31/05/21

Due cose pensate leggendo (se questo è pensare)


Questa di ieri (30-05-21)

 

Morirò avendo imparato qualcosa
sul cervello degli imenotteri,

ho pensato leggendo,

e niente di significativo sul mio,

come su qualsiasi altra cosa.

(Con tutto che imparare, oggi come oggi, è la cosa al mondo che preferisco.)

 


E questa di poco fa (31-05-21):

 

e più tardi ho pensato, sempre leggendo,
ma leggendo altro (perché a me capita di pensare,

se questo è pensare,
solo leggendo),

che non è vero che ci sono alcuni, o molti,

che valgono di più della loro opera,

perché l'opera vale di più del suo autore,

sempre e comunque, e questa

è la peggior cosa che all'autore possa capitare.

Perché se uno dice a qualcuno (mi dice)
che lui (io) vale di più della sua (della mia opera,
significa che l'opera vale davvero poco, 

e quindi che lui (io), che l'ha scritta,
vale meno ancora.
Un'offesa, per quanto spesso involontaria,
che andrebbe lavata col sangue.

Ancor di più se involontaria, anzi.

Perché la verità dell'offesa

vale di più della volontà di infliggerla.

E di più del povero cretino che l'ha ricevuta

e dell'ancor più cretino che l'ha inflitta.

Eppure la verità resta,
ed è questa la condanna di entrambi.

Come sapeva Kafka, che ce l'ha consegnata

senza volerla insegnare,
rendendola in tal modo definitiva per tutti.

Lui compreso. Perché anche lui,

pur così immenso nella sua debolezza,

era meno della sua opera, che lui reputava

infinitamente meno di quello che aveva in testa

e a cui ambiva, conseguendolo però

proprio col suo fallimento.

Senza sfuggire con questo alla condanna,

e anzi, come si sa, eseguendola lui stesso.

 

28/05/21

Harold Bloom, La Kabbalà e la tradizione critica (1981)


Maghi, artisti, mistici, astrologi, giocatori del lotto, parapsicologi, apocalittici, cartomanti, esoterici, bricoleur della cultura e robivecchi, nella Kabbalà ognuno ha potuto trovare quello che cercava; eppure nessuno prima di Harold Bloom ha saputo scorgervi uno degli aspetti più evidenti, e cioè, se appena si considera l’importanza fondamentale che in essa viene attribuita alla parola, una teoria della retorica e della poesia. Neanche i poeti, che certo la Kabbalà l’hanno spesso frequentata e che pure di retorica e linguaggio qualcosina dovrebbero saperne. Ma il merito di Bloom non consiste tanto nella priorità della scoperta, che di per sé sarebbe forse solo una curiosità, quanto nell’aver elaborato a partire da essa un discorso denso e complesso su ciò che implica leggere, scrivere e interpretare la poesia nella modernità (da Milton in poi, prospettiva anglosassone).

Il collegamento sarebbe perlomeno difficoltoso tuttavia se la Kabbalà, che significa “tradizione”, non fosse secondo Bloom, insieme alla Gnosi ma in modo ben più interessante, il primo modernismo. Non solo, ma non avesse anche col nostro tempo più di una sottile parentela. Per questo è già possibile trovare in essa, completamente e minutamente articolati, i pattern, i meccanismi, i tropi e la dialettica costruttiva e interpretativa che saranno poi tipici della poesia moderna. Come il poeta moderno infatti anche il kabbalista ha davanti a sé un corpus consolidato e immutabile che gli impedisce l’accesso alla creazione e all’originalità obbligandolo ad affrontare non “l’universo, ma i precursori”, abitatore dell’esilio e della tardività oppresso dall’ “angoscia dell’influenza”, che può trovare il suo solo ambito di azione nel fraintendimento della tradizione, vale a dire attuando una “dialettica del revisionismo”.

Solo che questa pratica, adottata per forza di cose da Milton in poi, non è mai stata teoricamente esplicitata dai moderni, mentre invece è rintracciabile come meglio non si spererebbe nella Kabbalà, non appena si interpretino in questa direzione i concetti teologici, mistici e mitopoietici presenti nello Zohar e nell’opera di Moses Cordovero e Isaac Luria. Sarà allora possibile rinvenire, anche nelle componenti psicologiche ed esistenziali, le principali figure retoriche della poesia moderna e le modalità della loro articolazione concreta, organizzata in quella che Bloom chiama la “teoria dell’influenza, (che) contempla relazioni causali che agiscono anche in senso inverso”. Teoria che è stata evidenziata per primo da Cordovero con l’invenzione delle sei behinot, designanti i multiformi aspetti che convivono dentro ogni sefirah, aspetti che spiegano i legami esistenti tra le diverse sefiroth (cioè gli attributi emanati da Dio), e corrispondenti a: 1) l’ironia che traduce la dialettica presenza-assenza; 2) la sineddoche, attraverso la quale “la poesia nascosta nel testo poetico precursore emerge dal suo nascondimento”; 3) la metonimia, cioè “l’elemento precario che in ogni poesia tenta l’illusione dell’autosufficienza e dell’unità”; 4) l’iperbole, che rovescia “pragmaticamente causa e effetto”; 5) la metafora, che “mette l’uno contro l’altro il dentro e il fuori”; 6) la metalessi, che “comporta un aspetto di anteriorità che segue a uno di posteriorità”.

L’interazione di questi elementi, anche nel loro risvolto di “difesa psichica”, sta alla base di ogni immagine intratestuale, espressione necessaria di un “rapporto revisionistico” che si erge ogni volta a tradizione travisando ogni precedente interpretazione. Tanto più forte è l’opera che ne scaturisce quanto più forte è il travisamento su cui si basa e che a sua volta essa richiede, in quanto “solo i poeti minori o deboli (…) possono essere letti fedelmente” poiché, limitandosi essi a ripetere, “non fanno paura a nessuno”.

Aver individuato i rapporti revisionisti non basta però, occorre anche decifrare la loro dialettica; ciò che Bloom fa con l’apporto delle figure dello zimzum, della shevirah e del tikkun elaborate da Luria, che corrispondono ai momenti della limitazione, della catastrofe/creazione e della restaurazione. Il primo di questi momenti, le cui immagini “si imperniano sull’assenza, il vuoto e l’esteriorità” è la manifestazione di una “domanda eccessiva” di linguaggio rispetto a una “scarsità di significato raggiunta”, così che “la rappresentazione non può riempire il vuoto dal quale si alza il desiderio di poesia” e dà luogo a un “processo di limitazione della funzione immaginativa, il quale fa sorgere una serie di meccanismi di difesa della limitazione: formazione di processi reattivi, dissociazione, isolamento e regressione: il tutto culminante nella sublimazione”.

Il secondo momento è quello della sostituzione, cioè “il processo effettivo mediante cui operano le poesie” e spiega anche “il fattore di autonegazione che è presente in ogni poesia, (…) la retoricità dei testi poetici, la coscienza verbale che si fa sempre più intensa col passare del tempo”.

Il terzo momento infine è quello della rappresentazione e implica “tre transizioni o sostituzioni: dall’ironia alla sineddoche, nella quale l’assente viene reso presente, e perciò viene ri-presentato; dalla metonimia all’iperbole, in cui qualcosa di svuotato viene di nuovo innalzato a una pienezza; dalla metafora alla metalessi, in cui qualcosa di esterno viene posto in un tempo interno, un tempo-a-venire”.

Ogni poesia moderna viene ad essere così costituita e iper-determinata da “pattern fondamentali di reciproci rimandi tra significati letterali e significati figurativi”, di modo che il significato non viene “prodotto nelle o dalle poesie, ma nasce tra le poesie”, un significato errante che “erra per difendersi”. Diventa così comprensibile perché non possa darsi in poesia un tempo presente, e non ci sia “anzi alcuna presenza, nessuna pienezza di significato di nessun genere”.

Dove sta allora la poesia? “La vera poesia è costituita dalla mente del critico”, cioè da colui che costituisce il testo travisandolo nella lettura, sia esso “poeta”, “critico” o “lettore” nell’accezione tradizionale di questi termini. Risultato persino ovvio da che è l’interpretazione, altro nome per “revisionismo”, a reggere tutto il gioco.

Ancora e sempre Nietzsche, dunque? Il riferimento suona persino ovvio, non solo perché Nietzsche è più volte utilizzato, direttamente e non, nel testo di Bloom, ma ancor più se si pensa all’intonazione chiaramente “francese” di più d’una delle sue assise teoriche (anche se questa forma di influenza su Bloom è a volte mascherata dal silenzio o denegata mediante stoccate di passaggio, più che con critiche: Derrida, Foucault, Deleuze e Kristeva non sono lontani come la Kabbalà infatti); solo che poi arriva la sorpresa: sì, anche Nietzsche, ma soprattutto Emerson. Non per niente Bloom è americano, per dirla alla spicciolata. Emerson al posto di Nietzsche traduce infatti nel presente contesto una tendenza vitalistica e volontaristica, e sotto sotto anche ottimista, estranea alla nostra cultura e che tanto meno sarebbe deducibile da Nietzsche. Perché a Bloom preme che sia possibile al lettore “conferire una maggiore centralità alle sue mis-letture” rispetto a qualsiasi altra, ciò che sarebbe alquanto difficoltoso con “la metafora prospettivizzante di Nietzsche (la quale) necessariamente decentra” aumentando sempre più la distanza tra il lettore e il testo.

Due parole, infine, per chiudere questa specie di perverso circolo ermeneutico con annesse istruzioni-su-come-essere-felice-nella-tardività: nonostante alcuni concetti non siano originalissimi, originale, ci sembra, è il sistema in cui sono immessi. L’esposizione delle dottrine Kabbalistiche è chiara e organica (per certi aspetti più che in Scholem), feconda la sua interpretazione “virale” (da influenza) dei tropi; e se anche per questo circolo ermeneutico vale quanto ha detto Heidegger, che “l’importante non sta nell’uscirne fuori, ma nello starvi dentro nella maniera giusta”, non si può negare che Bloom nel suo ci stia molto bene.

 (da Il piccolo Hans, 1981)

24/05/21

Donchisciotterie (1984)



A - Settimana scorsa ho iniziato un nuovo romanzo.

B - Addirittura! Tutto d’un colpo e senza preavviso.

A- Veramente è da parecchio che ci sto rimuginando, e adesso, in pochi giorni, ho scritto un intero capitolo, venti pagine fitte già dattiloscritte.

B-  E di che cosa si tratta?

A- Beh, veramente l’idea non è originalissima: una specie di scatola cinese di metafore, ognuna che ne racchiude e ne genera altre. Cose risapute, almeno a parlarne così, astrattamente.

B-  Uno che non voglia deprimersi può sempre pensare che si tratta di un argomento, o di un meccanismo, eterno. Ma in concreto?

A- Saranno cinque capitoli, cioè sei. Quello che ho scritto è il secondo.

B-  Qualcosa tra Borges e Manganelli? Un commento, o sviluppo di un testo che non c’è? Speriamo di no.

A- No, perché il primo capitolo del mio libro è già stato scritto, esiste veramente. Si tratta di un libro non molto noto… però può darsi che qualcuno lo abbia letto… per quanto il titolo…

B-  Sarebbe?

A- …Don Chisciotte

B-  (in contropiede, con espressione di sorpresa) –   lunghetto come il primo capitolo…

A-(serissimo) – Sai, ci sono tre don Chisciotte: quello di Cervantes, che lo è, si comporta come tale e come tale si conosce e viene conosciuto; poi c’è quello di Sterne, il Tristram Shandy cioè, perché come sai Sterne aveva presente l’originale e voleva rifarlo…

B-  Non lo sapevo. Dimmi…

A- (non dice nulla… poi continua) - …e il terzo è il mio, nel quale il protagonista non sa di essere Don Chisciotte, o magari lo sa ma non vuole assolutamente farlo sapere. E difatti nessuno lo sa.

B-  Il modo migliore per non farlo sapere sarebbe che non si comportasse nemmeno lontanamente da Don Chisciotte, o che addirittura non lo sapesse nemmeno lui… anzi, nemmeno colui che scrive…

A- Non è così semplice né così facile…

Arriva altra gente e li interrompe: è la pausa tra due serie di relazioni, uno dei momenti più appetiti dei convegni, quello degli abbracci e dei saluti, degli accordi per il pranzo e dei complimenti, del sangue incatramato che rifluisce nei piedi. A e B erano usciti in anticipo: B per fumare perché era stufo, A qualche minuto dopo perché era stufo e basta.

 

21/05/21

La penna caricata ad acqua

In un intervento dal titolo Popolo di scriventi, pronunciato al convegno Testo e prodotto organizzato a Venezia dall’Istituto Gramsci e ora pubblicato sul n. 7 di "L'ozio letterario", il poeta Maurizio Cucchi, riprendendo un’opinione diffusa anche presso coloro che intende colpire, scaglia l’ennesimo anatema contro l’orrenda metastasi della scrittura scatenatasi a suo avviso nell’ultimo decennio e col tono apocalittico di rigore ne fa un’analisi tanto spietata da provocare l’immediata reazione del lettore, fastidio, approvazione o sospetto che sia.

Cosa non riesce a digerire, Cucchi? Non solo che ci sia tanta gente che scrive (soprattutto poesie): è un vizio nazionale ben più antico dei primi anni Settanta, ma che le vecchie talpe ora escano allo scoperto e vogliano tutte pubblicare, che moltissime addirittura lo facciano per davvero, non è ben chiaro su quale tipo di carta e col permesso di chi, e che i poveri poeti veri, o non sia facile riconoscerli o vengano poco o niente letti una volta riconosciuti (perché è evidente che chi scrive non ha tempo di leggere, o legge male: solo amici o parenti cioè, trascurando colpevolmente le vie regie).

Per di più in questa miriade tutti, dal primo all’ultimo, dimostrano una sfacciataggine inaudita: sommergono gli spauriti redattori delle case editrici, come Cucchi, con le proverbiali montagne di manoscritti; esigono risposte entusiastiche e pubblicazione immediata e prestigiosa, non risparmiando la vita privata di nessuno oltre, sempre in questua di favori, recensioni, raccomandazioni, e sempre pronti, nel caso di una risposta pur cortese o incoraggiante ma negativa, ad accusare le solite fantomatiche cricche che ovviamente esistono solo nelle loro teste paranoiche. (Del resto, se anche esistessero, che interessi avrebbero da difendere, quali inesistenti tirature o industrie culturali? Quale potere?)

Quand’anche poi qualcuno fosse talentuoso e meritevole, come individuarlo nel frastuono generale? Tanto più che schifezze vere e proprie non ce ne sono moltissime: un minimo di professionalità e di malizia, qualche trucchetto ormai li hanno imparati tutti. Beati gli antichi, in pochi a scrivere e con relativamente poco, ma tutto buono, da leggere e da approfondire.

La condanna è il numero: “Ogni anno tra le riviste, antologie, almanacchi, collettivi, buone collane medie, escono centinaia di autori”! E’ impossibile starci dietro, anche animati dalla migliore volontà! Figuriamoci lo strazio per chi vi è costretto per guadagnarsi il pane. (Senza contare che, coscienza impone, qualche voce valida potrebbe nascondersi anche nelle cattive collane inferiori o nei fogli disseminati per l’orbe terracqueo). La sorte è comunque segnata per tutti: sparire. Gocce d’acqua nel mare dell’omogeneità, sono condannati a scrivere “con una penna caricata ad acqua”, diluiti proprio in quell’anonimato universale dal quale tutti, scrivendo, intendevano emergere, molti addirittura senza soffrire, nemmeno, tracotanti, “di un’identità perduta in un rapporto col reale sempre più precario, aleatorio, frustrato da infiniti strati di intermediazione”.

“Qualcuno dovrà ricominciare altrove”, termina Cucchi. Sospetto che, giusto per cominciare a ricominciare, Cucchi auspicherebbe una buona purga (sorvolo sulla marca). O forse bisognerebbe smetterla con l’alfabetizzazione, o magari insegnare solo a leggere e non a scrivere, ai comuni mortali. O ancora distinguere con rigore linguaggi e usi specifici: il salumiere confinato al suo, l’operaio e la maestra pure, mantenendo una koinè superiore, a sua volta rigorosamente delimitata, per gli scambi interpersonali. Magari fosse possibile intendersi solo a gesti! O ancora si potrebbe riservare agli scrittori veri un tipo di inchiostro speciale, così gli altri potrebbero addirittura continuare a scrivere ma senza creare indebite confusioni. Altrimenti c’è il rischio che ritornino nell’anonimato, dal quale peraltro non intendevano certo uscire scrivendo, anche i poeti laureati. O forse Cucchi auspica l’avvento di élites patentate, sorta di ingegneri del traffico a smistare, dirigere, deviare ciascuno verso la strada che gli attiene per natura? In base a quale metro scegliere? L’esperienza? La notorietà? (sempre presso amici e parenti, dato che nessuno legge)? Quelli che ci sono già?

Intanto però, sia detto senza animosità, anche lui è incapace di negare ad amici e conoscenti, che magari rientrano nella categoria che deplora, prefazioni o risvolti di copertina, promuovendoli con la sua indubbia competenza. Questione di buona educazione e di gentilezza innata. E’ capitato un paio di volte anche a me, nel mio piccolo s’ intende.

Però io non me la sentirei di prostrarmi, né di lanciare appelli camuffati di analisi oggettive, per la troppa gente che scrive.

In fondo scrivere è innocuo. Meglio scrivere che sparare a uccelli o a altri bersagli animati. Meglio scrivere che sentire la radio a tutto volume: scrivere non disturba nemmeno i vicini. Non aumenta la disoccupazione (chiedere ai tipografi); non è più inutile di una partita a scacchi, ed è almeno altrettanto intelligente (o stupido, a seconda delle opinioni).

Inoltre, come inseguire le farfalle non ha certo impedito a Nabokov di scrivere buoni libri (anzi), così, viceversa, scrivere libri mediocri non credo impedisca di far bene il proprio mestiere. Nemmeno pubblicare fa male a nessuno: visto che nessuno legge, come potrebbe? Per chi ama il catastrofismo si potrebbe aggiungere che l’idiozia del mondo, specie della nostra industria culturale compresa, ha ormai raggiunto il pleroma, e che non c’è ulteriore scritto che possa aggiungere niente.

Nessuno ha più niente da dire ormai contro nessun tipo di masturbazione, e c’è anzi chi, preoccupato delle sorti del pianeta e delle varici della moglie, la consiglia vivamente, tanto più se talvolta si traduce in quella forma altamente casta e civile che è la scrittura.

Non che la scrittura lo sia sempre, per carità, ma se qualche volta, o anche spesso, lo è, accompagnata dalle fantasie tipiche di ogni masturbazione, perché scandalizzarsi? Si fantastica di essere famosi, o di non morire del tutto (come si proponeva Orazio), così come nessuno sogna la compagnia della donna cannone in preda al colera.

Ma forse anche Orazio, a dispetto delle apparenze, si illudeva; forse la scrittura è segnata dall’effimero già nel suo sorgere, proprio mentre instaura la nozione e l’illusione della durata, così che sempre si scrive “con una penna caricata ad acqua”. Forse l’unica vittoria sul tempo concessa dalla scrittura è quella, vera o falsa, compiuta o frutto di autosuggestione, del momento in cui essa si fa. Che poi delle sue sedimentazioni sopravvivano un po’ o si sciolgano immediatamente nell’oblio, importa più o meno, a seconda delle opinioni, ma certo non dovrebbe importare a chi scrive. Se invece si scrive per il presente solo, consapevoli dell’effimero (ma vorrei conoscere anche un solo scrittore che lo pensi veramente), inutile lamentarsi. Quanto infine all’industria culturale, tanto di guadagnato se continua a rotolare per la sua china. Inutile rifondarla. O altrimenti fare direttamente il discorso del potere. Qualsiasi cosa nasconda questo progetto, tanto vale dirlo chiaramente, senza vergogna. Siamo gente smaliziata, sappiamo stare al gioco.

 

 16 ottobre 1983

05/05/21

Intervista a Antonio Porta (8-5-82)


Ou sont les bars d’antan, dove la gente poteva incontrarsi, conversare in santa pace, e qualcuno, leggendario, addirittura scrivere? Adesso è persino difficile trovarne con sedie e tavolini, per non parlare di quella specie in via di estinzione che sono i séparés. I quali, poi, quand’anche un benemerito “conservatore”, un benemerito “fondo” per l’ecologia urbana, ne abbia protetto qualche raro esemplare, sono ormai appannaggi di fanciulli a dieta di campi sportivi, di coppiette in dolcissimi litigi e di mammine sfrattate dai condomini per prole disperata a tempo pieno. In un séparé, ad ogni modo ho avuto il piacere di incontrare A. Porta, col quale sono riuscito ad avere un colloquio che mi rammarico soltanto di non poter riprodurre in toto, e che comunque riporto nelle sue linee generali senza dilungarmi ad abborracciare qualche striminzito giudizio per presentare un’opera che ha attirato i consensi, l’attenzione e gli studi dei critici più qualificati, è già entrata nelle antologie scolastiche e ha saputo sempre rinnovarsi con sorprendente naturalezza senza scadere mai di livello.

 

La sua poesia più recente non conserva molte tracce della sperimentazione caratteristica dei suoi primi libri. Come e quando è iniziato questo cambiamento?

La fase più strettamente sperimentale del mio lavoro si è chiusa nel ’69 con Cara. A partire da Metropolis (1971) si ha un certo cambiamento ma in più direzioni: dallo studio del linguaggio comune, assurdo e banale, a quello dei personaggi infantili e di coppia, fino alla ricerca, attraverso un surrealismo tagliente ed esasperato, di una super-lirica, di una poesia assoluta, anche se con una certa ironia. In Week-end (1974), infine, tutta la prima parte è già composta di poesie piuttosto distese.

 

Mi pare che una delle differenze fondamentali risieda nel diverso ruolo affidato all’io.

Il primo periodo della mia poesia era parzialmente radicato nella poetica degli oggetti, anche se la ristrutturava completamente. Infatti non agiva solo sugli oggetti, ma anche sulle strutture, e non per niente era una poesia estremamente ritmica con molteplici ritorni di visioni e di oggetti. Era la visione oggettuale del mondo che veniva ristrutturata insomma ed è naturale che l’io fosse cancellato o venisse raccontato come semplice personaggio. Successivamente in qualche modo l’io ha tentato di recuperare immagini più consonanti. Già Utopia del nomade (in Weekend) era la possibile incarnazione di un io diverso, quale si era reso necessario a partire dal tentativo di superamento della civiltà industriale sviluppatosi attorno agli anni ’70.

 

Quale statuto ha questo io? Come ne giustifica il recupero? 

Naturalmente non si tratta di un recupero banale di ciò che con altri avevo precedentemente rifiutato: l’io che riaffiora dal ’70 in poi è un io che risulta necessario anche teoricamente per porre le basi della comunicazione. E’ un passaggio molto importante, perché negli anni 60 si privilegiava piuttosto la separatezza, la schizofrenia e si puntava sì alla comunicazione, al di là degli elementi strutturali, l’io dev’essere rimesso in campo, come convenzione evidentemente, e quindi non in modo prevaricante. E’ uno strumento che fa da ponte.

 

E’ un cambiamento che credo risulti più evidente nelle Brevi lettere incluse in Il re del magazzino e in Passi passaggi.

Infatti non a caso la prima delle Brevi lettere inizia con la parola io messa tra parentesi, appunto per indicarne la convenzionalità. Questa serie, ancora non a caso, è cominciata nel’76 come tentativo di comunicare col mio linguaggio, la poesia, coi miei figli allora adolescenti. E’ una sorta di diario poetico in pubblico che percorre alcuni anni di cronaca e storia oggettiva e personale.

 

Nonostante la leggibilità dei suoi ultimi testi, tuttavia, la sua sintassi non è semplice e i versi conservano ciascuno la sua autonomia.

Raramente, se non in caso di estrema necessità, collego in maniera stretta il verso precedente a quello successivo. Ogni verso ha la sua indipendenza, deve certo interagire con gli altri, ma in maniera più complessa. Di qui tutto un lavoro di sintesi, di eliminazione dei nessi e di una grammatica facile per arrivare all’invenzione di una grammatica della visione e della suggestione.

 

Anche quando racconta, sia nei versi che nella prosa, ho notato che lo fa sempre al presente, inteso specificatamente come tempo della scrittura.

La scrittura come tempo presente è molto importante per me e l’ho sviluppata anche nei racconti, i quali si risolvono in un passaggio subitaneo al tempo presente come sistema di attualizzazione e rifiuto del futuro e della memoria, per introdurre alla vitalità del vedere. La scrittura nasce dalla scrittura e lo sguardo nasce dallo sguardo, come specchi che producono delle immagini che poi acquistano una vita indipendente. Dallo specchio esce l’albero, e io, scrivendo, devo trovare il punto di uscita sia della scrittura che del suo oggetto.

 

Lei una volta ha affermato che si deve leggere la poesia moderna in chiave di romanzo, che essa è già romanzo. In che senso?

La dimensione narrativa non è altro, secondo me, che un sistema di concatenamento molto valido per raccontare immagini. Il romanzo mi interessa quando da un’immagine ne scatta un’altra e si sviluppa nella dimensione del racconto e della visione, e non come successione banale di fatti. Il senso più valido della narratività è la comprensione dei nessi profondi dell’esistenza e degli eventi, e la poesia moderna, proprio perché ha eliminato i nessi e le grammatiche facili, è la stessa cosa: romanzo, racconto di quello che siamo e delle immagini che ci fanno vivere. E esperienza del profondo, come già intendevano il romanzo Proust e Joyce.

 

E’ perché intende situarsi a questo livello che l’ironia ha sempre meno rilievo nella sua scrittura?

Una certa ironia credo ci sia sempre, anche se è senza dubbio diminuita. L’ironia sappiamo che è in fondo distruttiva e un po’ cinica, e forse io ho un po’ meno voglia di ridere di un tempo. Per sopraggiunta maturità? E’ molto opinabile; basti pensare che c’è gente che invecchiando ride sempre di più. Probabilmente le esperienze della mia esistenza mi hanno portato a fare affermazioni più nette, peraltro mantenendo una certa ironia di linguaggio, una certa flessibilità linguistica che è la mia forma attuale di ironia. Poi devo dire che, tra le diverse soluzioni, l’ironia in fondo è la più facile, e come tale non mi interessa.

 

 

Nota biobibliografica

Antonio Porta è nato nel 1935. Incluso nel 1961 nell’antologia I Nuovissimi, è stato uno dei protagonisti dell’avanguardia degli anni Sessanta. La sua produzione dal ’58 al ’75, che comprende vari libri, tutti pubblicati da Feltrinelli, è stata raccolta nel ’77 nel volume Quanto ho da dirvi, mentre quella più recente si trova in Passi, Passaggi (Mondadori, 1980). E’ autore anche di due romanzi, Partita (Feltrinelli 1967, rist. Garzanti 1978) e Il re del magazzino (Mondadori, 1978), del testo teatrale La presa di potere di Ivan lo sciocco (Einaudi, 1974) e curatore dell’antologia Poesia degli anni settanta (Feltrinelli 1979). E’ tradotto in numerose lingue e collabora a varie riviste. Redattore prima di il verri, Malebolge e Quindici, ora di Alfabeta e Il cavallo di Troia. Svolge da sempre una importante attività editoriale ed è critico di Il Corriere della Sera.