al fulcro della storia, il protagonista o la comunità coinvolta, incoccia in “strani incidenti”, a volte minimi, trascurabili: indizi, premonizioni che acquistano il loro senso solo a posteriori ma che sul momento nessuno capisce, o vuole capire per non essere troppo inquietato e mettere in pericolo le proprie routine, e quindi derubrica immediatamente come cose di poco conto, errori percettivi, momenti di confusione, fumisterie, leggende, sogni. La beata innocenza in cui vive la maggior parte della gente, perché ignora o distoglie volontariamente lo sguardo, abilissima a dimenticare, vera professionista dell’oblio, non la preserva però dall’orrore e dal male che la circonda, o con cui vive gomito a gomito separata solo da un sottile diaframma da cui si tiene istintivamente discosta, ma che, non essendo solido e impermeabile, qualcosa lascia sempre filtrare, finché verrà infranto e allora non sarà più possibile sfuggire. Sprofonderanno tutti nel male, conosceranno l’indicibile senza comprenderlo, nella morte e oltre; ma forse già ne sono abitati, custodito in una ben sigillata cripta interiore che al contempo, provvisoriamente, li protegge.
L’orrore però sembra non avere fondo: persino coloro che ai nostri occhi ne rappresentano il colmo, come gli “antichi”, lo provavano al cospetto di qualcuno o qualcosa che a loro stessi era vietato rappresentare; e così non è difficile ipotizzare che anche costoro ne siano invasi di fronte a qualcos’altro a sua volta irrappresentabile e così via, in un regressum ad infinitum horroris. Senza fondo, senza fine è solo il male. Il resto finisce subito. I suoi confini sono presto circoscritti; la sua vita ha un termine sempre prossimo.

“Per quanto semiparalizzati dal terrore, nei nostri animi si gonfiava nonostante tutto una fiamma ardente di meraviglia e curiosità che, alla fine, l’ebbe vinta”, dice il narratore di Le montagne della follia (p. 160-161) descrivendo indirettamente l’effetto, ma prima ancora la causa che induce il lettore a non interrompere la lettura o la visione delle storie di orrore. Si leggono questi libri come una palestra in cui imparare a gestire la paura, con in più (i tempi lo esigono) il piacere di provarla, di esserne assalito, magari giù giù fin nei precordi, senza essere veramente in pericolo. La paura va verso le domande eterne, le profondità spaziotemporali e le dimensioni diverse dalle nostre, anche contigue (perché no), incombenti e imminenti, quelle contro cui, in fondo, non c’è niente da fare (se un dio vuol fare polpette di te e del tuo mondo, che modo hai di impedirlo? con qualche formuletta magica?), così non affronti quelle che davvero incombono su te e sui tuoi figli e fratelli ma che non puoi, sembra, ma di fatto non vuoi impedire (arginare, risolvere), non con un atto o una serie di atti di buona volontà tua e dei tuoi simili (sempre benvenuti peraltro) ma perché dovresti abbattere radicalmente le vere condizioni che le provocano, che sono concrete ma si presentano come trascendenti, anonime e incomprensibili come le divinità di Lovecraft che si agitano idiote, gorgoglianti suoni insensati, al centro dell’universo, il loro che è anche il tuo. Nondimeno la paura resta, questa e quella, irrisolta sempre al fondo, e irresolubile, nonostante le risposte che giustamente si cercano e che a volte, per questo o quello, sono anche trovate.





20/12/18

Guida galattica per gli autostoppisti. A spasso per la galassia con Douglas Adams




“Se vi trovate sul Pianeta Terra mentre leggete queste cose: Buona fortuna.”

Chi non vorrebbe andare a spasso per l’universo in autostop? Saltare a scrocco da un pianeta all’altro della galassia; sentire qualcuno che non racconta la solita solfa; innamorarsi di qualche creatura strana e poco pericolosa, diversamente da qui; visitare il “Museo dell’Immaginario demenziale di Maximegalon” (al solo pensiero vado in brodo di giuggiole); nuotare in mari di altri colori sotto cieli con altre stelle, da cui andarsene prima che diventino anche loro consuetudine? In attesa che qualche astronave transiti di qui e ci dia un passaggio, possiamo sempre farci le ossa e imparare alcune nozioni indispensabili leggendo la trilogia in cinque volumi di Douglas Adams (1952-2001), Guida galattica per gli autostoppisti. La serie, che è poi diventata anche radiofonica, televisiva, film e videogioco, ripete il titolo del primo volume, uscito nel 1979 e subito diventato oggetto di un culto che non mostra sintomi di cedimento, tanto che ad esso sono dedicati siti, club e tutti i parafernalia che attorno agli oggetti di culto proliferano, incluso l’equivalente del joyciano Bloomsday, il “Towel Day” che si celebra ogni 25 maggio, a cui si può partecipare indossando per tutto il giorno “la salvietta” (“Towel”, appunto) che gli dà il nome (si raccomanda anche il resto), l’unico aggeggio veramente indispensabile per chi viaggia per la galassia, meglio se recante la scritta “Niente panico”, che campeggia anche sulla Guida. Gli altri titoli sono Ristorante al termine dell’Universo (1980), La vita, l’universo e tutto quanto (1982), Addio, e grazie per tutto il pesce (1984) e Praticamente innocuo (1992), ora riuniti, assieme al racconto “Sicuro, sicurissimo, perfettamente sicuro” nel volume Guida galattica per gli autostoppisti. Il ciclo completo (traduzione di Laura Serra, Mondadori, Oscar absolute, 2016, p. 884, E. 16,50).
Scampare per un pelo alla demolizione della Terra per far luogo a un’autostrada spaziale, nemesi planetaria per tutte le superstrade e tangenziali che hanno spazzato via il paesaggio e le case di molti che abitavano lungo i tracciati progettati (come stava per capitare al protagonista del ciclo, Arthur Dent, poco prima che l’amico Ford Prefect, che lui ignorava essere un alieno, lo salvasse, portandolo con sé proprio sulla gigantesca astronave che stava per polverizzare la nostra, al momento, unica dimora), e poi viaggiare a tutte le velocità e seguendo tutte le rotte, calcolate e imprevedibili, grazie al motore a “propulsione di improbabilità infinita” (praticamente una definizione dei meccanismi narrativi ideali per libri come questi), consultando un piccolo volume elettronico con quasi due milioni di pagine come unica guida. La guida è in continuo, ma non sempre attendibile aggiornamento: per esempio la voce dedicata al pianeta Terra, opera di Ford Prefect, che constava in origine di decine di pagine, è stata ridotta, dopo i soliti numerosi passaggi redazionali, a due sole parole: praticamente innocuo (il titolo del quinto volume della trilogia). Inutili anche quelle dopo la distruzione del pianeta.
Quello in cui si trovano a viaggiare i protagonisti della saga è un universo di infiniti mondi in cui tutti, i tanti simil-umani e le innumerevoli altre forme di vita intelligente, grazie soprattutto al pesciolino babelfish che introdotto nel canale uditivo diventa un traduttore universale, riescono a intendersi, anche se non sempre a capirsi. Molti sono coloro che viaggiano e visitano i pianeti in incognito, specie quelli arretrati come il nostro, come accade per Ford Prefect che, venuto per aggiornarne la voce sulla Guida, ci resta imprigionato per 15 anni (non troppo a disagio peraltro), o in viaggio di piacere come il bicefalo Zaphod Beeblebrox, che diventerà il presidente della galassia; altri apertamente, dove le relazioni planetarie sono già in atto da tempi immemorabili, per commerciare, o per vacanze esotiche o ricerche mistiche, o per distruggere questo o quello, che è da sempre un’attività tra le preferite da tutte le specie aliene e no, come sanno anche i bambini della nostra che con essi condividono un sistema di valori piuttosto disinvolto.
L’alieno è un altro noi, più o meno, al quale ci si abitua abbastanza in fretta (come facciamo anche con l’alieno che noi stessi siamo), e gli altri pianeti hanno quasi tutti qualche tratto del nostro, a partire dai baracchini degli hot-dog e dei bar dove suona qualche band: magari quella di uno appena sceso da un’astronave rosa con le alette, che tutti chiamano il Re, e altri non è che Elvis, che si scopre non essere stato rapito, come vuole la leggenda, ma essersene andato di sua spontanea volontà. I re si stufano, è noto.
Colui che si trova senza volerlo impelagato in questi viaggi è l’ultimo uomo, più o meno come lo siamo tutti, quanto a noi stessi… Quello che se ne va, costretto o meno, è sempre l’ultimo. Una volta che è partito, gli altri spariscono, restano solo nella memoria, che a volte è amaro rimpianto e più spesso leggera nostalgia: una nostalgia che ha perso il suo oggetto, sparito per sempre in questo caso, o che forse sarà ritrovato in qualche universo parallelo, o in qualche angolo di questo, rifatto tale e quale per ovviare all’errore della sua demolizione, affidato da qualche specie superiore (come i due topolini bianchi che gli scienziati credevano fossero delle cavie, mentre il vero oggetto di studio erano loro e tutti gli umani…) a squadre di costruttori di pianeti, ingegneri, biologi e progettisti vari, di fiordi per esempio, che vengono risvegliati apposta dopo milioni di anni di ibernazione per mancanza di ordinazioni.



I viaggi sono costellati da inseguimenti, fughe, avventure, colpi di scena, che vedono susseguirsi come co-protagonisti e comparse i personaggi più strambi e disparati dall’“uomo che governa l’universo”, che vive, sfasato e un po’ hippie, in una baracca in riva al mare su un lontanissimo pianeta; a stolidi distruttori burocrati la cui arma più micidiale è la loro poesia, temutissima da tutta la galassia; a Worbagger, lo Sfanculatore errante, diventato immortale per sbaglio, che passa il suo tempo infinito a “insultare l’universo”, sbeffeggiando tutti i suoi abitanti secondo un rigoroso ordine alfabetico; a umanoidi dolcissimi e pacifici, che non appena escono dal loro isolamento si mettono a fare guerra ogni altra specie vivente con l’obiettivo di sterminarle tutte, restando dolcissimi tra di loro (come le SS che piangevano sentendo Beethoven e scrivevano lettere commoventi ai pargoli lontani); a popolazioni fanatiche del cricket (forse le peggiori) e via di questo passo.
Il tutto scandito da una raffica di idee talmente strampalate che la loro sfida alla coerenza mette capo a una coerenza sui generis, una coerenza caotica, altamente improbabile eppure che tiene e funziona benissimo anche dal punto di vista narrativo, che è quello che poi conta.
Da ogni pagina traspare la gioia sfrenata di inventare, di dare nomi a interi mondi, ai loro abitanti e oggetti e opere, di creare situazioni sorprendenti e divertentissime, con grande dispiegamento di tutte le strategie di delusione delle attese, spiazzamento, rovesciamento, estraniazione ecc., che però, se suscitano meraviglia e piacere, possono anche portare da una parte timore, ansia da spaesamento e perdita di riferimenti nel vedersi sparire, letteralmente nella Guida, la Terra sotto i piedi e con essa la certezza delle apparenze. Viceversa però, dallo spaesamento e dall’angoscia può anche derivare gioia, sorriso e persino riso dionisiaco, liberatorio, non appena si vede che è possibile stare in piedi senza Terra, o su un’altra che non si sospettava nemmeno (“Sì, è sicuramente il pianeta giusto” ripeté. “Il pianeta, giusto, l’universo sbagliato.”), e si impara a conoscere mondi nuovi in modi nuovi, estendibili anche al resto delle convenzioni, dei comportamenti e sentimenti in cui credevamo di essere avvolti e protetti, essendone al contempo imprigionati, una volta per tutte. Il ventaglio delle reazioni può andate da disorientamento e angoscia sempre pronta a riaffiorare (Arthur, in genere più stordito che acuto: abbastanza stupido insomma da poter assurgere a rappresentante legittimo di noi tutti – esclusi i lettori), a euforia esuberante e estrosa (Zaphod) o incline all’incazzatura ma capace anche di lasciar correre senza nessuna ombra di moralismo (Ford), e una propensione all’avventura smodata e insieme ragionevole, fifty fifty (Trillian, l’altra terrestre sopravvissuta, che ha seguito senza rimpianti Zaphod quando questi le ha offerto di viaggiare con lui negli spazi infiniti: poi tornerà in una versione meno accattivante nell’ultimo volume, novella Eva dell’improbabile nonché inconsapevole Adamo-Arthur, tramite uno dei campioni di seme da lui venduti alle diverse banche del seme della galassia per guadagnare qualche spicciolo e continuare i suoi viaggi). 




La comicità può anche rivestire un ruolo critico, a volte bonario, altre feroce, come quello, ricorrente, della tecnologia: porte e ascensori parlanti untuosi o riluttanti a fare il loro mestiere; un “rivoluzionario modello di fermacarte”; il “cacciavite dentato (che) ha bisogno di un cassetto buio e impolverato in cui restare per anni”; robot che hanno perso la bussola; un’astronave in ritardo di novecento anni … e soprattutto, uno dei personaggi più riusciti del ciclo, Marvin, il robottino CPV, “con caratteristiche di persona vera”, che serve Zaphod sulla Cuore d’oro, l’astronave che viaggia a velocità maggiore della luce da lui rubata per spassarsela in giro per l’universo – così almeno crede. Marvin ha un “cervello grande come un pianeta” ma è sempre depresso, perché sa e sa fare tutto mentre gli vengono richiesti solo servizi banali (più o meno quello che, democraticamente, chiede al cervello la maggior parte degli umani: lo faccio sempre anch’io…). Sa tutto e proprio la sua lucidità, il vedere sempre e comunque dove va a parare ogni cosa senza potersene dimenticare un istante, accentua la sua depressione paranoica, che si traduce in lagna perenne, con il solo effetto di scocciare tutti, esattamente come lui teme (perché l’imperativo dei robottini domestici, lo sanno anche i bambini, è di essere amati; non come noi). Il computer di bordo della Cuore d’oro, invece, è sempre pimpante e allegrissimo, ma con l’identico risultato tuttavia di rendersi altrettanto, se non più fastidioso ancora. La tecnologia non ha tatto. Marvin sa tutto, tranne una cosa, cioè dimenticare, passar sopra e ridere, che è esattamente quello che a volte riescono invece a fare quelli che sanno molto meno, ma qualcosa comunque sì; e quello che probabilmente farebbe sempre uno che davvero avesse capito tutto (come insegnano alcuni rari dei: rivelazione a cui anche Marvin dopo milioni di anni arriverà quando avrà letto la parola definitiva di dio, che non svelerò – il bello è la ricerca, no? –, così che potrà spegnersi sollevato, se non contento). Non so se noi lo abbiamo capito, o se ce lo ricordiamo sempre, ma sono certo che almeno il sospetto ci verrà, ogni volta che ridiamo leggendo la Guida. Si spera, almeno.
È difficile dire se il ciclo della Guida, proprio in quanto comico, possa essere definito un’opera di fantascienza. Ci può essere una fantascienza comica? Ironica magari sì, almeno in parte, con qualche spruzzo di comicità pure; paradossale e inattendibile pure, per definizione; ma comica? Strutturalmente comica, intendo, comica nel suo principio e motore? Non so; però una cosa è certa: se prima non c’era mai stata, con la Guida ha preso ad esserci. Ci sono stati sviluppi? Lo ignoro. Ma ne dubito, anche se alcuni prodotti hollywoodiani recenti, sulla falsariga di fumetti e cartoni animati, sembrano aver tentato questa strada, con risultati alterni, a volte gradevoli ma mai di più. La Guida, mi pare, inventa un genere di cui essa stessa è la cattedrale e insieme la pietra tombale, e questo basta a dirne il valore.

L’assenza di vincoli e riferimenti, se toglie il respiro e suscita angoscia, può aprire anche lo spazio alle ipotesi più inverosimili, a storie e tempi alternativi, avventure inaudite e paradossi, a una contrologica comica insomma, che è poi quella su cui è costruito il ciclo della Guida. Dove certo l’angoscia in fondo persiste (molto in fondo) per affiorare solo a tratti, rigettata e messa in sordina ma mai del tutto eliminata dal comico, che ad ogni buon conto resta una tecnica di sviamento e attenuazione raccomandabilissima, se non di superamento definitivo, auspicabile quanto impossibile. (Comunque anche l’angoscia finisce prima o poi, tranquilli, non è il caso di darle troppo peso.)
Il comico, da parte sua, non è così facile come sembra, i meccanismi sono fragili, l’equilibrio delicato e sempre a rischio di spezzarsi e di trasformarsi in banalità troppo legata alla contingenza o, alla meno peggio, in spiritosaggine, che tuttavia ha la deplorevole tendenza a irrancidirsi. In Adams però questo avviene di rado, ciò che la dice lunga sulla qualità della sua invenzione, anche linguistica. Ma quando capita, specie nel terzo e nel quarto volume, dopo che i dialoghi e lo sminuzzamento delle azioni e delle intenzioni sono stati tirati in lungo con il solo scopo di esasperarti e di aumentare la suspense, o di arrivare alla fine del capitolo o della puntata radiofonica, invece del climax o del colpo di scena non c’è nessun premio (non dico consolazione o altri benefici minori, anche quello, a mio parere maggiore invece, di un’apertura alla conoscenza), c’è solo il flop della delusione e della noia, superata solo grazie al credito accumulato in precedenza dall’autore, che ha reso il lettore benevolo. 

Nel quarto volume, Addio, e grazie per tutto il pesce (a parte il titolo, bellissimo come tutti gli altri, e particolarmente misterioso, finché non si scopre che è l’ultimo messaggio lasciato dai delfini prima di abbandonare il pianeta per sfuggire alla sua distruzione), a peggiorare le cose entra in ballo anche una storia d’amore, per quanto stralunata. Adams sembra indeciso se cantare l’amore o parodiare il peraltro non molto vario spettro delle sue rappresentazioni, a dispetto del loro infinito numero, o forse proprio per questo, ma poi finisce per parlarne in entrambi i modi contemporaneamente, col prevedibile effetto di irritare gli animi poco propensi al lirismo (tra i quali teoricamente sarebbe da annoverarsi anche lui, se non fosse che il rifiuto sistematico del lirismo tradisce una proporzionale propensione; a meno che in quel periodo fosse innamorato, che comunque non è una scusa – semmai un’aggravante).
È il rischio di tutti i libri e i film comici, quando non sorretti da un robusto editing (leggasi: una brutale castrazione) e da un ritmo narrativo, come nella Guida, serrato e ricco di sorprese stupefacenti che sembrano partire per tutte le tangenti, inclusa quella che porta al ristorante da cui si può assistere in diretta alla spettacolare fine dell’universo, e invece non fa che parlarci di noi, della Terra, della vita e tutto quanto. 
 
Arthur Dent, il protagonista di queste peregrinazioni senza trascendenza (Dante di cui Ford Prefect è la guida-Virgilio), è il principale tramite di questo discorso sottotraccia, che attraversa comunque, di rovescio o di traverso, tutte le vicende e le avventure. Lui vi è costretto dal caso, controvoglia, sorretto da nessun altro scopo, si direbbe, al di fuori della mera sopravvivenza, mentre Ford le abbraccia per “lavoro” e perché gli piace l’avventura, e Zaphod perché… boh, non lo sa nemmeno lui, in quanto ha bloccato l’accesso a una parte di uno dei suoi due cervelli proprio per non saperlo (o per qualche altro motivo che si scoprirà in corso d’opera).
L’erranza che sembra senza meta si scopre poi guidata da un disegno, o da un destino, nascosto; la peregrinazione diventa un pellegrinaggio; la perdita di orientamento e di luogo, una quête: tutti i viaggi finiscono fatalmente per diventarla, metafisica o d’accatto, poco importa. La sostanza è quella. La Guida, laica da cima a fondo, non sfugge alla regola. 

Quête di risposte che magari arrivano ma restano incomprensibili; di frasi finali che non spiegano niente; di un’altra Terra da abitare; di una chiave a forma di un paletto da cricket distrutto e disperso nella galassia che libererebbe un pianeta con conseguenze apocalittiche per l’universo tutto; persino di un amore…; ma sempre in chiave comica. Perché l’oggetto di queste ricerche può anche avere una sembianza o un retrogusto metafisici, ma la narrazione si mantiene radicalmente laica. L’unica sacralità che Adams riconoscerà, sarà quella della vita, destinata però a restare un mistero.
Cerchiamo risposte definitive e non le troviamo, e se anche per caso ci capitasse di conoscere l’ultimissima, quella decisiva, che come tutti sanno è “42”, non sapremmo formulare l’esatta domanda a cui essa risponde. Per arrivare a conoscerla c’è voluto un immenso computer e milioni di anni di elaborazioni; per la domanda ne sono stati necessari molti di più e un elaboratore ancora più complesso, “che fu chiamato Terra, (…) talmente immenso che spesso veniva scambiato per un pianeta”, che però, ahimè sarà distrutto per errore qualche minuto prima di portare a termine il suo compito (poi, per ironia della sorte si saprà che la superstrada era stata deviata ma che i distruttori o non erano stati informati in tempo o avevano fatto finta di non saperlo, perché tanto erano già lì e non se ne sarebbero andati senza finire il lavoro: la deontologia della distruzione non contempla eccezioni). E anche il Messaggio Finale di Dio al Creato, che campeggia sulla cresta delle Montagne di Quentulus Quazgar su un pianeta remoto a lettere fiammeggianti (come Hollywood, più o meno), sarà forse consolatorio (o suscettibile di irritare ancora più della sua assenza…), ma non cambierà niente, dato che niente deve cambiare, e dio stesso non è poi così potente come si crede ecc…

“Un giorno il Vecchio Sozzurlo aveva detto che a volte, se si riceve una risposta, si può anche eliminare la domanda.”
C’è questo errore fondamentale di cui spesso non si tiene conto: non è detto che la risposta migliore a una domanda precisa debba per forza essere diretta; e viceversa non è detto che la risposta giusta debba arrivare solo a una domanda precisa; l’una e l’altra possono essere declinate in tanti modi e forme, in gran parte indiretti; e infine, soprattutto, non è affatto detto che una risposta e una domanda giuste, magari anche dirette, esauriscano e mettano a tacere tutto il brulichio di rispettive domande e risposte indirette o diversamente formulate che già in esse, non fuori o di lato o sopra o sotto, convivono. E allora: quali sono le domande per “42”? E quante risposte “42” è?


“Qualcuno ha voglia di bere qualcosa con me?” chiese.
“Guarda che è un canale d’emergenza, bello” gracchiò una voce dall’altra parte della galassia.




14/12/18

Un foglio caduto dalla tasca del signore che saluta alzando l’avambraccio di scatto

Chi fosse interessato a conoscere l'antefatto, lo può trovare qui.


Ieri mattina quando ho incontrato l’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto stava maneggiando per prendere una sigaretta direttamente dal pacchetto senza toglierlo dalla tasca. Alla fine c’è riuscito, proprio mentre ero giunto quasi alla sua altezza, tanto che ha rimediato al ritardo del saluto estraendo la mano in tutta fretta e alzando il braccio con uno scatto ancora più rapido e secco del solito con la sigaretta spenta tra le dita rigide, quasi stritolandola, ma nel farlo qualcosa gli è caduto di tasca senza che lui se ne accorgesse. Sorpreso dalla manovra, ho risposto al suo saluto con un buongiorno più sonoro del solito e solo un attimo più tardi mi sono accorto del pezzo di carta che svolazzava verso la polvere dello sterrato. Nel frattempo lui mi aveva già superato e io ho evitato di farglielo notare, con la scusa di non interrompere la sua andatura veloce e meccanica per qualcosa che certo non aveva importanza, un fazzoletto sporco o cose del genere (a volte mi tratto da anima bella), ma di fatto già pensando di lasciarlo allontanare fino a dopo la prossima curva per tornare io a raccoglierlo e vedere cos’era, nella speranza inconfessata neppure a me stesso di scoprire qualcosa su di lui. (E’ quando faccio il cinico che cerca di illudere il se stesso ingenuo, che sono davvero un’anima bella fino al midollo: il midollo dell’anima). L’idea, mentre mi chinavo a raccoglierlo e lo mettevo in tasca con un gesto furtivo che ora mi fa un po’ ridere (il 20 %) e per il resto mi imbarazza profondamente, era che avrei potuto restituirlo oggi o domani, o lasciarlo dopo avergli dato un’occhiata sul ciglio della strada dove era caduto.
Si trattava di un foglio a quadretti piegato in quattro con un margine un po’ slabbrato come se fosse stato strappato da un quaderno, riempito di sui due lati da una scrittura minuta e piuttosto fitta, che non rispetta le righe ma tende a fare una curva verso l’alto dalla metà in poi come se chi scriveva fosse in una postura scomoda, di lato, o il piano di appoggio fosse irregolare, ma tutto sommato leggibile, a parte alcuni brevi passaggi dove l’inchiostro non ha fatto bene presa o è stato sciolto in qualche macchia, di unto o altra materia che non intendo indagare.
C’è scritto questo:

C’è quest’uomo anziano, con gli occhiali e un cappellaccio in testa d’estate e d’inverso (diversi per materiale e colore, ma simili) che incrocio spesso sulla via sterrata lungo il naviglio o nel tratto asfaltato successivo, verso Groppello: io che salgo, lui che scende, mai il contrario. Cammina con passo spedito, a volte con gli auricolari o che maneggia il cellulare, altre con un libro in mano, che si affretta a chiudere quando mi vede da lontano, mettendolo in tasca o tenendolo nella sinistra quasi incollata alla coscia, come se questo bastasse a nasconderlo. Altre invece è così assorbito nella lettura che mi vede solo all’ultimo momento, come capita anche a me, che in questi casi lo saluto alzando di scatto l’avambraccio senza profferire sillaba, al che di solito lui risponde con un cenno della testa o, più raramente, con un buongiorno. Non è che io saluti tutti in questo modo, ma mi è capitato di farlo con lui un paio delle prime volte che ci siamo incrociati, forse sovrappensiero o per qualche maneggio in cui ero impegnato, e poi ho ripetuto il gesto ogni volta perché mi è parso di capire, da un lampo strano nei suoi occhi, che lo gradisse. Vai a capire perché. Forse gli piace questo saluto veloce e silenzioso perché non disturba la sua lettura, quella che continua nella sua mente anche a libro momentaneamente chiuso, o i suoi pensieri. Mi guarda quasi di sfuggita, come se mi vedesse sui margini del suo mondo pronti a inghiottirmi e dimenticarmi in un attimo, e saluta anche lui in modo veloce per tornare appena può alle sue occupazioni. E’ uno che immagina cose, temo… Temo che gli piaccia.
Se non legge, cammina con la testa china di chi esplora il terreno, più che dell’uomo depresso. Magari lo è pure, ma chi può dirlo? Oppure basta pensare per essere depressi? Non so. Allora lui è insieme depresso e attento, depresso e svagato, depresso e curioso, perché qualche volta che l’ho osservato in questi frangenti, mentre era intento, mi è parso che alzasse e muovesse la testa a guardare di là dal canale alla sua sinistra, verso gli alberi e le ville dell’alta riva, o giù verso la boscaglia e, sotto, il fiume alla sua destra, o in altro verso il cielo, le nubi, la luna, nei mattini che è visibile a ovest.
E’ in genere ben vestito, non certo con eleganza da occasioni ufficiali ma sempre un po’ al di sopra di quello che ci si aspetterebbe da uno che va a passeggio, mai in tenuta sportiva comunque, a parte i bermuda nelle giornate più calde, di discreta qualità comunque e accompagnati da camiciole di lino o da belle magliette polo dai colori ben combinati. E’ sempre ben rasato, con i capelli più bianchi che grigi tagliati corti, da quel che ho notato le rare volte che era senza cappello, e, come si suol dire, dimostra un po’ meno degli anni che ha o dovrebbe avere, che sono, o dovrebbero essere, un po’ di più di quelli che dimostra. Quanti di preciso non saprei. Sopra i sessanta ad ogni buon conto. Nonostante questo decoro esteriore che di solito è caratteristico di uomini che abitano con una donna che li tiene sotto controllo, o per una lunga consuetudine di vita, per dovere professionale (ha l’aria di essere un impiegato o piccolo funzionario in pensione), mi dà l’idea di essere un uomo solo. Totalmente, irrimediabilmente solo; e non tanto perché non l’ho mai visto in compagnia (qualche volta fermo a scambiare qualche breve battuta con qualcuno sì, però), ma per la sua postura complessiva, per come si muove: non nel modo spontaneo, funzionale, e quindi bello, o quasi, di chi si muove come è opportuno farlo in relazione a ciò che sta facendo, ma come per dare l’impressione, anche quando non c’è in giro nessuno che lo veda, o che lui veda che lo sta vedendo, di essere solido, felice (o press’a poco), sicuro e soddisfatto di sé.
Anch’io passeggio sempre da solo, ma lo faccio per respirare, per prendere una pausa da tutta la compagnia che mi sta addosso giorno e notte, che apprezzo e anzi amo tantissimo, ma che rischia di togliermi quel po’ di autonomia a cui mi sono assuefatto fin dalla giovinezza. Lui invece credo che non abbia di questi bisogni. L’unica pausa a cui forse ambirebbe è quella da se stesso, di cui però sono certo che va orgoglioso. O che almeno sbandiera in tal senso, tanto che alla lunga probabilmente se ne è convinto lui stesso. Interrogato direbbe che meno gente ha attorno, meglio sta; che stare solo gli piace. Con tutto che, quando l’ho visto parlare, mi è sembrato gradevole e gentile. Ma a sembrarlo sono capaci tutti. Meglio che non fare nemmeno finta, in ogni caso. Un amico che una volta gli ha chiesto come mai camminasse sempre a capo chino, anche quando non leggeva, che peso gravasse sulle spalle o nella testa, ha risposto: “Niente, sto solo controllando la strada per non inciampare. Guardo i sassi, gli esseri viventi nell’erba, nell’acqua o sui muriccioli. Ho le spalle un po’ curve sin da piccolo. Me lo diceva sempre mio papà (che da vecchio era diventato quasi gobbo)...” 
Sarà, ma io qualche sospetto lo nutro. Per esem-”.

La scrittura sul verso del foglio finisce con questo mozzicone di parole. Forse c’è un altro foglio su cui continua, forse il signore che saluta alzando l’avambraccio di scatto si è stancato di scrivere o ha perso interesse per l’argomento. Non mi sento di biasimarlo.
“Proprio così”, ho pensato di scrivere io nella riga sotto, di quadretti tagliati a metà, con la mia scrittura altrettanto minuta, dopo avere a fatica decifrato questo presunto, inaffidabilissimo mio ritratto, perché è di me che si tratta, non c'è dubbio. Ma poi ho deciso di limitarmi a riportare il foglio dove era caduto, in modo che fosse visibile ma non esibito, come è consuetudine con le chiavi o altri oggetti trovati per terra, che vengono appesi in bella vista a un ramo o appoggiati su un paracarro o a una colonnina del guardrail. Ci sono andato un po’ più presto del solito per non incontrarlo, poi ho fatto un lungo giro su un percorso diverso e quando sono passato di nuovo di lì il foglio c’era più. Forse l’ha preso lui; forse un altro dei rari passanti su quello sterrato; forse è volato via. Forse non è vero niente. A parte il vago senso di amarezza che mi sfarfalla tra i lobi frontali e l’esofago, che potrebbe però derivare da tutt’altro e non mi abbandona.




06/12/18

Una figura quasi di schiena nel "Martirio di San Matteo" del Caravaggio



Distratto da tutto il resto della scena, non avevo mai notato come fossero vaste, e imponenti, la schiena e le natiche della figura in primo piano in basso a destra del Martirio di san Matteo di San Luigi Dei Francesi. Così vicina a chi arriva davanti alla cappella Contarelli che questi manco la vede, attratto anche dalla famosissima Vocazione e dal bellissimo Evangelista che scrive ispirato dall’Angelo… a cui va l’attenzione. Per vedere meglio la prima, il visitatore si sposta a destra e lì resta anche per L’ispirazione, o San Matteo e l'angelo se si preferisce (lo spazio è poco, questa resta comunque pressoché frontale da qualsiasi angolo la si guardi), salvo poi vedere non benissimo il Martirio, anche perché nel frattempo è arrivata gente e non si riesce a spostarsi: senza contare che la macchinetta dove mettere il soldo per qualche altro minuto di luce si trova proprio lì accanto e se non ci pensa nessuno bisogna darle sempre altro cibo… E così lo vede di sguincio, tanto più che lo sguardo corre subito verso il centro dove c’è il fulcro della scena, l’assassinio, e poi va sopra, verso l’angelo che porge il ramo di palma,  – che richiama, ma non replica, quello dell’Ispirazione, per quanto, al di là delle numerosissime differenze, un legame ci sia, per la doppia testimonianza della scrittura e del martirio: tutto il resto sembra diverso, persino opposto, a cominciare dalla postura del corpo del santo, e che nell’ispirazione l’angelo sbuca dalla nube di un candido, avvolgente panneggio, e guarda negli occhi il santo e sembra sillabargli il testo, dettarlo, mentre nel Martiro il suo volto si vede poco, la nube è quasi tempestosa, scura, agitata e il suo corpo a capofitto all’ingiù, con le gambe scomposte in alto e tutta la tensione nel braccio che porge la palma (e tanto altro ci sarebbe da dire, ma non qui, qui mi preme altro… per quanto come si fa a separare: a separare i corpi, gli abiti, le posture, i movimenti e gli sguardi? … lascio agli studiosi, che grazie al cielo che ci sono) – e poi alla folla che assiste, al cui interno riconosce l’autoritratto del pittore, il giovane con il cappello piumato della vocazione e di tanti altri quadri con giocatori e zingare e ruffiane, per spostarsi poi al bambino che sta per fuggire gridando inorridito senza però riuscire a distogliere lo sguardo dalla scena della violenza, feroce come altre del pittore mio quasi compaesano, con lo stesso cognome di uno dei miei più cari amici di gioventù, e tornare infine, anche noi catturati dalla ferocia, al centro del quadro, al fulgore vitale dell’omicida e al santo riverso a terra, con il braccio alzato, tenuto dalla presa fortissima del giovane: un vecchio che basterebbe ancora meno a tener fermo… alzato, il braccio, come a ripararsi, ma anche a ricevere il ramo dall’angelo e a richiamare, assieme all’altro, le braccia di Cristo appeso alla croce, a cui tutto il corpo fa eco: un’eco orizzontale, perché come Pietro è appeso all’ingiù, perché persino i santi più santi, e anzi loro più di tutti, non sono degni di ripetere l’unico sacrificio che conta, quello del Salvatore…
E invece lì, a chiudere il percorso della lettura, in basso a destra della terza pagina, a sigillare la visione con un punto luminosissimo e cieco, cieco per troppa esposizione, dove lo sguardo è già pronto a tornare indietro a commuoversi (a soffrire e bearsi) ai fuochi delle tre scene, o, sazio, scivola via, ecco la carne bianca della figura di schiena, giovane, palpitate, viva.

(Anche se ancora sotto, per un bel tratto lungo il bordo, c’è quel panno che proprio verso l’angolo all’estremità si alza, come irrigidito, si erige, disegnando il contorno di un fallo, o il buio di una vagina, verrebbe da pensare a chi fosse maligno, prevenuto, sempre pronto a vedere quello che non c’è, a proiettare i propri fantasmi, le proprie frustrazioni, un altro che non fossi io, una di quelle bieche, miserrime figure che il sottoscritto rifiuta di prendere in considerazione e osserva disgustato, mentre si voltano, come a ridere soli con se stessi, prima di andarsene chissà dove, senza vergogna.) 


30/11/18

Sulla Trilogia dello Sprawl, di William Gibson (2017)


A metà degli anni ottanta la fantascienza ha subito uno scossone che le ha cambiato radicalmente i connotati, molto più di quanto non avesse fatto il primo vero movimento di rinnovamento, la cosiddetta new wave, che era stato iniziato negli anni ’60 da alcuni autori inglesi (M. Moorcock, J. Merril, J.G. Ballard, T. Dish, a cui vanno aggiunti americani come, tra gli altri, H. Ellison e S. Delany, di cui Urania, nella collana Millemondi, n. 79, ha ripubblicato due romanzi della sua geniale produzione giovanile Einstein perduto e Nova) che avevano cercato di azzerare le distanze dalla letteratura mainstream a livello tematico e soprattutto stilistico, ispirandosi alle grandi opere del modernismo. A provocarlo sono stati i libri di alcuni autori quasi tutti nati a cavallo degli anni ‘40-‘50, poi riuniti sotto l’etichetta di Cyberpunk, che comprendeva soprattutto William Gibson e Bruce Sterling, che ne fu anche il principale teorico ancora oggi sulla breccia, e pochi altri, tra i quali Pat Cadigan, Rudy Rucker, Michael Swanwick, Greg Bear… I romanzi che più hanno segnato questa stagione sono stati quelli di Gibson, soprattutto Neuromante, del 1984, vero e proprio incunabolo del movimento, e i successivi Giù nel cyberspazio, del 1986, e Monna Lisa cyberpunk, del 1988. Tutti e tre sono stati ora ristampati in un unico volume degli Oscar Mondadori con il titolo ormai noto agli appassionati di Trilogia dello Sprawl (880 p, 16 Euro), che offre un’ottima occasione di conoscere i libri fondatori di quel movimento a chi non li aveva letti a suo tempo e agli altri di verificare la loro tenuta a trent’anni dalla loro dirompente apparizione.

Cosa può trovare in questo volumone anche chi non è necessariamente un cultore del genere e di tecnologia? È soltanto storico lo sguardo da rivolgere a questa fase del lavoro di Gibson, che peraltro non si è mai adattato alla scrittura di genere? Sono solo le prefigurazioni del mondo attuale e di alcuni scenari di un futuro molto prossimo che oggi ci appaiono piuttosto plausibili? Ovvero è il piacere di ritrovare ai loro esordi ambienti, tipologie di personaggi e storie che poi sono diventate moneta corrente di certa letteratura e filmografia?
Bruce Sterling, provocatoriamente, a proposito del Cyberpunk parlava dell’acquisizione sì di tecniche narrative più raffinate e di un’attenzione alla qualità della scrittura molto più accurata che nella fantascienza precedente, ma sempre “riaffermando il primato del contenuto sullo stile” (cit. in A. Caronia e D. Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del cyberpunk, Baldini&Castoldi, 1997, p. 27), cioè quel “primato delle idee” che è sempre stata forse la caratteristica fondamentale della migliore fantascienza; ma il lettore di oggi, quanto più si allontana dallo shock della novità e della visionarietà di 30 anni fa, immediatamente avvertite da critici e lettori che infatti, cosa mai successa prima,  assegnarono a Neuromante la vittoria nei tre principali premi del settore (Hugo, Nebula e Dick), ora che possono risultare normalizzate è a come viene raccontata e costruita la storia che non può che guardare e eventualmente appassionarsi.
Non è quindi il giochetto della preveggenza che conviene seguire; tanto più che una previsione realizzata fa presto a diventare scontata, mentre invece quelli che allo stato attuale delle cose appaiono errori di previsione, possono rivelarsi a breve non solo pure fantasie o strade non imboccate, ma linee laterali, diramazioni che sembravano sbarrate o lasciate interrotte in base a visioni e necessità che la nostra precedente visuale parziale e confusa aveva trascurato o considerato di poco o nessun conto, o addirittura non visto e nemmeno immaginato: cioè visioni di verità, ipotesi non inverosimili, di cui sarebbe forse opportuno tenere conto per domani, non solo o non tanto dal punto di vista tecnologico o socio-politico, quanto da quello della condizione umana, della vita che sembra, e in fondo resta, invariata, e solo molto lentamente semmai modificabile nelle sue caratteristiche fondamentali, – prima tra tutte il nostro destino di morte, per quanto rinviato a grande, ma non infinita distanza. E non a caso il desiderio di vincere la morte si ritrova in tutta la trilogia.

Gli scenari di questi romanzi sono quelli di un futuro non molto lontano, segnato da una guerra recente di cui però non ci viene detto quasi nulla, salvo accenni a un’atomica su Bonn e a operazioni in Siberia e in regioni circoscritte, e che tuttavia non ha intaccato lo sviluppo di una civiltà ipertecnologica dominata da potentissime organizzazioni economiche e criminali che spesso tendono a sovrapporsi. Le città si sono trasformate in megalopoli come il cosiddetto Sprawl, asse urbano senza soluzione di continuità che va da Boston a Atlanta, o come la grande Tokio, con suburre degradate, come Chiba dove inizia Neuromante, formicolanti di attività illegali ma anche all’avanguardia per tecnologie e creatività, e dove la natura è avvelenata, quando non del tutto assente. Sono luoghi che si avvicinano più alla Los Angeles di Blade Runner che alle luminose città futuribili dei sogni degli urbanisti (e degli incubi degli abitanti), in cui anche i progetti ecologicamente più sostenibili, come le utopistiche Arcologie presenti in Giù nel cyberspazio, per non parlare degli immensi quartieri popolari dai quali raramente gli abitanti escono se non per lavorare o sfuggire alla polizia o a nemici o creditori, degenerano rapidamente a sedi sovrappopolate e caotiche di attività che non corrispondono mai a quelle per cui erano stati progettati. I distretti industriali sono abbandonati, le fabbriche, svuotate da tutto ciò che era riutilizzabile, ridotte a scheletri e solo in parte occupate da emarginati o da figure borderline, mentre le élites vivono in quartieri esclusivi e blindati, o addirittura in luoghi separati nello spazio orbitale, come Villa Straylight, nella immensa stazione di Freeside, creata e dominata dai Tessier-Ashpool, primi tra i grandi monopolisti della trilogia di Gibson.
Ciò che più caratterizza questi mondi sembra essere la confusione, la caduta dei confini, fisici e sociali, di quelli tra i generi e i ruoli, tra le percezioni e le allucinazioni, il reale e l’immaginario, gli spazi pubblici e quelli privati, dove i valori morali sono, quando non cancellati, sospesi o profondamente modificati, e l’ordine sociale è provvisorio e relativo solo a quello che possono mantenere organismi privati, cartelli, delinquenza organizzata, non certo gli stati nazionali o gli organismi sovranazionali, che sono parvenze sempre più evanescenti, strumenti in mano a poteri ben più solidi.
È contro questi poteri che lottano o cercano di sfangarla i precari cow-boy della matrice protagonisti della Trilogia, hacker del cyberspazio che come cavalieri d’antan si aggirano nella loro foresta incantata, insieme a nuovi mostri e vecchi dei, tra una folla eterogenea di persone che si sono o sono state spinte ai limiti (limiti di qualsiasi tipo), e spesso li hanno oltrepassati, e dove le persone comuni non hanno spazio e ruolo, se non come produttrici-consumatrici di merci e spettacoli.
Sono luoghi in cui la tecnologia più futuribile convive e si incrocia senza problemi con forze arcaiche; dove gli spazi incorporei della matrice sono percorsi e dominati da intelligenze artificiali che tendono a rendersi in qualche modo autonome e a combinarsi tra di loro, da avatar di ogni genere, da hacker che aggirano i servizi di controllo delle corporazioni grandi e piccole decriptando le difese cifrate che possono anche minacciare la loro stessa vita fisica e mentale, dal momento che la connessione è spesso innestata a livello cerebrale, e persino da divinità animistiche ancestrali, come quelle del Voodoo che troviamo in Giù nel cyberspazio; dove coloro che più sembrano muoversi a proprio agio sono più strumenti agiti che eroi agenti, intermediari squassati (e eccitati) dalle forze che essi mettono in contatto o dalle realtà virtuali a cui danno vita. Non personaggi a tutto tondo, ma figure si potrebbe dire scontornate, con tratti che acquistano rilevanza a seconda delle situazioni contingenti, e che non arrivano a possedere un’identità marcata o uno spessore che peraltro in questi contesti sarebbero più di ostacolo che d’aiuto; corpi che vorrebbero dimenticarsi, proiettati nella dimensione fuori dal tempo della matrice, e che invece sono sempre rinviati dolorosamente a se stessi, e solo di rado recuperati nella loro complessità e materialità carnale, mentre a volte spariscono davvero dentro la matrice o in costrutti immagazzinati in una cartuccia rom che di essi conservano solo ricordi e conoscenze, non più rinnovabili in quanto il loro fastidioso “supporto” è sparito, morto. Come avviene, per esempio, per l’hacker Flatline, che immesso nella rete continua a funzionare e a dialogare con Case, protagonista di Neuromante, risultando decisivo per lo svolgimento e la buona riuscita delle sue avventure. Una possibilità tra le altre di cercare di accedere a una forma di immortalità. Se alcuni infatti inseguono l’immortalità, o un prolungamento indefinito della vita mediante la sostituzione del corpo originale con cloni o organi indefinitamente rinnovati (come già in Philip Dick, ma poi anche nell’Houellebecq di La possibilità di un’isola); a volte si tenta di sfuggire alla morte anche a costo di disincarnarsi, o trasferendosi nella matrice con l’intenzione di non tornarne più, come Bobby in Monna Lisa cyberpunk, o appunto tramutando tutti i dati della personalità – mente, esperienze e sensazioni – in software immesso nel cyberspazio o in hardware o in corpi robotici come avviene nello splendido romanzo Diaspora di Greg Egan, del 1997 (trad. it. Urania, 2003, n. 1460), la cui azione, portando al limite estremo questa ipotesi come si conviene nella fantascienza più radicale, si estende, unico caso a mia lacunosissima conoscenza, lungo rotte infinite per milioni e milioni di anni.


Nel momento e nel luogo in cui questi cow-boy più si sentono vivi, cioè quando sono proiettati nel cyberspazio, meno vivono e più sono indifesi nel mondo “reale”, nel quale a volte hanno bisogno di essere accuditi e protetti, e che non mancherà mai di far valere i suoi diritti. Viceversa, chi a questo mondo è ancorato, con i suoi bisogni, la sua routine, gli imperativi di una sopravvivenza fragile e incerta, o sembra essere, lui davvero, una larva o uno schiavo, magari soddisfatto, del lavoro, della routine e della mercificazione che tutto pervade; o non vede l’ora di uscirne con qualche droga sintetica o immaginaria, come i simstim, ambienti olografici di realtà virtuale, che hanno un loro straordinario antecedente nel mondo di Perky Pat delle Tre stimmate di Palmer Eldritch di P.K. Dick (Fanucci, 2003), che forniscono, a pagamento, vite surrogate ma potenziate, nelle quali i desideri e le aspirazioni esistenziali e materiali trovano una loro appagante realizzazione: come la tv e i giornali di gossip, ma molto meglio. Come se, da ogni lato, non si potesse vivere senza appendici, senza protesi, innesti o dipendenze di qualche genere. Più o meno quello che accade anche oggi, di nuovo.

E infatti quello che molti nei libri di Gibson hanno letto come preveggenza può essere visto come una specie di realismo mascherato, cioè la capacità di leggere il presente attraverso la lente di un futuro non troppo distante e in fondo abbastanza simile al nostro presente, a dispetto di alcune vistose differenze. Lui stesso aveva già detto in un’intervista a Larry McCaffery del 1986: “il mio scopo non è tanto di fornire previsioni specifiche o dei giudizi, quanto piuttosto di trovare un contesto narrativo appropriato in cui esaminare le potenzialità multiformi delle tecnologie”.

Le storie, sul modello dell’hard boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, sono basate sull’azione, e a volte richiamano anche il western, con cavalcate, cattivi potentissimi, donne toste o deboli da salvare (ma spesso in qualche modo ambigue, anche se non mancano eroine in qualche modo innocenti come la Monna Lisa del romanzo omonimo, che richiama ironicamente – a meno che a metterci l’ironia non sia solo io – la puttanella insieme smaliziata, drogata, cinica, ma anche candida di certa vecchia narrativa; o Molly, tostissima guardia del corpo con gli occhiali a specchio-telecamere innestati direttamente nelle orbite e altri optional come artigli retrattili, che ritroviamo in altri testi di Gibson, e poi in molti film recenti; o Kumiko, la giapponesina figlia di un capo della Yakuza di Monna Lisa). E non a caso i protagonisti (Case in Neuromante, il Conte Zero di Giù nel cyberspazio, che diventa Bobby in Monna Lisa) sono chiamati cow-boy del cyberspazio, anche se sono ben lungi dall’assomigliare ai classici eroi hollywoodiani, bensì, secondo una differente tradizione, per non dire uno stereotipo, anch’essa tipicamente americana, piccoli truffatori del web, perdenti, sbandati, non inquadrati, drogati, ribelli, che trasgrediscono ma senza nessuna dichiarata connotazione sociale o politica, solo per poter vivere, o sopravvivere, romantici (“Neuromantic”, oltre che richiamare una -manzia neurale, in inglese suona anche come “new romantic”), emarginati anche per scelta ma comunque dotati degli strumenti per sopravvivere nel mondo ipertecnologico, e aiutati laddove ne sono carenti (soprattutto perché ingenui o meno pronti ad affrontare la realtà esterna e i suoi intrighi) da sorprendenti aggiornamenti dei classici aiutanti magici.

Se ciò che mette in moto l’azione sembra una forma di ribellione o una ricerca di libertà e autonomia prevalentemente individuale, e individualistica (il Cyberpunk, afferma a più riprese Sterling, nasce dall’opposizione, alla fantascienza tradizionale e alla società, come indica il riferimento al movimento punk), i finali sono solo apparentemente positivi, e comunque solo labilmente consolatori. Un contentino non si nega a nessuno.
I cambiamenti che vi si registrano e che di primo acchito possono sembrare radicali, come l’obsolescenza e la caduta di certe forme di potere (vedi il finale di Neuromante), le sconfitte dei cattivi del momento (multinazionali, monopoli, bieco multimiliardario ubiquo nelle sue proiezioni ma di fatto immerso in vasche nutritive in attesa di trovare il modo di diventare immortale…), altro non sono che ridistribuzioni e metamorfosi, ma non dissoluzione e scomparsa, di quelle forme che, se cambiano di mano e aggiustano alcune caratteristiche, ne escono anzi rafforzate. Non è il potere che cambia, è la libertà che è costretta a cercare sempre nuove forme e strade da percorrere, vie di fuga sempre più risicate e riservate solo a comunità ristrette e particolarmente fluide e instabili, non certo per la massa o per quello che una volta veniva chiamato il popolo (quell’indeterminato insieme immaginario che i nuovi simulacri di leader usano ora chiamare “la gente”).


Gibson non aveva il pc quando ha scritto Neuromante e non era neppure molto aggiornato sulla tecnologia e sui linguaggi e sistemi informatici, e se questo gli ha favorito una maggiore libertà di immaginazione, quella che deriva come beneficio secondario dell’ignoranza (e dal talento, certo), dall’altro ha spostato certe sue soluzioni narrative più sul lato di quello che oggi ci appaiono, ancor più chiaramente che in passato, dei cliché per certe peripezie e le loro conclusioni. C’è da dubitare che l’azione individuale o di un gruppo ristrettissimo sarebbe altrettanto efficace e devastante oggi, come in passato del resto (a parte nei romanzi), così come è sempre più difficile scardinare i sistemi criptati delle grandi industrie e istituzioni da parte di singoli hacker, se non per falle marginali; anche se il numero degli hacker, assurti a loro volta a gruppi di interesse più o meno legali, supplisce ai limiti dei singoli, come sanno le società che combattono i virus, che per avere qualche possibilità di riuscita devono ricorrere a squadre di tecnici e a ingentissimi capitali. Il singolo cowboy, oggi, farebbe certo qualche danno, ma verrebbe presto scoperto e, se non montato a caso politico (che va bene ogni tanto, giusto per sfruttarlo ai propri fini e poi ciao), non farebbe di sicuro una bella fine (vedi su questi argomenti il recente, informatissimo e molto ben scritto Guerre di rete, di Carola Frediani, Laterza, p. 187, 15 E).

Questo poco toglie però alla riuscita dei romanzi della Trilogia. Una storia è buona o non lo è; un libro è ben scritto (intendendo che è pieno di cose che non si riducono necessariamente al linguaggio e allo “stile”: idee, modi di vedere e di sentire…) o non lo è. E i romanzi di Gibson, ricchi di personaggi, avventure, invenzioni grandi e piccole quasi ad ogni pagina, a dispetto di alcune imperfezioni, lo sono.
Ogni tanto in Neuromante la scrittura si impenna in passaggi espressionistici e visionari non solo per i mondi che descrivono ma anche, ciò che più interessa, a livello stilistico, di saturazione e densità di immagini e figure; in Giù nel cyberspazio si assiste invece a una normalizzazione, la visionarietà è più nell’immaginazione che nel linguaggio e si nota anche una maggiore attenzione alla costruzione, al montaggio e ai tempi narrativi, anche se a volte questa volontà di coerenza strutturale è un po’ forzata, meccanica nel modo in cui si alternano e agganciano le tre linee narrative (che in Monna Lisa cyberpunk diventano addirittura quattro, ma giostrate con maggior duttilità e sapienza), così come precipitata, dal punto di vista strutturale e nella conduzione narrativa, appare la conclusione (come già in Neuromante, sia pure in misura minore).
In quanto romanzi d’azione, la costruzione e il finale sono importanti, anche se la libertà di adozione dei materiali, l’attenzione alle merci e alle marche (che ritornerà anche in libri più recenti: il cosiddetto Ciclo di Bigend: L’accademia dei sogni, Mondadori, 2003; Guerreros, Id., 2007, e Zero History, Fanucci, 2012), la scarsa importanza attribuita alla psicologia, la farcitura di elementi di qualsiasi provenienza..., imparenta queste opere più al postmoderno e alla sua disinvolta fluidità costruttiva che ai meccanismi precisi dell’hard boiled o alla new wave degli anni ‘60-70 che invece è stata decisiva per le tematiche e l’ambientazione (droga, catastrofi ecologiche, sesso, onnipresenza dei media, città sovrappopolate e periferie degradate, sottoculture, violenza, esplosione dei legami sociali, dominio delle grandi corporazioni…). Soprattutto l’incontro con autori mainstream (Burroughs e Pynchon in particolare: “il mio Dick è stato Pynchon”, ha detto Gibson in un’intervista) che avevano sdoganato presso pubblico e critica la presenza di elementi fantascientifici nella narrativa “cartonata”, porta anche molti autori del cyberpunk a sentirsi più affini a loro che alla fantascienza tradizionale. C’è ancora il senso di separatezza che favorisce una certa libertà di azione narrativa e inventiva, ma viene meno progressivamente il senso di inferiorità del genere che aveva per esempio portato un grande come Dick a tentare a più riprese di scrivere e, inutilmente, pubblicare romanzi mainstream: cosa che invece avverrà per altri, a partire proprio da Ballard e Gibson stesso, e per autori delle generazione successiva (per es. Neal Stephenson, autore all’inizio della sua carriera di alcuni dei migliori romanzi cyberpunk, in particolare dell’entusiasmante e divertentissimo Snow Crash, proposto, insieme ad altri volumi suoi e ad altri titoli capitali del movimento, dai pionieri di Shake edizioni, a cui va il merito di aver fatto conoscere e rielaborato a partire dal contesto anche italiano e europeo il cyberpunk più teorico e politico, e ora reperibile in un’edizione economica Rizzoli crivellata di refusi). A guadagnarci è la possibilità di introdurre aspetti della realtà e di sperimentare modi di raccontare a cui i lettori di fantascienza non erano abituati, senza discapito della leggibilità, che anzi ne guadagna.
La più importante novità sotto questi aspetti è ovviamente il cyberspazio, più per come viene descritto e narrato, che per la sua invenzione che aveva avuto qualche precedente di scarso conto, poco notato e sviluppato. Come scrive Orlin Damyanov, “in Neuromante, Gibson presenta l'idea della rete informatica globale chiamata Matrice”, e usa il termine Cyberspazio per riferirsi a una “simulazione di realtà virtuale con un feedback neurale diretto”. A parte questo aspetto (ancora per poco, sembra), di fatto, anche se la sua percezione collettiva è stata lenta ad affermarsi, è ciò che avveniva già negli ultimi decenni del ‘900 e si è affermato sempre più avvicinandosi al presente. Gibson stesso lo dice. Basta guardarsi attorno, non solo nelle grandi città, ma nella nostra vita quotidiana, dove tutto è mediato da uno schermo e dove gran parte di ciò che facciamo avviene in uno spazio virtuale, dalle operazioni finanziarie alle relazioni umane.

Nei confronti del cyberspazio i protagonisti dei romanzi di Gibson hanno una vera e propria dipendenza: si drogano per supplire alla sua assenza e si drogano per potervi restare più a lungo, fino a rischiare la propria sopravvivenza stessa, e di fatto con l’unico desiderio di penetrarvi e esservi inglobati per sempre, mentre il suo impossibile controllo è l’obiettivo anche di molti protagonisti negativi della trilogia, il cui potere spesso coincide con il possesso e il dominio delle informazioni, che consentono di estendere i loro capitali (e la loro vita) e di piegare le società, gli uomini e la realtà tutta al loro volere.
D’altra parte niente distingue i due spazi; l'infosfera, come scrive Giovanni Boccia Artieri, “racchiude sia online che offline, sino a divenire un sinonimo della realtà stessa nel senso che, come sostiene Floridi [in La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore], “ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale”. Floridi “descrive la nostra condizione come quella di una onlife. Le ICT [(Information and Communication Technologies)] – lungo i sentieri di Foucault – sono vere e proprie tecnologie del sé che modificano pratiche e contesti attraverso cui diamo forma a noi stessi”.

Questo comporta da un lato la messa in disparte della realtà e del corpo, e dall’altro, allo stesso tempo, l’impulso al loro potenziamento in ogni forma e modo. Il cyborg non è una novità radicale: “la storia dell’uomo si lascia descrivere come la storia della progressiva artificializzazione del suo corpo”, scrivono Caronia e Gallo nel citato Houdini e Faust (p. 98), ma nel futuro di Gibson, e già oggi, strumenti, protesi, innesti, sostituzione di organi, impianti creano un continuo uomo-macchina come mai si era prodotto prima (anche tenendo conto del fatto che lo strumento e l’uomo vanno insieme da sempre), e che si estende poi al cambio e rinnovamento degli organi, nessuno escluso (anche questo c’era già in Dick, ma qui è estremizzato, con l’aggiunta, volendo, di organi non umani), come intensificazione delle potenzialità di esperire e di agire nei due mondi (e lungo lo spazio indeterminato del loro confine mutevole e mutabile, con i giusti strumenti) e, per tutti, anche per chi è passivo, di sentire (i simstim). Non c’è bisogno di uscire dall’orbita terrestre per viaggiare in nuovi mondi e fare esperienze inaudite. La realtà, qualunque cosa sia, sembra essere tutta qui, a portata di mano e di mente, ma va comunque afferrata e, soprattutto, aumentata.

Viceversa la morte non è solo la perdita del corpo, ma anche la riduzione dei pixel a una linea piatta (una flatline), e quella dei dati zero.
Se però “siamo tutti [solo] dei dati” e i dati sono conservati e circolano sempre nel cyberspazio, allora anche un morto può sopravvivere, e la stessa differenza tra i vivi e i morti tende a scomparire. “Vivere qui [nella matrice] significa vivere. Non c’è nessuna differenza”, dice a Case il già citato Flatline, come viene appunto chiamato il costrutto di dati di colui che una volta era un pioniere del cyberspazio, che dialoga con lui e lo aiuta in alcuni dei momenti più difficili.

Proprio per questo il “personaggio” di Flatline merita una sosta, vuoi perché è un’invenzione a mio parere notevole e vuoi perché il suo trattamento narrativo è indicativo del modo di procedere di Gibson: non solo è allegramente contraddittorio, ma viene tirato in ballo con capacità e limiti, conoscenze e lacune e impotenze (e certo: è morto!), esattamente nella misura in cui è funzionale sia alla trama sia a Case nei momenti critici, come un paradossale, limitato ma comunque utilissimo aiutante magico che abita la zona d’ombra tra l’aldilà e un aldiquà altrettanto virtuale e immateriale, sia agli intenti ironici, ma anche puramente giocosi dell’autore, di cui mi è facile immaginare la sorpresa e l’allegrezza nell’assistere come dal di fuori alle invenzioni che gli vengono di volta in volta in mente al suo proposito, nella libertà “creativa” con vincoli molto laschi che la fantascienza in certi casi non solo permette ma addirittura stimola: la stessa che, assieme allo scrittore, prova anche il lettore, liberati entrambi dall’asfissia di una coerenza peraltro impossibile da conseguire e dal diktat di una rappresentazione verosimile, ammesso che si sappia cos’è.

La situazione in ogni caso è paradossale: si entra nel cyberspazio perché la vita non basta, perché lì la vita è potenziata, sottratta ai vincoli dello spazio e del tempo, ma proprio quello è il regno in cui vivo o morto è lo stesso, in cui la vita cioè si identifica con la morte e la morte con la vera vita. I cow-boy della matrice di Gibson, come molte figure del romanzo modernista (e anche post-: come tutti gli umani, forse), sono caratterizzati da un’insuperabile incapacità di semplicemente essere quello che si è, e di accettarlo. Non tanto di accettare i propri limiti (quelli si può sempre cercare di oltrepassarli: ed è ciò che hanno fatto tanti personaggi immaginari ma anche storici della cultura, e più ancora delle cosiddette subculture, dall’800 in poi), quanto di accettare che dei limiti ci siano, alla vita e alle conoscenze, e ovviamente, ancora e sempre, il limite definitivo, assoluto, la morte. Ma è esattamente questo che li fa agire e li rende interessanti.

È forse vero, infatti, che, se siamo ridotti a dati, come dati potremo anche sopravvivere, ma è improbabile che questo possa essere una consolazione: la vita vuole essere vissuta fino in fondo e la carne reclama sempre i suoi diritti; e noi, per quanto a volte riluttanti e scostanti, non vorremmo proprio farne a meno. Se qualcosa la integrerà e potenzierà in futuro, chi vivrà ne godrà certo i benefici, ma c’è da dubitare che questo possa surrogare la fine del corpo e l’assenza di risposte. Nirvana e altri paradisi inclusi. 


Questo articolo è uscito di doppiozero.com il 7 novembre 2017