28/05/21

Harold Bloom, La Kabbalà e la tradizione critica (1981)


Maghi, artisti, mistici, astrologi, giocatori del lotto, parapsicologi, apocalittici, cartomanti, esoterici, bricoleur della cultura e robivecchi, nella Kabbalà ognuno ha potuto trovare quello che cercava; eppure nessuno prima di Harold Bloom ha saputo scorgervi uno degli aspetti più evidenti, e cioè, se appena si considera l’importanza fondamentale che in essa viene attribuita alla parola, una teoria della retorica e della poesia. Neanche i poeti, che certo la Kabbalà l’hanno spesso frequentata e che pure di retorica e linguaggio qualcosina dovrebbero saperne. Ma il merito di Bloom non consiste tanto nella priorità della scoperta, che di per sé sarebbe forse solo una curiosità, quanto nell’aver elaborato a partire da essa un discorso denso e complesso su ciò che implica leggere, scrivere e interpretare la poesia nella modernità (da Milton in poi, prospettiva anglosassone).

Il collegamento sarebbe perlomeno difficoltoso tuttavia se la Kabbalà, che significa “tradizione”, non fosse secondo Bloom, insieme alla Gnosi ma in modo ben più interessante, il primo modernismo. Non solo, ma non avesse anche col nostro tempo più di una sottile parentela. Per questo è già possibile trovare in essa, completamente e minutamente articolati, i pattern, i meccanismi, i tropi e la dialettica costruttiva e interpretativa che saranno poi tipici della poesia moderna. Come il poeta moderno infatti anche il kabbalista ha davanti a sé un corpus consolidato e immutabile che gli impedisce l’accesso alla creazione e all’originalità obbligandolo ad affrontare non “l’universo, ma i precursori”, abitatore dell’esilio e della tardività oppresso dall’ “angoscia dell’influenza”, che può trovare il suo solo ambito di azione nel fraintendimento della tradizione, vale a dire attuando una “dialettica del revisionismo”.

Solo che questa pratica, adottata per forza di cose da Milton in poi, non è mai stata teoricamente esplicitata dai moderni, mentre invece è rintracciabile come meglio non si spererebbe nella Kabbalà, non appena si interpretino in questa direzione i concetti teologici, mistici e mitopoietici presenti nello Zohar e nell’opera di Moses Cordovero e Isaac Luria. Sarà allora possibile rinvenire, anche nelle componenti psicologiche ed esistenziali, le principali figure retoriche della poesia moderna e le modalità della loro articolazione concreta, organizzata in quella che Bloom chiama la “teoria dell’influenza, (che) contempla relazioni causali che agiscono anche in senso inverso”. Teoria che è stata evidenziata per primo da Cordovero con l’invenzione delle sei behinot, designanti i multiformi aspetti che convivono dentro ogni sefirah, aspetti che spiegano i legami esistenti tra le diverse sefiroth (cioè gli attributi emanati da Dio), e corrispondenti a: 1) l’ironia che traduce la dialettica presenza-assenza; 2) la sineddoche, attraverso la quale “la poesia nascosta nel testo poetico precursore emerge dal suo nascondimento”; 3) la metonimia, cioè “l’elemento precario che in ogni poesia tenta l’illusione dell’autosufficienza e dell’unità”; 4) l’iperbole, che rovescia “pragmaticamente causa e effetto”; 5) la metafora, che “mette l’uno contro l’altro il dentro e il fuori”; 6) la metalessi, che “comporta un aspetto di anteriorità che segue a uno di posteriorità”.

L’interazione di questi elementi, anche nel loro risvolto di “difesa psichica”, sta alla base di ogni immagine intratestuale, espressione necessaria di un “rapporto revisionistico” che si erge ogni volta a tradizione travisando ogni precedente interpretazione. Tanto più forte è l’opera che ne scaturisce quanto più forte è il travisamento su cui si basa e che a sua volta essa richiede, in quanto “solo i poeti minori o deboli (…) possono essere letti fedelmente” poiché, limitandosi essi a ripetere, “non fanno paura a nessuno”.

Aver individuato i rapporti revisionisti non basta però, occorre anche decifrare la loro dialettica; ciò che Bloom fa con l’apporto delle figure dello zimzum, della shevirah e del tikkun elaborate da Luria, che corrispondono ai momenti della limitazione, della catastrofe/creazione e della restaurazione. Il primo di questi momenti, le cui immagini “si imperniano sull’assenza, il vuoto e l’esteriorità” è la manifestazione di una “domanda eccessiva” di linguaggio rispetto a una “scarsità di significato raggiunta”, così che “la rappresentazione non può riempire il vuoto dal quale si alza il desiderio di poesia” e dà luogo a un “processo di limitazione della funzione immaginativa, il quale fa sorgere una serie di meccanismi di difesa della limitazione: formazione di processi reattivi, dissociazione, isolamento e regressione: il tutto culminante nella sublimazione”.

Il secondo momento è quello della sostituzione, cioè “il processo effettivo mediante cui operano le poesie” e spiega anche “il fattore di autonegazione che è presente in ogni poesia, (…) la retoricità dei testi poetici, la coscienza verbale che si fa sempre più intensa col passare del tempo”.

Il terzo momento infine è quello della rappresentazione e implica “tre transizioni o sostituzioni: dall’ironia alla sineddoche, nella quale l’assente viene reso presente, e perciò viene ri-presentato; dalla metonimia all’iperbole, in cui qualcosa di svuotato viene di nuovo innalzato a una pienezza; dalla metafora alla metalessi, in cui qualcosa di esterno viene posto in un tempo interno, un tempo-a-venire”.

Ogni poesia moderna viene ad essere così costituita e iper-determinata da “pattern fondamentali di reciproci rimandi tra significati letterali e significati figurativi”, di modo che il significato non viene “prodotto nelle o dalle poesie, ma nasce tra le poesie”, un significato errante che “erra per difendersi”. Diventa così comprensibile perché non possa darsi in poesia un tempo presente, e non ci sia “anzi alcuna presenza, nessuna pienezza di significato di nessun genere”.

Dove sta allora la poesia? “La vera poesia è costituita dalla mente del critico”, cioè da colui che costituisce il testo travisandolo nella lettura, sia esso “poeta”, “critico” o “lettore” nell’accezione tradizionale di questi termini. Risultato persino ovvio da che è l’interpretazione, altro nome per “revisionismo”, a reggere tutto il gioco.

Ancora e sempre Nietzsche, dunque? Il riferimento suona persino ovvio, non solo perché Nietzsche è più volte utilizzato, direttamente e non, nel testo di Bloom, ma ancor più se si pensa all’intonazione chiaramente “francese” di più d’una delle sue assise teoriche (anche se questa forma di influenza su Bloom è a volte mascherata dal silenzio o denegata mediante stoccate di passaggio, più che con critiche: Derrida, Foucault, Deleuze e Kristeva non sono lontani come la Kabbalà infatti); solo che poi arriva la sorpresa: sì, anche Nietzsche, ma soprattutto Emerson. Non per niente Bloom è americano, per dirla alla spicciolata. Emerson al posto di Nietzsche traduce infatti nel presente contesto una tendenza vitalistica e volontaristica, e sotto sotto anche ottimista, estranea alla nostra cultura e che tanto meno sarebbe deducibile da Nietzsche. Perché a Bloom preme che sia possibile al lettore “conferire una maggiore centralità alle sue mis-letture” rispetto a qualsiasi altra, ciò che sarebbe alquanto difficoltoso con “la metafora prospettivizzante di Nietzsche (la quale) necessariamente decentra” aumentando sempre più la distanza tra il lettore e il testo.

Due parole, infine, per chiudere questa specie di perverso circolo ermeneutico con annesse istruzioni-su-come-essere-felice-nella-tardività: nonostante alcuni concetti non siano originalissimi, originale, ci sembra, è il sistema in cui sono immessi. L’esposizione delle dottrine Kabbalistiche è chiara e organica (per certi aspetti più che in Scholem), feconda la sua interpretazione “virale” (da influenza) dei tropi; e se anche per questo circolo ermeneutico vale quanto ha detto Heidegger, che “l’importante non sta nell’uscirne fuori, ma nello starvi dentro nella maniera giusta”, non si può negare che Bloom nel suo ci stia molto bene.

 (da Il piccolo Hans, 1981)

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