29/04/16

Una grazia




Un pomeriggio si accorge di camminare sempre più spesso a occhi bassi, per la necessità di stare attento a dove mette i piedi, perché sul marciapiede, o sulla strada, lo spiazzo sterrato o il prato ci può essere di tutto, e perché tutto può arrivare, da qualunque parte, a colpirlo. Essere svagato, cioè seguire nient’altro che i pensieri, o le fantasie, gli è ormai diventato impossibile, perché pericoloso, e molto difficile fermarsi, se non per un motivo pratico, o un ostacolo o un obbligo, e anche semplicemente alzare lo sguardo verso una cosa qualunque. Si ferma e guarda solo nei momenti e nei luoghi deputati; a fantasticare o a pensare non riesce a dedicarsi se non da solo, in una solitudine ritagliata apposta o conquistata a fatica. Deve andare verso la solitudine, cercarla; e questo proprio quando ognuno è isolato come non mai, ma isolato in mezzo e assieme a tutti gli altri, che gli impediscono di essere solo, che fanno di tutto per aiutarlo a non esserlo distraendolo in ogni modo e con ogni mezzo, e richiedendogli la stessa cosa.
Così, quando poi è solo, non sa più esserlo, ne ha paura, e finisce per cercare subito qualcuno o qualcosa. Quando talvolta accetta di restare solo, è in quanto pausa, intervallo tra un prima e un dopo della cui natura, tuttavia, è in anticipo certo. Abbandonarsi all’interruzione, alla sosta, al pensare a sé e ai fatti propri, magari per ascoltare meglio la voce degli altri, per vedere meglio le cose, diventa così un dono, qualcosa che gli viene concesso dal di fuori, una grazia. E appunto come stati di grazia, indimenticabili proprio in misura della loro eccezionalità, si ritrova a viverli. Senza sapere chi ringraziare.

25/04/16

Una cartolina dalla periferia milanese




Da queste strade non è passato mai nessuno. L’aria, da sé, ha eretto muri e inciso finestre, come tappi avvitati sull’informe. Ed è rimasta lì, a contemplare il suo capolavoro. È auspicabile ne sia soddisfatta. Per convincersene abbozza una corsa, che presto si esaurisce in assenza di alcunché da sollevare. Per terra una macchia di sole si contrae e si dilata, col movimento lento, ma a sussulti, o a spasimi, di un’ameba. L’inferriata della finestra allude a tempi che non ci sono stati. Lo conferma, sospesa a mezz’altezza, la base di colonna appena sbalzata che si stringe al suo fianco, vedova dall’origine. Eppure se la cava bene, lei, tagliata netta dai contorni che il muro ha spinto fuori pur tenendosela ancora avvinghiata, come un primo tentativo di diastole arrestato al di qua della sistole. Per lui, invece, è stato uno sforzo eccessivo, che l’ha prosciugato. Chissà se ne è valsa la pena. Da allora, non gli resta che offrire un supporto alle ombre che si intrecciano e sfumano nella luce indecisa, concrezioni istantanee del niente.
Nemmeno le case di fronte nessuno le sembra abitare. Sfoggiano immacolate geometrie, banali paradigmi di se stesse. Gli spigoli dei balconi sono perfetti, le imposte sono chiuse e le lampadine che pendono dai fili bruciate ancor prima di essere usate, mentre, in alto, un destino nubile consuma le tende mai svolte. Nel cielo le nubi si muovono in fretta, anche il solo transitare su questo resto di idillio è irritante: di esso non rimarrà niente. Ma intanto c’è, comunque sia. È questo il peggio. A novembre il mattino è già freddo, eppure l’aria secca avvolgerebbe con piacere chiunque uscisse da una porta. Nemmeno il gelo sarebbe avvertito. Invece, nel cielo chiaro, a occidente, la testa gonfia della luna si rovescia all’indietro, con gli occhi infossati e smarriti e la bocca semiaperta di chi fatica a respirare perché ha appena vomitato. D’estate, in compenso, al tramonto, il sole è basso, enorme, gonfio oltre misura, ma senza pienezza, come chi ha contravvenuto a tutte le norme igieniche e lo sa, viòla come un iperteso reduce da un banchetto di nozze, come un obeso in fuga. I distruttori qui non ci verranno: tempo da perdere non ne hanno, loro.

19/04/16

Ero poco più di un ragazzo (Ricordi di copertura. 2)

   
 
ma tre anni prima ero andato a Parigi per preparare la tesi, avevo sentito qualche lezione di Derrida in Rue d’Ulm e lo avevo sorpreso dicendogli che stavo scrivendo la tesi proprio su di lui, e lui: “di già?”, ha detto, il che non mi ha impedito la settimana successiva di tradirlo per andare a vedere il festival di Buster Keaton alla cineteca del Trocadero (cosa che spiega perché non sarei mai diventato un filosofo: ma questo già lo sapevo anch’io; il fatto è che non sono diventato neanche uno scrittore: cosa che invece non sapevo ancora)

è il giorno del mio ritorno da Parigi che ho incontrato Angela (23 marzo 1974)

l’estate di Pesaro e Venezia, quella della mia maturità, con un gruppo di amici e amiche avevo risalito con la mia Bianchina, in sacco a pelo e dormendo quasi sempre all’aria aperta, il corso del Reno fino a Colonia, e poi avevamo tagliato attraverso la Germania fino a Monaco, dove avevamo visitato Dachau e io il museo di arte moderna e una mostra di Picasso che mi aveva sconvolto, dalla quale ero venuto via di corsa per non arrivare in ritardo scoprendo però che quelli della mia compagnia, le ragazze in particolare, si erano perse nei grandi magazzini, così che, fuori Dachau, ho litigato con tutti e nel prosieguo del viaggio, tra cui, in un giorno cupo e nebbioso, ci siamo fermati a Mauthausen che mi ha ferito al cuore per sempre, e a Vienna, dove ho visto per la prima volta il Kunsthistoriches Museum, me ne sono stato sempre da solo, senza parlare più con nessuno per giorni e giorni, leggendo in auto, quando non guidavo, Madame Bovary, in una edizione Garzanti con i fogli incollati male, per cui man mano che arrivavo in fondo li strappavo e, con scarso senso civico di cui faccio ora pubblica ammenda, li appallottolavo e uno alla volta li gettavo fuori dal finestrino, e forse era per quel libro che tutto il mondo mi sembrava pieno di cretini, ma poi no, perché ne avevo avuto le prove anche prima, anche se allora non mi ci mettevo nel mezzo io pure, e poi no, no, ancora, perché in fondo continuavo e continuo a voler bene a tutti

l’anno dopo non sono andato più con quella compagnia, che poi sarebbe confluita quasi tutta in quella che ancora non era un’associazione a delinquere, Comunione e Liberazione, come avevo fatto invece quello prima, guidati dal mio professore di filosofia, il primo che si era fatto illusioni su di me (ma come poeta, e per questo voleva presentarmi Fortini che era suo collega nella nuova scuola di Milano, ma io disdegnoso ho detto di no: non so da dove mi venisse tanta presunzione... immagino dall’età e dagli ormoni o dai cattivi maestri di allora, tutti impegnati col mio assenso a portarmi fuori sesto, allora et in vitam  aeternam amen), che avevamo fatto un lungo giro per l’Italia del sud, dormendo in campeggio libero in posti meravigliosi, tra cui la spiaggia di Vieste allora quasi deserta o il greto di un fiume in Lucania o sulla Sila con un cielo stellato che avrei visto ancora solo qualche volta in alta montagna e nel deserto tunisino, io alla guida sempre della Bianchina, ancora con il foglio rosa, senza litigare con nessuno, e anzi sempre a scherzare con tutti come ho fatto per quasi tutta la mia vita, persino adesso qualche volta

è in quel viaggio che abbiamo preso in autostop due giovani romani, che sarebbero rimasti qualche giorno con noi e poi avrebbero raggiunto me e il mio amico Chicco T., a settembre, a Venezia, a un corso di cinema sull’isola di San Giorgio dove, nella Fondazione Cini lì accanto, avrei assistito a una conferenza dell’allora a me sconosciuto Elémire Zolla vicino a un ciccione con la barba di otto giorni che fingeva di dormire russando provocatoriamente perché il conferenziere era di destra, come avrei scoperto che erano i due amici romani, di destra estrema, da una lettera che mi avrebbe scritto tempo dopo uno di loro, un principe o presunto tale la cui sorella sarebbe stata uccisa qualche anno dopo in un caso a lungo chiacchierato sui giornali, che scriveva poesie e frequentava il salotto di Julius Evola, ciò che mi ha indotto a interrompere immediatamente la corrispondenza con lui, che pure mi era sembrato un bravo e simpatico ragazzo, e magari si trattava solo di un abbaglio giovanile, come i tanti che prendono tutti

era anche un periodo che frequentavo i corridoi redazionali della Rizzoli, in via Mecenate, per quanto disprezzassi più o meno tutto quello che pubblicavano, dove andavo a trovare un amico scrittore che aveva pubblicato un paio di romanzi bene accolti e poi ne ha fatto un altro e praticamente è sparito o quasi, come suo fratello, che usava però un altro cognome e è durato un po’ di più ma mica tanto, perché è così che vanno le cose, anche con quelli bravi, e lì, in quei corridoi dove era allineato un numero spropositato di uffici redazionali, si parlava di letteratura, ma più che altro ascoltavo pettegolezzi su autori di cui non mi importava nulla, con lui, che masticava cotone idrofilo invece del chewingum, e un altro paio di persone, non mi azzardo a definirli scrittori, quando c’erano, perché di solito il corridoio era vuoto, negli uffici erano tutti appena usciti o stavano per arrivare o erano al bar, e di quei due uno era figlio di un importante rettore romano, e dell’altro ricordo solo che aveva sempre la schiena a pezzi, per cui, quando c’era, passava il tempo sdraiato sul piano della scrivania opportunamente sgombrato da qualsiasi cartaccia e altra materia di scrittura o di lettura, libri quaderni fogli dattiloscritti penne matite gomme, disprezzando lui pure, come tutti quelli che lavoravano lì, i libri di cui curavano l’edizione e scrivevano memorabili risvolti, meglio, ma molto meglio, a loro dire, delle opere a cui si riferivano, perché con un tasso di invenzione di molto superiore, perché è così che si chiamano le menzogne in letteratura

ma per tornare a Venezia, è lì, durante i festival del 1969 e ‘70, che alle proiezioni del mattino c’era il grande Pietrino Bianchi, ormai quasi cieco, che vedeva le anteprime seduto nel vuoto delle primissime file assieme alla figlia, che poi il giorno dopo leggevi le sue comunque belle e intelligenti recensioni e a volte ti chiedevi che razza di film avesse visto, perché tu ne ricordavi un altro, anche se devo dire che, poco dopo, a Pesaro, quando hanno presentato mi pare per la prima volta in Italia un film di Fassbinder, Katzelmacher, che a me piacque subito moltissimo, l’unico critico a parlarne bene il giorno dopo sui quotidiani è stato lui, forse appunto perché, chissà, aveva visto nel film qualcosa di solo e tutto suo, e magari anch'io, e anzi, a ripensarci, sarà stato proprio così, e appunto questo è il bello
 
che poi Pietro Bianchi l’ho anche incontrato, poche settimane dopo (ottobre 1970), all’esame di ammissione alla scuola civica di cinema di Milano, in via Lodi, e l’ho stupito, lo dico per vantarmi perché tanto cosa altro posso fare?, prima portando come lavori per l’ammissione uno breve saggio su Jean-Marie Straub e scrivendo poi, in una prova scritta come un tema, in un pomeriggio, una breve sceneggiatura tratta da “Funes el memorioso” di Borges, ciò che ci fece molto piacevolmente chiacchierare nel colloquio di ammissione, dialogo che continuò durante le sue lezioni, prima che abbandonassi tutto per aver avuto qualche contrasto con lo sconosciuto che insegnava regia (ma queste sono cose che ho già detto, credo), e soprattutto perché mi ero fatto l’idea che io, lì, non avrei cavato un ragno dal buco, come ho fatto quasi sempre anche dopo, peraltro

però frequentavo i corsi di cinema e teatro in Cattolica dove si era iscritto il mio carissimo amico Ferruccio Merisi, così ho potuto conoscere, grazie a Sisto Dalla Palma, alcuni dei maggiori gruppi sperimentali del periodo, anche frequentando i loro seminari (Odin Teatret, per esempio, e Bread and Puppet, che uno dei suoi attori, tra parentesi,  lo avrei ritrovato qualche anno dopo che giocava a calcio ai giardini del Luxembourg e mi avrebbe invitato a casa sua, dove viveva con la figlia di un vero banchiere svizzero, che io fino allora credevo che fosse una specie mitologica, per una serata dove c’erano 30 persone di 20 nazionalità diverse... sì proprio 20, lo dico perché nella mia sorpresa ingenuità di allora, ero poco più di un ragazzo, le ho contate...), e gli allora giovani Francesco Casetti e Alberto Farassino, giovanissimi assistenti di Gianfranco Bettetini, che un giorno, dopo il mio ennesimo intervento, mi chiese com’è che non mi aveva mai visto agli esami... per forza, ero iscritto alla Statale!

ero sempre poco più di un ragazzo, e lo sono tuttora



14/04/16

La sbarra sugli occhi



Mentre sto leggendo sul balcone, sul lato in ombra della casa, nel mattino già afoso di questa afosissima estate, oltre il giardino vedo passare in bici una giovane donna, bionda e minuta, col figlioletto accomodato su un seggiolino alle sue spalle. La guardo, la vedo, ma è come se non la vedessi. Infatti la sbarra trasversale dell’inferriata le sega a metà la testa all’altezza del naso e degli occhi. La seguo con lo sguardo sperando nell’apertura del cancello alla mia sinistra non dico per riconoscerla (mi sembra di non averla mai vista prima), ma quanto meno per farmi un’idea completa del suo viso. Devo vederlo, è necessario che lo veda, mi dico, anche se non so perché, anche se sono lontanissimo da qualsiasi curiosità erotica o d’altro genere. Anzi, la necessità è più impellente proprio perché vuota, immotivata. Invece, quando la ciclista arriva al cancello, che nel mio condominio non è mai stato chiuso negli ultimi quindici anni, l’estrema propaggine orizzontale di un ramo del cedro che mi sta di fronte prosegue con sardonica precisione il lavoro di ostruzione della sbarra trasversale, fino a quando non inizia la siepe che recinge i bidoni della spazzatura, che esclude ogni vista ulteriore.
Dopo un quarto d’ora, durante il quale proseguo la lettura mentre il retrobottega della mia testa annebbiata dal caldo e dal fumo dell’ennesima sigaretta si fissa con desolante insistenza su questo passaggio che difficilmente potrà ripetersi, la donna ritorna. Mi accorgo di lei quando ha già passato il breve intervallo vuoto del cancelletto d’ingresso al condominio alla mia destra, anch’esso aperto ininterrottamente da almeno quindici anni. La donna pedala con questa striscia marrone che le cancella la parte mediana del viso, con la fronte e la sommità del cranio che scivolano autonome a mezz’aria lungo un piano che sembra puntare con decisione verso il prato al di là della curva che la strada opera seguendo i confini del giardino, mentre le narici, la mascella e il mento restano collegati al corpo sottostante che a questo punto mi accorgo di non aver nemmeno guardato, come se fosse stato privato di ogni interesse dall’impossibilità di definire gli occhi e la sella del naso. Invece di aiutarmi a ricomporre la parte mancante, l’insieme ne è stato prima frantumato e poi cancellato. Aguzzo lo sguardo ma la ciclista è scomparsa, non l’ho vista nemmeno svoltare. Al suo posto resta solo la linea continua della sbarra che, noto adesso, dalla parte che guarda verso di me è cava.

12/04/16

Appunti a margine



... che ormai non so fare altro, mi sembra, e mi sembra di non essere il solo, che prendere appunti, che evitano accuratamente di affrontare gli aspetti più importanti di ciò che mi ha indotto a scriverli (opere, eventi, esperienze, persone...) e si attorcigliano su se stessi ai loro margini, in attesa, spesso delusa, di tardive cuciture che li imbastiscano in fragili insiemi che si protendono in tutte le direzioni tranne che verso il centro, ammesso che ci sia, sempre fuori, verso l’esterno, in allontanamento... In fuga.

08/04/16

Muoiono solo i vecchi



C’è questo paesino dove i giovani muoiono di nascosto, in segreto.
Gli annunci mortuari sfoggiano sempre, quasi vantandosi, decessi di ultraottantenni, ma più numerosi ancora sono i novantenni e non rari i centenari.
Poi uno capita per caso nel piccolo cimitero e verso il fondo si imbatte in una fila di tombe in cui sono sepolti esclusivamente uomini e, più numerose, donne di venti-trent’anni, più un paio di quarantenni controbilanciati da tre adolescenti e un bambino. Lì, in un cantuccio, come in un ghetto. Qualcosa che non si può negare, ma almeno se ne stia per conto suo, lontano dagli occhi, separato.


01/04/16

Grazie, signora Maria



 - Pronto, signora Maria, mi riconosce?
 La cartomante, mentre le mani poco inanellate raccolgono dal tavolo i tarocchi della precedente telefonata, alza gli occhi verso la telecamera e la fissa come a cercare un indizio.
- Possibile che non mi riconosce, signora Maria? Sono Elisa...
- Elisa...?
- Sì, Elisa... Non si ricorda?
- Oh, certo! Come sta, signorina Elisa? Mi scusi, ma la sua voce mi giunge disturbata. Regia, per favore... Lei come mi sente?
- Io bene, ma anch’io sento la mia voce poco chiara nella televisione.
- Non importa, signorina Elisa, si capisce lo stesso, non è il caso di preoccuparsi. Ma mi dica: lei come sta? Sta meglio? Ha iniziato la nuova cura?
- È proprio per questo che le telefono, signora Maria. Sapesse...
- Mi dica.
Mischia le carte e comincia a disporle in varie direzioni sul panno del tavolo, fino a comporre una figura a raggiera.
- Sapesse come sto male... Io non capisco... Sa quelle iniezioni che le avevo detto? Ho dovuto interromperle... Non capisco... stavo peggio di prima.
- E adesso non prende più niente?
- Adesso il dottore mi ha dato una nuova cura, è tanto bravo, ma non è che le cose siano cambiate gran che. Sì, sto meglio coi miei dolori, ma ho sempre brutte reazioni... non le reggo nemmeno queste, di iniezioni... le devo alternare un giorno sì e uno no... e quando non le faccio sto peggio di prima, signora Maria.
La signora Maria volta le prime carte della fila esterna della raggiera e le osserva con attenzione. Reprime una smorfia. La trasforma in sorriso senza soluzione di continuità.
- Oh, signorina Elisa... ma lei non è allergica solo a questo tipo di medicinali! Qui vedo che le sue allergie sono tante... Eh sì, tante...
- Proprio così... Sapesse quanti ne ho provati, signora Maria... non so più cosa fare... Anche il dottore mi sembra che non sa più da che parte voltarsi... “Non capisco,” dice. “È strano, una cosa del genere non mi è mai capitata... Va be’, proviamo anche questa, allora...”, dice. Ma io...?
- Su, su, signorina Elisa... Cosa sono le iniezioni che le ha dato adesso: ricostituenti?
- Sì...
- È mai possibile che sia allergica anche alle vitamine?
Alza di nuovo la testa, come sorpresa, verso la telecamera e volta altre carte. Guarda con attenzione anche queste, raddrizzando con l’indice e il medio quelle un po’ sbilenche. Nel telefono si sente il respiro della signorina Elisa e un cane che abbaia.
- Sento che c’è Sissi, lì con lei. Come stai, Sissi? La tua padrona ti dà preoccupazioni?
- Oh, lei sta benone, signora Maria, grazie... eccome se sta bene... Sente che la saluta? Sì, Sissi... è la signora Maria, non senti che ti saluta? Su, fai la brava adesso... Ci scusi...
- Eh sì, purtroppo è allergica anche a queste vitamine. Strano... (Volta le ultime carte.) È una questione complicata... Ma cosa succede? Mi sente, signorina Elisa? È saltata la linea... Pronto?
- Sì, pronto. Buona sera, signora Maria, sono Giovanna, vorrei sapere se riuscirò ad avere una casa mia...
- Mi scusi, signora Giovanna, ma stavo parlando con la signorina Elisa... Se è così gentile da voler attendere... Cosa è successo, regia? Ah, ecco... Pronto, signorina Elisa? È saltata la linea... mi sente adesso?
- Sì, la sento... adesso la sento meglio...
- Dicevo che la questione è complicata, che dovrebbe venirmi a trovare in studio, uno di questi giorni... qui non c’è tempo... E poi...
- Sì, sì, lunedì telefono per prendere un appuntamento...
- Dica alla signora Rossella di essere la signorina Elisa, le ricordi che ha già parlato con me in televisione e vedrà che un posto per lei lo faremo saltare fuori...
- Oh grazie... Ma intanto cosa devo fare?
- Continui con la cura, signorina Elisa. Mi raccomando, non smetta, e se non regge le iniezioni ogni giorno, continui ad alternarle; ma non smetta.
- Due al giorno me ne ha prescritte il dottore, si figuri, ma proprio non ce la faccio più, non ce la faccio... Non ce la faccio se smetto e non ce la faccio a continuare... Sto male, signora Maria... non sono più in grado nemmeno di...
- Ma cosa succede stasera? Pronto...? È saltata la linea un’altra volta... Pronto?
- Pronto, signora Maria? Sono ancora Giovanna...
- Mi scusi, signora Giovanna, ma dev’essere saltata un’altra volta la linea... Abbia pazienza ancora per un po’...
- Sì, mi scusi...
- Ma si figuri, non è colpa sua... Regia? Ah ecco... Signorina Elisa, è ancora lì?
- Sì, sono qui... Cosa è successo?
- Niente, è saltata la linea un’altra volta. Càpita... Le dicevo di non abbattersi, signorina Elisa, vedrà che una soluzione la troveremo... Una soluzione c’è, la sua malattia non è così grave... E soprattutto non si metta in testa brutte idee...
- Sì, sì, signora Maria, grazie. Speriamo... Ma sapesse, non ce la faccio più... Tutte le ho provate, tutte... Stai ferma, Sissi... Oh, mi scusi...
- Mi ascolti, signorina Elisa, mi ascolti: per prima cosa non deve abbattersi in questo modo. Lo so che sta male, ma vedrà che troveremo il rimedio adatto, abbia fiducia... Le ripeto, la sua malattia non è così grave, e lei non deve peggiorare le cose abbattendosi inutilmente... Si faccia forza.
- Speriamo, signora Maria, speriamo...
- Senta, facciamo così... Lei abita sempre a...?
- Sì.
- Bene... Allora non c’è bisogno che telefoni lunedì. Domani io sono nel mio studio di Cremona e potrei, la sera, verso le nove-novemmezza, quando ritorno, fermarmi io da lei, se non ha impegni...
- Impegni? Oh no, certo! Lei piuttosto... No, no... non voglio che si disturbi per me...
- Ma cosa dice? Si figuri... Sono sulla strada, nessun disturbo... Sì, sì, facciamo così: domani sera passo io da lei e vedremo cosa si può fare...
- Ma la prego, signora Maria...
- No, è deciso: alle nove sono da lei. E mi raccomando, si faccia coraggio...
- Sì, signora Maria, certo... E grazie... grazie, signora Maria.