30/11/18

Sulla Trilogia dello Sprawl, di William Gibson (2017)


A metà degli anni ottanta la fantascienza ha subito uno scossone che le ha cambiato radicalmente i connotati, molto più di quanto non avesse fatto il primo vero movimento di rinnovamento, la cosiddetta new wave, che era stato iniziato negli anni ’60 da alcuni autori inglesi (M. Moorcock, J. Merril, J.G. Ballard, T. Dish, a cui vanno aggiunti americani come, tra gli altri, H. Ellison e S. Delany, di cui Urania, nella collana Millemondi, n. 79, ha ripubblicato due romanzi della sua geniale produzione giovanile Einstein perduto e Nova) che avevano cercato di azzerare le distanze dalla letteratura mainstream a livello tematico e soprattutto stilistico, ispirandosi alle grandi opere del modernismo. A provocarlo sono stati i libri di alcuni autori quasi tutti nati a cavallo degli anni ‘40-‘50, poi riuniti sotto l’etichetta di Cyberpunk, che comprendeva soprattutto William Gibson e Bruce Sterling, che ne fu anche il principale teorico ancora oggi sulla breccia, e pochi altri, tra i quali Pat Cadigan, Rudy Rucker, Michael Swanwick, Greg Bear… I romanzi che più hanno segnato questa stagione sono stati quelli di Gibson, soprattutto Neuromante, del 1984, vero e proprio incunabolo del movimento, e i successivi Giù nel cyberspazio, del 1986, e Monna Lisa cyberpunk, del 1988. Tutti e tre sono stati ora ristampati in un unico volume degli Oscar Mondadori con il titolo ormai noto agli appassionati di Trilogia dello Sprawl (880 p, 16 Euro), che offre un’ottima occasione di conoscere i libri fondatori di quel movimento a chi non li aveva letti a suo tempo e agli altri di verificare la loro tenuta a trent’anni dalla loro dirompente apparizione.

Cosa può trovare in questo volumone anche chi non è necessariamente un cultore del genere e di tecnologia? È soltanto storico lo sguardo da rivolgere a questa fase del lavoro di Gibson, che peraltro non si è mai adattato alla scrittura di genere? Sono solo le prefigurazioni del mondo attuale e di alcuni scenari di un futuro molto prossimo che oggi ci appaiono piuttosto plausibili? Ovvero è il piacere di ritrovare ai loro esordi ambienti, tipologie di personaggi e storie che poi sono diventate moneta corrente di certa letteratura e filmografia?
Bruce Sterling, provocatoriamente, a proposito del Cyberpunk parlava dell’acquisizione sì di tecniche narrative più raffinate e di un’attenzione alla qualità della scrittura molto più accurata che nella fantascienza precedente, ma sempre “riaffermando il primato del contenuto sullo stile” (cit. in A. Caronia e D. Gallo, Houdini e Faust. Breve storia del cyberpunk, Baldini&Castoldi, 1997, p. 27), cioè quel “primato delle idee” che è sempre stata forse la caratteristica fondamentale della migliore fantascienza; ma il lettore di oggi, quanto più si allontana dallo shock della novità e della visionarietà di 30 anni fa, immediatamente avvertite da critici e lettori che infatti, cosa mai successa prima,  assegnarono a Neuromante la vittoria nei tre principali premi del settore (Hugo, Nebula e Dick), ora che possono risultare normalizzate è a come viene raccontata e costruita la storia che non può che guardare e eventualmente appassionarsi.
Non è quindi il giochetto della preveggenza che conviene seguire; tanto più che una previsione realizzata fa presto a diventare scontata, mentre invece quelli che allo stato attuale delle cose appaiono errori di previsione, possono rivelarsi a breve non solo pure fantasie o strade non imboccate, ma linee laterali, diramazioni che sembravano sbarrate o lasciate interrotte in base a visioni e necessità che la nostra precedente visuale parziale e confusa aveva trascurato o considerato di poco o nessun conto, o addirittura non visto e nemmeno immaginato: cioè visioni di verità, ipotesi non inverosimili, di cui sarebbe forse opportuno tenere conto per domani, non solo o non tanto dal punto di vista tecnologico o socio-politico, quanto da quello della condizione umana, della vita che sembra, e in fondo resta, invariata, e solo molto lentamente semmai modificabile nelle sue caratteristiche fondamentali, – prima tra tutte il nostro destino di morte, per quanto rinviato a grande, ma non infinita distanza. E non a caso il desiderio di vincere la morte si ritrova in tutta la trilogia.

Gli scenari di questi romanzi sono quelli di un futuro non molto lontano, segnato da una guerra recente di cui però non ci viene detto quasi nulla, salvo accenni a un’atomica su Bonn e a operazioni in Siberia e in regioni circoscritte, e che tuttavia non ha intaccato lo sviluppo di una civiltà ipertecnologica dominata da potentissime organizzazioni economiche e criminali che spesso tendono a sovrapporsi. Le città si sono trasformate in megalopoli come il cosiddetto Sprawl, asse urbano senza soluzione di continuità che va da Boston a Atlanta, o come la grande Tokio, con suburre degradate, come Chiba dove inizia Neuromante, formicolanti di attività illegali ma anche all’avanguardia per tecnologie e creatività, e dove la natura è avvelenata, quando non del tutto assente. Sono luoghi che si avvicinano più alla Los Angeles di Blade Runner che alle luminose città futuribili dei sogni degli urbanisti (e degli incubi degli abitanti), in cui anche i progetti ecologicamente più sostenibili, come le utopistiche Arcologie presenti in Giù nel cyberspazio, per non parlare degli immensi quartieri popolari dai quali raramente gli abitanti escono se non per lavorare o sfuggire alla polizia o a nemici o creditori, degenerano rapidamente a sedi sovrappopolate e caotiche di attività che non corrispondono mai a quelle per cui erano stati progettati. I distretti industriali sono abbandonati, le fabbriche, svuotate da tutto ciò che era riutilizzabile, ridotte a scheletri e solo in parte occupate da emarginati o da figure borderline, mentre le élites vivono in quartieri esclusivi e blindati, o addirittura in luoghi separati nello spazio orbitale, come Villa Straylight, nella immensa stazione di Freeside, creata e dominata dai Tessier-Ashpool, primi tra i grandi monopolisti della trilogia di Gibson.
Ciò che più caratterizza questi mondi sembra essere la confusione, la caduta dei confini, fisici e sociali, di quelli tra i generi e i ruoli, tra le percezioni e le allucinazioni, il reale e l’immaginario, gli spazi pubblici e quelli privati, dove i valori morali sono, quando non cancellati, sospesi o profondamente modificati, e l’ordine sociale è provvisorio e relativo solo a quello che possono mantenere organismi privati, cartelli, delinquenza organizzata, non certo gli stati nazionali o gli organismi sovranazionali, che sono parvenze sempre più evanescenti, strumenti in mano a poteri ben più solidi.
È contro questi poteri che lottano o cercano di sfangarla i precari cow-boy della matrice protagonisti della Trilogia, hacker del cyberspazio che come cavalieri d’antan si aggirano nella loro foresta incantata, insieme a nuovi mostri e vecchi dei, tra una folla eterogenea di persone che si sono o sono state spinte ai limiti (limiti di qualsiasi tipo), e spesso li hanno oltrepassati, e dove le persone comuni non hanno spazio e ruolo, se non come produttrici-consumatrici di merci e spettacoli.
Sono luoghi in cui la tecnologia più futuribile convive e si incrocia senza problemi con forze arcaiche; dove gli spazi incorporei della matrice sono percorsi e dominati da intelligenze artificiali che tendono a rendersi in qualche modo autonome e a combinarsi tra di loro, da avatar di ogni genere, da hacker che aggirano i servizi di controllo delle corporazioni grandi e piccole decriptando le difese cifrate che possono anche minacciare la loro stessa vita fisica e mentale, dal momento che la connessione è spesso innestata a livello cerebrale, e persino da divinità animistiche ancestrali, come quelle del Voodoo che troviamo in Giù nel cyberspazio; dove coloro che più sembrano muoversi a proprio agio sono più strumenti agiti che eroi agenti, intermediari squassati (e eccitati) dalle forze che essi mettono in contatto o dalle realtà virtuali a cui danno vita. Non personaggi a tutto tondo, ma figure si potrebbe dire scontornate, con tratti che acquistano rilevanza a seconda delle situazioni contingenti, e che non arrivano a possedere un’identità marcata o uno spessore che peraltro in questi contesti sarebbero più di ostacolo che d’aiuto; corpi che vorrebbero dimenticarsi, proiettati nella dimensione fuori dal tempo della matrice, e che invece sono sempre rinviati dolorosamente a se stessi, e solo di rado recuperati nella loro complessità e materialità carnale, mentre a volte spariscono davvero dentro la matrice o in costrutti immagazzinati in una cartuccia rom che di essi conservano solo ricordi e conoscenze, non più rinnovabili in quanto il loro fastidioso “supporto” è sparito, morto. Come avviene, per esempio, per l’hacker Flatline, che immesso nella rete continua a funzionare e a dialogare con Case, protagonista di Neuromante, risultando decisivo per lo svolgimento e la buona riuscita delle sue avventure. Una possibilità tra le altre di cercare di accedere a una forma di immortalità. Se alcuni infatti inseguono l’immortalità, o un prolungamento indefinito della vita mediante la sostituzione del corpo originale con cloni o organi indefinitamente rinnovati (come già in Philip Dick, ma poi anche nell’Houellebecq di La possibilità di un’isola); a volte si tenta di sfuggire alla morte anche a costo di disincarnarsi, o trasferendosi nella matrice con l’intenzione di non tornarne più, come Bobby in Monna Lisa cyberpunk, o appunto tramutando tutti i dati della personalità – mente, esperienze e sensazioni – in software immesso nel cyberspazio o in hardware o in corpi robotici come avviene nello splendido romanzo Diaspora di Greg Egan, del 1997 (trad. it. Urania, 2003, n. 1460), la cui azione, portando al limite estremo questa ipotesi come si conviene nella fantascienza più radicale, si estende, unico caso a mia lacunosissima conoscenza, lungo rotte infinite per milioni e milioni di anni.


Nel momento e nel luogo in cui questi cow-boy più si sentono vivi, cioè quando sono proiettati nel cyberspazio, meno vivono e più sono indifesi nel mondo “reale”, nel quale a volte hanno bisogno di essere accuditi e protetti, e che non mancherà mai di far valere i suoi diritti. Viceversa, chi a questo mondo è ancorato, con i suoi bisogni, la sua routine, gli imperativi di una sopravvivenza fragile e incerta, o sembra essere, lui davvero, una larva o uno schiavo, magari soddisfatto, del lavoro, della routine e della mercificazione che tutto pervade; o non vede l’ora di uscirne con qualche droga sintetica o immaginaria, come i simstim, ambienti olografici di realtà virtuale, che hanno un loro straordinario antecedente nel mondo di Perky Pat delle Tre stimmate di Palmer Eldritch di P.K. Dick (Fanucci, 2003), che forniscono, a pagamento, vite surrogate ma potenziate, nelle quali i desideri e le aspirazioni esistenziali e materiali trovano una loro appagante realizzazione: come la tv e i giornali di gossip, ma molto meglio. Come se, da ogni lato, non si potesse vivere senza appendici, senza protesi, innesti o dipendenze di qualche genere. Più o meno quello che accade anche oggi, di nuovo.

E infatti quello che molti nei libri di Gibson hanno letto come preveggenza può essere visto come una specie di realismo mascherato, cioè la capacità di leggere il presente attraverso la lente di un futuro non troppo distante e in fondo abbastanza simile al nostro presente, a dispetto di alcune vistose differenze. Lui stesso aveva già detto in un’intervista a Larry McCaffery del 1986: “il mio scopo non è tanto di fornire previsioni specifiche o dei giudizi, quanto piuttosto di trovare un contesto narrativo appropriato in cui esaminare le potenzialità multiformi delle tecnologie”.

Le storie, sul modello dell’hard boiled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, sono basate sull’azione, e a volte richiamano anche il western, con cavalcate, cattivi potentissimi, donne toste o deboli da salvare (ma spesso in qualche modo ambigue, anche se non mancano eroine in qualche modo innocenti come la Monna Lisa del romanzo omonimo, che richiama ironicamente – a meno che a metterci l’ironia non sia solo io – la puttanella insieme smaliziata, drogata, cinica, ma anche candida di certa vecchia narrativa; o Molly, tostissima guardia del corpo con gli occhiali a specchio-telecamere innestati direttamente nelle orbite e altri optional come artigli retrattili, che ritroviamo in altri testi di Gibson, e poi in molti film recenti; o Kumiko, la giapponesina figlia di un capo della Yakuza di Monna Lisa). E non a caso i protagonisti (Case in Neuromante, il Conte Zero di Giù nel cyberspazio, che diventa Bobby in Monna Lisa) sono chiamati cow-boy del cyberspazio, anche se sono ben lungi dall’assomigliare ai classici eroi hollywoodiani, bensì, secondo una differente tradizione, per non dire uno stereotipo, anch’essa tipicamente americana, piccoli truffatori del web, perdenti, sbandati, non inquadrati, drogati, ribelli, che trasgrediscono ma senza nessuna dichiarata connotazione sociale o politica, solo per poter vivere, o sopravvivere, romantici (“Neuromantic”, oltre che richiamare una -manzia neurale, in inglese suona anche come “new romantic”), emarginati anche per scelta ma comunque dotati degli strumenti per sopravvivere nel mondo ipertecnologico, e aiutati laddove ne sono carenti (soprattutto perché ingenui o meno pronti ad affrontare la realtà esterna e i suoi intrighi) da sorprendenti aggiornamenti dei classici aiutanti magici.

Se ciò che mette in moto l’azione sembra una forma di ribellione o una ricerca di libertà e autonomia prevalentemente individuale, e individualistica (il Cyberpunk, afferma a più riprese Sterling, nasce dall’opposizione, alla fantascienza tradizionale e alla società, come indica il riferimento al movimento punk), i finali sono solo apparentemente positivi, e comunque solo labilmente consolatori. Un contentino non si nega a nessuno.
I cambiamenti che vi si registrano e che di primo acchito possono sembrare radicali, come l’obsolescenza e la caduta di certe forme di potere (vedi il finale di Neuromante), le sconfitte dei cattivi del momento (multinazionali, monopoli, bieco multimiliardario ubiquo nelle sue proiezioni ma di fatto immerso in vasche nutritive in attesa di trovare il modo di diventare immortale…), altro non sono che ridistribuzioni e metamorfosi, ma non dissoluzione e scomparsa, di quelle forme che, se cambiano di mano e aggiustano alcune caratteristiche, ne escono anzi rafforzate. Non è il potere che cambia, è la libertà che è costretta a cercare sempre nuove forme e strade da percorrere, vie di fuga sempre più risicate e riservate solo a comunità ristrette e particolarmente fluide e instabili, non certo per la massa o per quello che una volta veniva chiamato il popolo (quell’indeterminato insieme immaginario che i nuovi simulacri di leader usano ora chiamare “la gente”).


Gibson non aveva il pc quando ha scritto Neuromante e non era neppure molto aggiornato sulla tecnologia e sui linguaggi e sistemi informatici, e se questo gli ha favorito una maggiore libertà di immaginazione, quella che deriva come beneficio secondario dell’ignoranza (e dal talento, certo), dall’altro ha spostato certe sue soluzioni narrative più sul lato di quello che oggi ci appaiono, ancor più chiaramente che in passato, dei cliché per certe peripezie e le loro conclusioni. C’è da dubitare che l’azione individuale o di un gruppo ristrettissimo sarebbe altrettanto efficace e devastante oggi, come in passato del resto (a parte nei romanzi), così come è sempre più difficile scardinare i sistemi criptati delle grandi industrie e istituzioni da parte di singoli hacker, se non per falle marginali; anche se il numero degli hacker, assurti a loro volta a gruppi di interesse più o meno legali, supplisce ai limiti dei singoli, come sanno le società che combattono i virus, che per avere qualche possibilità di riuscita devono ricorrere a squadre di tecnici e a ingentissimi capitali. Il singolo cowboy, oggi, farebbe certo qualche danno, ma verrebbe presto scoperto e, se non montato a caso politico (che va bene ogni tanto, giusto per sfruttarlo ai propri fini e poi ciao), non farebbe di sicuro una bella fine (vedi su questi argomenti il recente, informatissimo e molto ben scritto Guerre di rete, di Carola Frediani, Laterza, p. 187, 15 E).

Questo poco toglie però alla riuscita dei romanzi della Trilogia. Una storia è buona o non lo è; un libro è ben scritto (intendendo che è pieno di cose che non si riducono necessariamente al linguaggio e allo “stile”: idee, modi di vedere e di sentire…) o non lo è. E i romanzi di Gibson, ricchi di personaggi, avventure, invenzioni grandi e piccole quasi ad ogni pagina, a dispetto di alcune imperfezioni, lo sono.
Ogni tanto in Neuromante la scrittura si impenna in passaggi espressionistici e visionari non solo per i mondi che descrivono ma anche, ciò che più interessa, a livello stilistico, di saturazione e densità di immagini e figure; in Giù nel cyberspazio si assiste invece a una normalizzazione, la visionarietà è più nell’immaginazione che nel linguaggio e si nota anche una maggiore attenzione alla costruzione, al montaggio e ai tempi narrativi, anche se a volte questa volontà di coerenza strutturale è un po’ forzata, meccanica nel modo in cui si alternano e agganciano le tre linee narrative (che in Monna Lisa cyberpunk diventano addirittura quattro, ma giostrate con maggior duttilità e sapienza), così come precipitata, dal punto di vista strutturale e nella conduzione narrativa, appare la conclusione (come già in Neuromante, sia pure in misura minore).
In quanto romanzi d’azione, la costruzione e il finale sono importanti, anche se la libertà di adozione dei materiali, l’attenzione alle merci e alle marche (che ritornerà anche in libri più recenti: il cosiddetto Ciclo di Bigend: L’accademia dei sogni, Mondadori, 2003; Guerreros, Id., 2007, e Zero History, Fanucci, 2012), la scarsa importanza attribuita alla psicologia, la farcitura di elementi di qualsiasi provenienza..., imparenta queste opere più al postmoderno e alla sua disinvolta fluidità costruttiva che ai meccanismi precisi dell’hard boiled o alla new wave degli anni ‘60-70 che invece è stata decisiva per le tematiche e l’ambientazione (droga, catastrofi ecologiche, sesso, onnipresenza dei media, città sovrappopolate e periferie degradate, sottoculture, violenza, esplosione dei legami sociali, dominio delle grandi corporazioni…). Soprattutto l’incontro con autori mainstream (Burroughs e Pynchon in particolare: “il mio Dick è stato Pynchon”, ha detto Gibson in un’intervista) che avevano sdoganato presso pubblico e critica la presenza di elementi fantascientifici nella narrativa “cartonata”, porta anche molti autori del cyberpunk a sentirsi più affini a loro che alla fantascienza tradizionale. C’è ancora il senso di separatezza che favorisce una certa libertà di azione narrativa e inventiva, ma viene meno progressivamente il senso di inferiorità del genere che aveva per esempio portato un grande come Dick a tentare a più riprese di scrivere e, inutilmente, pubblicare romanzi mainstream: cosa che invece avverrà per altri, a partire proprio da Ballard e Gibson stesso, e per autori delle generazione successiva (per es. Neal Stephenson, autore all’inizio della sua carriera di alcuni dei migliori romanzi cyberpunk, in particolare dell’entusiasmante e divertentissimo Snow Crash, proposto, insieme ad altri volumi suoi e ad altri titoli capitali del movimento, dai pionieri di Shake edizioni, a cui va il merito di aver fatto conoscere e rielaborato a partire dal contesto anche italiano e europeo il cyberpunk più teorico e politico, e ora reperibile in un’edizione economica Rizzoli crivellata di refusi). A guadagnarci è la possibilità di introdurre aspetti della realtà e di sperimentare modi di raccontare a cui i lettori di fantascienza non erano abituati, senza discapito della leggibilità, che anzi ne guadagna.
La più importante novità sotto questi aspetti è ovviamente il cyberspazio, più per come viene descritto e narrato, che per la sua invenzione che aveva avuto qualche precedente di scarso conto, poco notato e sviluppato. Come scrive Orlin Damyanov, “in Neuromante, Gibson presenta l'idea della rete informatica globale chiamata Matrice”, e usa il termine Cyberspazio per riferirsi a una “simulazione di realtà virtuale con un feedback neurale diretto”. A parte questo aspetto (ancora per poco, sembra), di fatto, anche se la sua percezione collettiva è stata lenta ad affermarsi, è ciò che avveniva già negli ultimi decenni del ‘900 e si è affermato sempre più avvicinandosi al presente. Gibson stesso lo dice. Basta guardarsi attorno, non solo nelle grandi città, ma nella nostra vita quotidiana, dove tutto è mediato da uno schermo e dove gran parte di ciò che facciamo avviene in uno spazio virtuale, dalle operazioni finanziarie alle relazioni umane.

Nei confronti del cyberspazio i protagonisti dei romanzi di Gibson hanno una vera e propria dipendenza: si drogano per supplire alla sua assenza e si drogano per potervi restare più a lungo, fino a rischiare la propria sopravvivenza stessa, e di fatto con l’unico desiderio di penetrarvi e esservi inglobati per sempre, mentre il suo impossibile controllo è l’obiettivo anche di molti protagonisti negativi della trilogia, il cui potere spesso coincide con il possesso e il dominio delle informazioni, che consentono di estendere i loro capitali (e la loro vita) e di piegare le società, gli uomini e la realtà tutta al loro volere.
D’altra parte niente distingue i due spazi; l'infosfera, come scrive Giovanni Boccia Artieri, “racchiude sia online che offline, sino a divenire un sinonimo della realtà stessa nel senso che, come sostiene Floridi [in La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore], “ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale”. Floridi “descrive la nostra condizione come quella di una onlife. Le ICT [(Information and Communication Technologies)] – lungo i sentieri di Foucault – sono vere e proprie tecnologie del sé che modificano pratiche e contesti attraverso cui diamo forma a noi stessi”.

Questo comporta da un lato la messa in disparte della realtà e del corpo, e dall’altro, allo stesso tempo, l’impulso al loro potenziamento in ogni forma e modo. Il cyborg non è una novità radicale: “la storia dell’uomo si lascia descrivere come la storia della progressiva artificializzazione del suo corpo”, scrivono Caronia e Gallo nel citato Houdini e Faust (p. 98), ma nel futuro di Gibson, e già oggi, strumenti, protesi, innesti, sostituzione di organi, impianti creano un continuo uomo-macchina come mai si era prodotto prima (anche tenendo conto del fatto che lo strumento e l’uomo vanno insieme da sempre), e che si estende poi al cambio e rinnovamento degli organi, nessuno escluso (anche questo c’era già in Dick, ma qui è estremizzato, con l’aggiunta, volendo, di organi non umani), come intensificazione delle potenzialità di esperire e di agire nei due mondi (e lungo lo spazio indeterminato del loro confine mutevole e mutabile, con i giusti strumenti) e, per tutti, anche per chi è passivo, di sentire (i simstim). Non c’è bisogno di uscire dall’orbita terrestre per viaggiare in nuovi mondi e fare esperienze inaudite. La realtà, qualunque cosa sia, sembra essere tutta qui, a portata di mano e di mente, ma va comunque afferrata e, soprattutto, aumentata.

Viceversa la morte non è solo la perdita del corpo, ma anche la riduzione dei pixel a una linea piatta (una flatline), e quella dei dati zero.
Se però “siamo tutti [solo] dei dati” e i dati sono conservati e circolano sempre nel cyberspazio, allora anche un morto può sopravvivere, e la stessa differenza tra i vivi e i morti tende a scomparire. “Vivere qui [nella matrice] significa vivere. Non c’è nessuna differenza”, dice a Case il già citato Flatline, come viene appunto chiamato il costrutto di dati di colui che una volta era un pioniere del cyberspazio, che dialoga con lui e lo aiuta in alcuni dei momenti più difficili.

Proprio per questo il “personaggio” di Flatline merita una sosta, vuoi perché è un’invenzione a mio parere notevole e vuoi perché il suo trattamento narrativo è indicativo del modo di procedere di Gibson: non solo è allegramente contraddittorio, ma viene tirato in ballo con capacità e limiti, conoscenze e lacune e impotenze (e certo: è morto!), esattamente nella misura in cui è funzionale sia alla trama sia a Case nei momenti critici, come un paradossale, limitato ma comunque utilissimo aiutante magico che abita la zona d’ombra tra l’aldilà e un aldiquà altrettanto virtuale e immateriale, sia agli intenti ironici, ma anche puramente giocosi dell’autore, di cui mi è facile immaginare la sorpresa e l’allegrezza nell’assistere come dal di fuori alle invenzioni che gli vengono di volta in volta in mente al suo proposito, nella libertà “creativa” con vincoli molto laschi che la fantascienza in certi casi non solo permette ma addirittura stimola: la stessa che, assieme allo scrittore, prova anche il lettore, liberati entrambi dall’asfissia di una coerenza peraltro impossibile da conseguire e dal diktat di una rappresentazione verosimile, ammesso che si sappia cos’è.

La situazione in ogni caso è paradossale: si entra nel cyberspazio perché la vita non basta, perché lì la vita è potenziata, sottratta ai vincoli dello spazio e del tempo, ma proprio quello è il regno in cui vivo o morto è lo stesso, in cui la vita cioè si identifica con la morte e la morte con la vera vita. I cow-boy della matrice di Gibson, come molte figure del romanzo modernista (e anche post-: come tutti gli umani, forse), sono caratterizzati da un’insuperabile incapacità di semplicemente essere quello che si è, e di accettarlo. Non tanto di accettare i propri limiti (quelli si può sempre cercare di oltrepassarli: ed è ciò che hanno fatto tanti personaggi immaginari ma anche storici della cultura, e più ancora delle cosiddette subculture, dall’800 in poi), quanto di accettare che dei limiti ci siano, alla vita e alle conoscenze, e ovviamente, ancora e sempre, il limite definitivo, assoluto, la morte. Ma è esattamente questo che li fa agire e li rende interessanti.

È forse vero, infatti, che, se siamo ridotti a dati, come dati potremo anche sopravvivere, ma è improbabile che questo possa essere una consolazione: la vita vuole essere vissuta fino in fondo e la carne reclama sempre i suoi diritti; e noi, per quanto a volte riluttanti e scostanti, non vorremmo proprio farne a meno. Se qualcosa la integrerà e potenzierà in futuro, chi vivrà ne godrà certo i benefici, ma c’è da dubitare che questo possa surrogare la fine del corpo e l’assenza di risposte. Nirvana e altri paradisi inclusi. 


Questo articolo è uscito di doppiozero.com il 7 novembre 2017

21/11/18

Una cosa strana che mi è capitata ieri sera. Giuro che è vero.



 Ero stufo di guardare la televisione e mi stavo addormentando. Ma era molto presto e temevo che se fossi andato a letto subito, poi mi sarei svegliato ancor prima del solito e quindi ho spento la tele e invece di restare a leggere sulla poltrona, sono andato in studio, sulla sedia del mio tavolo di lavoro, scomodissima, e quindi garanzia certissima di risveglio. C’è da dire che recentemente ho notato che quando il sonno comincia a calare su di me, che sia l’età o altro, lo fa proprio alla lettera, come un torpore progressivo che parte dalla testa e si estende alle spalle, avvolgendomi come una guaina morbida ma pesante, e da lì alle braccia e al resto del corpo, fino a che non resisto e, nonostante l’ostruzionismo che imbastisco in bagno per contrastarlo e rinviarlo protraendo il cerimoniale il più a lungo possibile, devo andare a letto, dove dopo la lettura di due o tre pagine al massimo, concessemi dalle manovre in bagno, in particolare l’energica pulizia dei denti e il risciacquo con acqua gelida, devo chiudere insieme il libro e gli occhi. Ieri sera però non erano ancora le dieci e mezza, il che significava che mi sarei svegliato tra le quattro e le cinque, che francamente è un po’ troppo presto anche per uno mattiniero come me. (Interessanti tutte queste informazioni, vero?) Così sono andato in studio e ho ripreso la lettura del magnifico e terribile Il morto nel Bunker di Martin Pollack, che confidavo di terminare in giornata, impedito invece da una serie mirabolante di piccole urgenze e altre sciocchezze e scuse. Ho acceso la lampada e aperto il libro tra la pila di stampati da editare e le cartelle con gli appunti per le prossime cose che dovrei scrivere, insisto sul “dovrei”, a destra del pc, e due libri di amici (Così chiamò l'eterno, di Guia Risari e Furto d'anima, di Lucetta Frisa e Marco Ercolani) che mi erano arrivati in giornata alla loro sinistra, e intanto armeggiavo per togliermi l’orologio e slacciare i bottoni del colletto della camicia, perché, come tutti gli indolenti e accidiosi, quando mi decido a fare qualcosa, ne devo fare contemporaneamente almeno altre due, riuscendo male in tutte ovviamente. Così, invece di tenere aperto io le pagine del romanzo, ho appoggiato per la lunghezza sulle pagine di sinistra il cartoncino segnalibri di una biblioteca, confidando che le tenesse ferme e mi lasciasse le mani libere per le altre mie encomiabili iniziative. Invece quel bastardo, non certo per colpa sua, continuava a scivolare via lasciando che la pagina che stavo leggendo di sguincio si chiudesse. Al che, invece di smetterla di armeggiare come un cretino e leggere come si deve, spostavo di nuovo il segnalibro nella posizione precedente, sperando ogni volta che fosse quella buona e le pagine la smettessero di volersi chiudere facendolo scivolar via. Alla quinta o sesta volta ho premuto con maggior forza passando la mano su tutta la pagina per convincere anche lei, continuando a leggere senza controllare quello facevo se non con la coda dell’occhio. E’ stato così che mi è parso di veder scivolare il segnalibro come in una piccolissima fessura buia e lì scomparire. Ho leggiucchiato ancora qualche secondo, finché la parte del mio cervello che aveva registrato l’evento ha suonato il campanello d’allarme e mi ha costretto a interrompere la lettura. Pensa te se devo darla vinta a un segnalibro! Ho allungato la mano tra la pila di fogli e carte e i due libri degli amici, ma il cartoncino non c’era. Solo allora anche la piccolissima fessura di buio in cui mi era sembrato che fosse scomparso mi è tornata chiara alla mente e ho rivisto, perfettamente a fuoco, al rallentatore e al contempo velocissimo il momento della scomparsa. Quel margine di spazio che non era il mio, che si era aperto per accogliere la fuga del segnalibro, o inghiottirlo, mettetela come preferite, per immediatamente richiudersi ripristinando il piano della scrivania senza slabbrature o cicatrici a segnalarne l’avvento e l’immediata sparizione. Possibile? Ho guardato per terra nel caso il segnalibro fosse caduto lì. Non c’era. Allora ho alzato, spostato e sfogliato i libri. Niente. Lo stesso ho fatto con tutte le bozze, le cartellette e i ritagli e i foglietti volanti di appunti che stavano sotto il libro di Pollack. Idem. Ho sfogliato anche il libro più volte. Niente nemmeno lì. Ho guardato, per quanto l’ipotesi fosse inverosimile (ma a questo punto…) anche sotto il pc, da cui il cartoncino distava due spanne, e che peraltro avrebbe dovuto raggiungere superando, non so in virtù di quale forza o spinta, l’asperità delle suddette bozze e cartellette. Figurarsi se era lì. Mi sono persino chiesto se non mi fossi sognato di tenere un segnalibro nel romanzo. Certo che lo tenevo! Ho sempre qualcosa nei libri che leggo, anche se di solito sono foglietti per eventuali appunti, ma non in questo caso, perché sono sicuro che ci avevo messo, e tolto e rimesso, e tolto e rimesso, un segnalibro come quello della foto (ma non quello), ogni volta che avevo letto qualche pagina nei tre giorni precedenti. Sono tornato in salotto dove avevo tenuto il libro fino a poco prima per controllare se l’avevo lasciato lì, pensando però che era una stupidaggine dal momento che avevo spostato il cartoncino più volte per tenere aperte le pagine. Andiamo lo stesso, dai. E ci sono andato. Niente. Ho ispezionato il pavimento dello studio con la pila più volte, con lo stesso risultato. Non è possibile che mi perda per una scemenza del genere, mi dicevo intanto. Non è uno di quei risaputi raccontini dove l’incongruo sbatte le ciglia per un attimo e subito si richiude. Lasciando qualche minima traccia del suo passaggio tuttavia: è la regola. No, qui non c’era nessuna traccia: solo quella mnestica, la linea nera, sottilissima in cui è sprofondato il segnalibro, e che si è chiusa senza lasciare resti. Non c’era niente di niente. Inutile insistere. Sono andato in bagno e poi a letto senza leggere nient’altro. Mi sono addormentato subito. Alle quattro e mezza ero sveglio. Qualche sogno devo averlo fatto. Ma parlava d’altro.

(Secondo me, se il sovrannaturale aveva intenzione di palesarsi, poteva trovare un altro modo. Gente ridicola!)

 

14/11/18

Commento con molto spazio bianco intorno, a proposito di un episodio dell'altrieri (e di domani)







Un albero non è un albero
o almeno non si può chiamarlo albero
un cane non è un cane
e è opportuno non chiamarlo cane
ma in un altro modo ogni volta da inventare
un buffone non è un buffone
a dispetto delle apparenze
che raramente ingannano
il non buffone non è un non buffone
quindi è un buffone
dire cose opposte è andare d'accordo
andare d'accordo è dire cose opposte
pensare, vivere insieme, è un'altra cosa

 

***

(Post fb 27 dic. 2020

Non ricordo più a cosa o a chi mi riferivo.
Oppure sì, ma non lo dico.
Se non lo dico ancora per un po',
lo dimentico per davvero.
E allorà sarà vero che non lo ricordo più.
Non vedo l'ora di chiedermelo
aspettando una risposta che non saprò dare.
E dandomi del rincitrullito per la memoria
una volta infallibile, e ora...
Ora cosa?

 

 

06/11/18

Julien Green, Passeggero in terra (11-03-82)



Anche in letteratura il destino non si accontenta di un ruolo qualunque: quando c’è, come in molti romanzi di Julien Green, domina tutto. Poco importa la restrizione del possibile, o che i personaggi prendano a volte l’apparenza, per il lettore troppo razionalista, di stupidi o inetti pur nella loro tragicità; la strada è segnata, e il suo esito di paralisi.
La sua rincorsa può durare secoli, come in Varuna (Mondadori), attraverso individui, situazioni e luoghi differenti, ma niente resta inconcluso. Il movimento da esso inaugurato tuttavia non è semplice e non si può ridurre alla metafora venatoria del cacciatore e della preda: occorre infatti che anche la preda muova quasi specularmente verso il cacciatore.
Man mano cioè che lo spazio del destino, che è quello della trascendenza, limita il campo reale e empirico dei suoi “oggetti” (nei romanzi i vari protagonisti), in questi deve corrispondere un complementare allargamento del desiderio di fuga o di liberazione, che cresce con il progressivo cedimento dei suoi appigli o delle sue mete concrete, sfociando nella rinuncia o nell’impossibilità totale di realizzazione. Così che questo finale ma infinito desiderio che non conosce più la propria meta non sia che la traduzione della sotterranea vocazione di ciascuno al proprio destino, del quale si viene a scoprire che ha mosso il primo passo quando la vittima ha mosso il suo. E’ la divaricazione immanente al personaggio, il quale tanto più fortemente cerca la sua meta quanto più si dibatte per sfuggirvi, che innesca così la trascendenza del destino.
Questa viene allora vissuta come incubo, donde la dimensione spesso onirica di questi romanzi, ma la sua violenza appare tanto più cogente quanto più si concretizza, come tentazione inaggirabile, in cose ed eventi che resistono alla manipolazione. Come nel peccato, che forse anzi di questa situazione è l’esemplificazione migliore, ma un peccato in cui il vero martirio sarebbe non cadervi, mentre la risoluzione finale della morte diverrebbe forse più l’apertura alla possibile liberazione che il suggello della condanna, Non è un caso infatti che, almeno nella modernità, il destino si ritrovi con maggiore frequenza in autori credenti o a forte caratterizzazione teologica.
E che Julien Green rientri in questa categoria è innegabile, per quanto comprensibile e giustificato possa essere il suo rifiuto della stigmatizzazione a “scrittore cattolico”, mediante la quale è stato spesso accomunato a Bernanos e Mauriac, rifiuto più volte testimoniato dal suo imponente e importante Diario, in parte tradotto presso Mondadori. Lo dimostra persino il suo primo romanzo, Passeggero in terra, molto opportunamente proposto da Serra e Riva con l’aggiunta del racconto Christine, che pure fu scritto nel 1925, prima cioè della sua conversione al cattolicesimo.
Non sarà difficile infatti scoprire già nella vicenda in esso narrata, ambientata nell’oscura provincia di fine Ottocento della Virginia, dove l’autore (di famiglia americana ma nato a Parigi nel 1900 e francese a tutti gli effetti) ha frequentato l’università, molti dei motivi cui sopra si è accennato. A prima vista ne è oggetto il tentativo di spiegare la misteriosa morte di un giovane studente, Daniel O’ Donovan, anche per deciderne la forma più adeguata di sepoltura, che non potrebbe essere religiosa in caso di suicidio.
Il libro è composto di tutte le testimonianze a disposizione sul caso, presentate dall’autore senza altro commento all’infuori di una breve introduzione circostanziale. L’unione in esso di due finzioni, quella del manoscritto ritrovato (il diario di Daniel) e quella di un’indagine giornalistico-poliziesca (le testimonianze dirette e indirette), conferisce all’insieme un’andatura molto tesa, da romanzo giallo. Solo che qui la scelta della soluzione viene devoluta completamente al lettore, al quale però sarà impossibile decidere, nonostante la predominante tentazione per la cifra psicopatologica.
E’ vero infatti che tutto sembra spingere in questa direzione: dall’infanzia di orfano non amato in casa di parenti racchiusi ciascuno nel suo mondo di ricordi, insoddisfazione o fuga religiosa e incapaci persino di comunicare tra loro, all’indole incline all’introversione e alla paura, dalla cui forza Daniel è pure intensamente attratto, come dimostra la predilezione per i racconti di terrore; al fantomatico compagno che, ancora, lo attrae e lo rigetta, lo deruba e lo aiuta, gli distrugge i libri e lo conforta nella sua solitudine, ma che nessuno ha mai visto, a cominciare dalla padrona di casa messa in allarme dalle stranezze dell’inquilino. Ma d’altra parte ci sono il biglietto che questo compagno gli ha veramente lasciato e le caratteristiche della sua rappresentazione che, se si considera l’importanza attribuita al fattore religione, ne fanno più che un doppio o una proiezione psichica, l’incarnazione del demonio.
Più che l’ambiguità, mi sembra regnino l’ambivalenza, il doppio vincolo dello schizofrenico e l’indecidibilità, nel continuo passaggio da una sfera all’altra, la realtà trasformandosi in sogno e racconto e viceversa. Ma forse proprio negli elementi che specificano questo “viceversa” è possibile trovare un ulteriore indizio interpretativo, che comprenda in qualche modo gli altri riconducendoci alle proposizioni di esordio.
Mi riferisco agli unici due racconti esplicitamente introdotti nel diario: quello dell’incubo ripetuto in cui Daniel con progressiva esattezza vive quella che sarà la sua morte nel suo luogo reale, che tuttavia gli è ancora ignoto; e quello, che tanto lo aveva impressionato da bambino, del giovane che, nonostante la maledizione, disobbedisce al divieto paterni perché fey, ossia “spinto verso la morte da un potere irresistibile”; racconti che contengono, sebbene ancora sparsi, tutti gli elementi citati in apertura, e che solo la morte di Daniel, ripetendoli, combina e porta a compimento, a conclusione di una trama lasciata in sospeso dal destino dei suoi genitori, dei quali Daniel ripete la malattia e la morte, senza però commettere l’errore di lasciare altro resto che non sia quello di una (innocua?) finzione.


Julien Green, Passeggero in terra, Serra e Riva, Milano, 1981, £ 5.000


03/11/18

Jean Cocteau, Il mio primo viaggio - Il Giro del mondo in 80 giorni (1994)





 Nel 1936 Jean Cocteau, per rendere omaggio a Jules Verne nel centenario della nascita, decide di ripetere l’impresa del Il giro del mondo in ottanta giorni, romanzo dal quale anch’egli, come generazioni di altri bambini, aveva imparato “il gusto dell’avventura e il desiderio di viaggiare”. Ma nei resoconti che scrive per Paris-Soir poi riuniti in questo volume, di avventuroso non c’è nulla, al massimo qualche serata passata nei quartieri a luci rosse o nelle fumerie d’oppio delle città orientali (ma senza “toccare la pipa”); per il resto il viaggiatore Jean Cocteau non dimentica mai di essere in primo luogo un poeta, e in quanto tale il viaggio per lui non può che avere al proprio centro la bellezza, “come si presenta e il posto esatto che occupa”, esattamente quello che , a suo parere, “i viaggiatori non raccontano mai”. Non c’è il tempo, e forse nemmeno la voglia, di conoscere realtà e persone, anche se non mancano accenni alla società e alla politica del fascismo e del colonialismo; tutto sfila come una parata che sembra interessare principalmente per il fascino dei paesaggi e delle opere d’arte, per le emozioni che l’armonia dei corpi, i colori, le fogge delle vesti e il gusto dei cibi possono suscitare e per la possibilità poi di trasformarle in immagini e parole da degustare come un frutto squisito. Il primo colpo d’occhio è già la verità, la prima impressione si tramuta istantaneamente in formula, a nessun luogo sarà fatta mancare la sua bella definizione, spesso di sapore dannunziano (Roma è una “città pesante”, mentre Atene è “leggera”; Il Cairo è “una città morta” e New York, “un giardino di pietra”), così come non mancheranno quegli spunti meditativi e morali, meglio se un po’ provocatori, la cui assenza stonerebbe al cospetto di culture diverse. Eppure, se gli ingredienti dello stereotipo del viaggio dell’esteta sembrano tutti presenti, raramente Cocteau finisce per caderci, in primo luogo per l’attenzione prestata alla scrittura, al solito curata proprio nella sua apparente immediatezza, ma soprattutto per l’adesione non manierata, mai astratta, spesso corporea anzi, per il mondo che vede e le persone che gli è dato, sia pure di sfuggita, di incontrare. Non a caso i momenti migliori sono quelli in cui maggiore è la presenza dell’esterno e dell’altro, in particolare le descrizioni degli spettacoli e dei loro protagonisti, si tratti del kabuki o dei musicisti e dei danzatori di Harlem. Quando poi il caso gli fa incontrare Chaplin su una nave, la descrizione quasi devota del suo carattere e dei suoi progetti e la registrazione dei suoi discorsi si innalzano al punto che basterebbero queste pagine a giustificare la lettura del libro.


Jean Cocteau, Il mio primo viaggio - Il Giro del mondo in 80 giorni, ed. Olivares, Milano, 1994, pag. 245, £. 15.000