06/11/18

Julien Green, Passeggero in terra (11-03-82)



Anche in letteratura il destino non si accontenta di un ruolo qualunque: quando c’è, come in molti romanzi di Julien Green, domina tutto. Poco importa la restrizione del possibile, o che i personaggi prendano a volte l’apparenza, per il lettore troppo razionalista, di stupidi o inetti pur nella loro tragicità; la strada è segnata, e il suo esito di paralisi.
La sua rincorsa può durare secoli, come in Varuna (Mondadori), attraverso individui, situazioni e luoghi differenti, ma niente resta inconcluso. Il movimento da esso inaugurato tuttavia non è semplice e non si può ridurre alla metafora venatoria del cacciatore e della preda: occorre infatti che anche la preda muova quasi specularmente verso il cacciatore.
Man mano cioè che lo spazio del destino, che è quello della trascendenza, limita il campo reale e empirico dei suoi “oggetti” (nei romanzi i vari protagonisti), in questi deve corrispondere un complementare allargamento del desiderio di fuga o di liberazione, che cresce con il progressivo cedimento dei suoi appigli o delle sue mete concrete, sfociando nella rinuncia o nell’impossibilità totale di realizzazione. Così che questo finale ma infinito desiderio che non conosce più la propria meta non sia che la traduzione della sotterranea vocazione di ciascuno al proprio destino, del quale si viene a scoprire che ha mosso il primo passo quando la vittima ha mosso il suo. E’ la divaricazione immanente al personaggio, il quale tanto più fortemente cerca la sua meta quanto più si dibatte per sfuggirvi, che innesca così la trascendenza del destino.
Questa viene allora vissuta come incubo, donde la dimensione spesso onirica di questi romanzi, ma la sua violenza appare tanto più cogente quanto più si concretizza, come tentazione inaggirabile, in cose ed eventi che resistono alla manipolazione. Come nel peccato, che forse anzi di questa situazione è l’esemplificazione migliore, ma un peccato in cui il vero martirio sarebbe non cadervi, mentre la risoluzione finale della morte diverrebbe forse più l’apertura alla possibile liberazione che il suggello della condanna, Non è un caso infatti che, almeno nella modernità, il destino si ritrovi con maggiore frequenza in autori credenti o a forte caratterizzazione teologica.
E che Julien Green rientri in questa categoria è innegabile, per quanto comprensibile e giustificato possa essere il suo rifiuto della stigmatizzazione a “scrittore cattolico”, mediante la quale è stato spesso accomunato a Bernanos e Mauriac, rifiuto più volte testimoniato dal suo imponente e importante Diario, in parte tradotto presso Mondadori. Lo dimostra persino il suo primo romanzo, Passeggero in terra, molto opportunamente proposto da Serra e Riva con l’aggiunta del racconto Christine, che pure fu scritto nel 1925, prima cioè della sua conversione al cattolicesimo.
Non sarà difficile infatti scoprire già nella vicenda in esso narrata, ambientata nell’oscura provincia di fine Ottocento della Virginia, dove l’autore (di famiglia americana ma nato a Parigi nel 1900 e francese a tutti gli effetti) ha frequentato l’università, molti dei motivi cui sopra si è accennato. A prima vista ne è oggetto il tentativo di spiegare la misteriosa morte di un giovane studente, Daniel O’ Donovan, anche per deciderne la forma più adeguata di sepoltura, che non potrebbe essere religiosa in caso di suicidio.
Il libro è composto di tutte le testimonianze a disposizione sul caso, presentate dall’autore senza altro commento all’infuori di una breve introduzione circostanziale. L’unione in esso di due finzioni, quella del manoscritto ritrovato (il diario di Daniel) e quella di un’indagine giornalistico-poliziesca (le testimonianze dirette e indirette), conferisce all’insieme un’andatura molto tesa, da romanzo giallo. Solo che qui la scelta della soluzione viene devoluta completamente al lettore, al quale però sarà impossibile decidere, nonostante la predominante tentazione per la cifra psicopatologica.
E’ vero infatti che tutto sembra spingere in questa direzione: dall’infanzia di orfano non amato in casa di parenti racchiusi ciascuno nel suo mondo di ricordi, insoddisfazione o fuga religiosa e incapaci persino di comunicare tra loro, all’indole incline all’introversione e alla paura, dalla cui forza Daniel è pure intensamente attratto, come dimostra la predilezione per i racconti di terrore; al fantomatico compagno che, ancora, lo attrae e lo rigetta, lo deruba e lo aiuta, gli distrugge i libri e lo conforta nella sua solitudine, ma che nessuno ha mai visto, a cominciare dalla padrona di casa messa in allarme dalle stranezze dell’inquilino. Ma d’altra parte ci sono il biglietto che questo compagno gli ha veramente lasciato e le caratteristiche della sua rappresentazione che, se si considera l’importanza attribuita al fattore religione, ne fanno più che un doppio o una proiezione psichica, l’incarnazione del demonio.
Più che l’ambiguità, mi sembra regnino l’ambivalenza, il doppio vincolo dello schizofrenico e l’indecidibilità, nel continuo passaggio da una sfera all’altra, la realtà trasformandosi in sogno e racconto e viceversa. Ma forse proprio negli elementi che specificano questo “viceversa” è possibile trovare un ulteriore indizio interpretativo, che comprenda in qualche modo gli altri riconducendoci alle proposizioni di esordio.
Mi riferisco agli unici due racconti esplicitamente introdotti nel diario: quello dell’incubo ripetuto in cui Daniel con progressiva esattezza vive quella che sarà la sua morte nel suo luogo reale, che tuttavia gli è ancora ignoto; e quello, che tanto lo aveva impressionato da bambino, del giovane che, nonostante la maledizione, disobbedisce al divieto paterni perché fey, ossia “spinto verso la morte da un potere irresistibile”; racconti che contengono, sebbene ancora sparsi, tutti gli elementi citati in apertura, e che solo la morte di Daniel, ripetendoli, combina e porta a compimento, a conclusione di una trama lasciata in sospeso dal destino dei suoi genitori, dei quali Daniel ripete la malattia e la morte, senza però commettere l’errore di lasciare altro resto che non sia quello di una (innocua?) finzione.


Julien Green, Passeggero in terra, Serra e Riva, Milano, 1981, £ 5.000


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