19/04/16

Ero poco più di un ragazzo (Ricordi di copertura. 2)

   
 
ma tre anni prima ero andato a Parigi per preparare la tesi, avevo sentito qualche lezione di Derrida in Rue d’Ulm e lo avevo sorpreso dicendogli che stavo scrivendo la tesi proprio su di lui, e lui: “di già?”, ha detto, il che non mi ha impedito la settimana successiva di tradirlo per andare a vedere il festival di Buster Keaton alla cineteca del Trocadero (cosa che spiega perché non sarei mai diventato un filosofo: ma questo già lo sapevo anch’io; il fatto è che non sono diventato neanche uno scrittore: cosa che invece non sapevo ancora)

è il giorno del mio ritorno da Parigi che ho incontrato Angela (23 marzo 1974)

l’estate di Pesaro e Venezia, quella della mia maturità, con un gruppo di amici e amiche avevo risalito con la mia Bianchina, in sacco a pelo e dormendo quasi sempre all’aria aperta, il corso del Reno fino a Colonia, e poi avevamo tagliato attraverso la Germania fino a Monaco, dove avevamo visitato Dachau e io il museo di arte moderna e una mostra di Picasso che mi aveva sconvolto, dalla quale ero venuto via di corsa per non arrivare in ritardo scoprendo però che quelli della mia compagnia, le ragazze in particolare, si erano perse nei grandi magazzini, così che, fuori Dachau, ho litigato con tutti e nel prosieguo del viaggio, tra cui, in un giorno cupo e nebbioso, ci siamo fermati a Mauthausen che mi ha ferito al cuore per sempre, e a Vienna, dove ho visto per la prima volta il Kunsthistoriches Museum, me ne sono stato sempre da solo, senza parlare più con nessuno per giorni e giorni, leggendo in auto, quando non guidavo, Madame Bovary, in una edizione Garzanti con i fogli incollati male, per cui man mano che arrivavo in fondo li strappavo e, con scarso senso civico di cui faccio ora pubblica ammenda, li appallottolavo e uno alla volta li gettavo fuori dal finestrino, e forse era per quel libro che tutto il mondo mi sembrava pieno di cretini, ma poi no, perché ne avevo avuto le prove anche prima, anche se allora non mi ci mettevo nel mezzo io pure, e poi no, no, ancora, perché in fondo continuavo e continuo a voler bene a tutti

l’anno dopo non sono andato più con quella compagnia, che poi sarebbe confluita quasi tutta in quella che ancora non era un’associazione a delinquere, Comunione e Liberazione, come avevo fatto invece quello prima, guidati dal mio professore di filosofia, il primo che si era fatto illusioni su di me (ma come poeta, e per questo voleva presentarmi Fortini che era suo collega nella nuova scuola di Milano, ma io disdegnoso ho detto di no: non so da dove mi venisse tanta presunzione... immagino dall’età e dagli ormoni o dai cattivi maestri di allora, tutti impegnati col mio assenso a portarmi fuori sesto, allora et in vitam  aeternam amen), che avevamo fatto un lungo giro per l’Italia del sud, dormendo in campeggio libero in posti meravigliosi, tra cui la spiaggia di Vieste allora quasi deserta o il greto di un fiume in Lucania o sulla Sila con un cielo stellato che avrei visto ancora solo qualche volta in alta montagna e nel deserto tunisino, io alla guida sempre della Bianchina, ancora con il foglio rosa, senza litigare con nessuno, e anzi sempre a scherzare con tutti come ho fatto per quasi tutta la mia vita, persino adesso qualche volta

è in quel viaggio che abbiamo preso in autostop due giovani romani, che sarebbero rimasti qualche giorno con noi e poi avrebbero raggiunto me e il mio amico Chicco T., a settembre, a Venezia, a un corso di cinema sull’isola di San Giorgio dove, nella Fondazione Cini lì accanto, avrei assistito a una conferenza dell’allora a me sconosciuto Elémire Zolla vicino a un ciccione con la barba di otto giorni che fingeva di dormire russando provocatoriamente perché il conferenziere era di destra, come avrei scoperto che erano i due amici romani, di destra estrema, da una lettera che mi avrebbe scritto tempo dopo uno di loro, un principe o presunto tale la cui sorella sarebbe stata uccisa qualche anno dopo in un caso a lungo chiacchierato sui giornali, che scriveva poesie e frequentava il salotto di Julius Evola, ciò che mi ha indotto a interrompere immediatamente la corrispondenza con lui, che pure mi era sembrato un bravo e simpatico ragazzo, e magari si trattava solo di un abbaglio giovanile, come i tanti che prendono tutti

era anche un periodo che frequentavo i corridoi redazionali della Rizzoli, in via Mecenate, per quanto disprezzassi più o meno tutto quello che pubblicavano, dove andavo a trovare un amico scrittore che aveva pubblicato un paio di romanzi bene accolti e poi ne ha fatto un altro e praticamente è sparito o quasi, come suo fratello, che usava però un altro cognome e è durato un po’ di più ma mica tanto, perché è così che vanno le cose, anche con quelli bravi, e lì, in quei corridoi dove era allineato un numero spropositato di uffici redazionali, si parlava di letteratura, ma più che altro ascoltavo pettegolezzi su autori di cui non mi importava nulla, con lui, che masticava cotone idrofilo invece del chewingum, e un altro paio di persone, non mi azzardo a definirli scrittori, quando c’erano, perché di solito il corridoio era vuoto, negli uffici erano tutti appena usciti o stavano per arrivare o erano al bar, e di quei due uno era figlio di un importante rettore romano, e dell’altro ricordo solo che aveva sempre la schiena a pezzi, per cui, quando c’era, passava il tempo sdraiato sul piano della scrivania opportunamente sgombrato da qualsiasi cartaccia e altra materia di scrittura o di lettura, libri quaderni fogli dattiloscritti penne matite gomme, disprezzando lui pure, come tutti quelli che lavoravano lì, i libri di cui curavano l’edizione e scrivevano memorabili risvolti, meglio, ma molto meglio, a loro dire, delle opere a cui si riferivano, perché con un tasso di invenzione di molto superiore, perché è così che si chiamano le menzogne in letteratura

ma per tornare a Venezia, è lì, durante i festival del 1969 e ‘70, che alle proiezioni del mattino c’era il grande Pietrino Bianchi, ormai quasi cieco, che vedeva le anteprime seduto nel vuoto delle primissime file assieme alla figlia, che poi il giorno dopo leggevi le sue comunque belle e intelligenti recensioni e a volte ti chiedevi che razza di film avesse visto, perché tu ne ricordavi un altro, anche se devo dire che, poco dopo, a Pesaro, quando hanno presentato mi pare per la prima volta in Italia un film di Fassbinder, Katzelmacher, che a me piacque subito moltissimo, l’unico critico a parlarne bene il giorno dopo sui quotidiani è stato lui, forse appunto perché, chissà, aveva visto nel film qualcosa di solo e tutto suo, e magari anch'io, e anzi, a ripensarci, sarà stato proprio così, e appunto questo è il bello
 
che poi Pietro Bianchi l’ho anche incontrato, poche settimane dopo (ottobre 1970), all’esame di ammissione alla scuola civica di cinema di Milano, in via Lodi, e l’ho stupito, lo dico per vantarmi perché tanto cosa altro posso fare?, prima portando come lavori per l’ammissione uno breve saggio su Jean-Marie Straub e scrivendo poi, in una prova scritta come un tema, in un pomeriggio, una breve sceneggiatura tratta da “Funes el memorioso” di Borges, ciò che ci fece molto piacevolmente chiacchierare nel colloquio di ammissione, dialogo che continuò durante le sue lezioni, prima che abbandonassi tutto per aver avuto qualche contrasto con lo sconosciuto che insegnava regia (ma queste sono cose che ho già detto, credo), e soprattutto perché mi ero fatto l’idea che io, lì, non avrei cavato un ragno dal buco, come ho fatto quasi sempre anche dopo, peraltro

però frequentavo i corsi di cinema e teatro in Cattolica dove si era iscritto il mio carissimo amico Ferruccio Merisi, così ho potuto conoscere, grazie a Sisto Dalla Palma, alcuni dei maggiori gruppi sperimentali del periodo, anche frequentando i loro seminari (Odin Teatret, per esempio, e Bread and Puppet, che uno dei suoi attori, tra parentesi,  lo avrei ritrovato qualche anno dopo che giocava a calcio ai giardini del Luxembourg e mi avrebbe invitato a casa sua, dove viveva con la figlia di un vero banchiere svizzero, che io fino allora credevo che fosse una specie mitologica, per una serata dove c’erano 30 persone di 20 nazionalità diverse... sì proprio 20, lo dico perché nella mia sorpresa ingenuità di allora, ero poco più di un ragazzo, le ho contate...), e gli allora giovani Francesco Casetti e Alberto Farassino, giovanissimi assistenti di Gianfranco Bettetini, che un giorno, dopo il mio ennesimo intervento, mi chiese com’è che non mi aveva mai visto agli esami... per forza, ero iscritto alla Statale!

ero sempre poco più di un ragazzo, e lo sono tuttora



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