21/11/22

Coppia con cannuccia

 

 

Lui soffia nella cannuccia per colpirla forse con un frammento di ghiaccio risucchiato dal fondo del bicchiere. Lei si fa schermo al volto con le mani incrociate e piega il mento verso lo sterno. Lui continua a soffiare, ma dalla cannuccia non esce niente. Allora lei gli fa notare, come una maestrina compiacente, che non riuscirà mai nel suo intento se prima non raddrizza perfettamente la cannuccia, ancora leggermente incurvata dove ci sono i cerchi a molla che servono a piegarla verso la bocca. Lui esegue e la prende di mira di nuovo. Lei torna a schermarsi la faccia con le mani. Sorride. Il proiettile esce e la colpisce sul petto, da dove poi scivola nella scollatura. Poi si alzano e se ne vanno, con passi veloci. Sta arrivando un vaporetto, ma loro, giunti all’altezza dell’imbarcadero, proseguono a piedi. Piccole onde cozzano contro la zattera. Un forte odore di salmastro mi invade le narici.


17/11/22

Le anime di Marco Ercolani

 

Come quella di tutti, anche l’anima di Marco Ercolani è fatta di tante anime che si nutrono, rispecchiano, deformano, parassitano, imitano, parodiano, integrano e a modo loro completano anime altrui, o frammenti di anime altrui, che a loro volta sono fatte di altre anime o frammenti che si nutrono, rispecchiano e così via, in rimando infinito.

Artista è uno che queste cose le sa e adotta tutta una serie di strategie, a volte coscienti altre meno, per nutrirsi ecc. con l’intento (la speranza) che il risultato di tale strategia trasformi l’oggetto che gli ha fatto da nutrimento e specchio e stimolo e sfida, più spesso celandolo che tradendolo o esibendolo, per dar luogo a un’opera che, con il suo nome stavolta, rilanci il gioco. Quando l’artista attua questa strategia però, il meccanismo è già iniziato da tempo immemorabile e, in genere, ha già assunto una forma, o una serie di forme, che egli può modificare solo in parte. Piccola o grande, a seconda dei suoi desideri e delle sue capacità, e anche della forza e età di quelle. Spesso la cosa migliore che gli resta da fare è accettarle, magari riconoscerne questo o quel frammento, e assumerle fino in fondo. La sua opera non sarà che la diversa, e se possibile in diversa misura nuova, riformulazione o articolazione di queste forme, che vengono rimodellate, ridisposte e riaggregate, dalle esperienze del soggetto nella stessa misura in cui esse contribuiscono a fare scaturire queste esperienze e a modellarle. Così uno vive.

Da sempre la strategia di Marco Ercolani (spesso in simbiosi con Lucetta Frisa) è di esibire tutte queste operazioni (attività ecc.) e in qualche modo capovolgerle, ribaltarne o piegarne il senso e i modi, espropriandosi. Mi spiego: ogni volta che qualche forma o esperienza che egli sa benissimo di non poter definire come propriamente sua (anche se poi è lui che ne gioisce e soffre) ne incrocia una simile in qualche anima o opera altrui, ne sorge una nuova che però assume voce, tono e timbro di quest’ultima, e non i suoi. (Non la sua presunta voce, perlomeno: perché a volte, un tono, un'inflessione, il residuo di un timbro che venga fatto di attribuire a lui, sembra di riconoscerli. Ma è un attimo, un punto d'attrito, un bagliore, un apice puntuto il cui segno, sulla pelle, si vede solo dopo, senza che si possa risalire alla sua origine.)

Non si tratta di una proiezione o di un mascheramento che fa dire all’altro ciò che non ritiene possibile o opportuno o legittimo dire a nome proprio da sé (un sé che peraltro non c’è: cioè non  si dà al di fuori di questo dire già impuro, meticciato e multiplo) – anche se questo rischio sussiste, ed è il filo del discrimine e la misura della posta in gioco –;  né di far dire a qualcuno qualcosa che la sua opera (o anima) già conterrebbe, implicitamente o disseminata; e nemmeno di portare alle estreme conseguenze presupposti o indizi appena accennati e/o espressi ma non sviluppati in tutte le loro implicazioni; quanto piuttosto di condurre queste voci fuori da se stesse pur lasciandone intatti tutti i caratteri, di traslocarle, sfoderarle, e insieme, da parte dello scrivente, di uscire da sé cancellandosi in esse, assumendole tuttavia quasi senza residui. Quasi.


 

Per esempio: il Discorso contro la morte che dà il titolo a un notevole libretto del 2008 (ed. Joker) non è solo attribuito apocrifamente a John Donne: è di John Donne, ma il suo autore è Marco Ercolani. Ma Marco Ercolani ne è l’autore solo nella misura in cui quel sermone non gli appartiene; e solo nell’assunzione di questa non appartenenza egli da una parte può farne esperienza e viverne come propri i contenuti. Viverli di ritorno perché erano già all’origine. Tutto intrecciato in nodi, che sono la forma e la danno a ciò che annodano. (Nodi del cuore, Greco&Greco, 2000, è il titolo di una raccolta di scambi epistolari apocrifi scritta con la moglie Lucetta.)

Scrivere, in questo senso, è riconoscersi nell’altro e attraverso l’altro, e adottarne la voce, assumerla per poter essere in qualche modo se stesso, o per poter dire, in ciò che l’altro non ha detto pur aprendo la possibilità di dirlo, ciò che la propria voce non può dire perché non le appartiene nonostante sia ciò che le è più prossimo e più proprio. (O per non dire in prima persona, e tuttavia  dirlo senza farsi Medusa di se stessi: per non bloccarsi in un io che sarebbe fisso, univoco e proprio, identico a se stesso una volta per tutte; cosa esecrabile, certo, ma anche impossibile, aggiungo: perché c’è il linguaggio che comunque, non appartenendo – cioè includendo sia il detto che i dicitori –, lo impedisce.) Estrarre, o modellare, nella voce altrui, una modalità della propria che altrimenti non potrebbe venire ad essere; forzarla, per partorire la propria attraverso, o nel simulacro di quella.

Ma per fare questo bisogna cancellarsi nell’altro: essere l’altro per poter essere, in qualche modo, se stesso. (Non è l’amore; eppure, in qualche modo, in qualche senso – in sensi diversi – lo è.)

Per questo, come prima cosa bisognerebbe “liberarsi dal proprio stile” (Discorso contro la morte, p. 23). C’è un mezzo per farlo? Niente di più facile, verrebbe da rispondere: basta non averne. Come se fosse possibile. Oppure, meno banalmente, basta non averne uno solo. Ma anche averne molti non sarebbe a sua volta uno stile? Si potrebbe allora provare a liquefarsi, a dissolversi in quello di ogni altro. Adottarne ogni volta uno, non come una maschera, ma come una pelle...

Non: essere nessuno; semmai: essere tutti senza essere mai uno. “Usare materiali”, essere “la Lingua che (...) diventa lingue, il Fiume che (...) si manifesta in fiumi” (Il tempo di Perseo, Joker, 2004, p.12).


Eppure questo venir meno dell’identità, anche provvisoria, strategica, fittizia, del parlante/scrivente rischia di portare l’attenzione a focalizzarsi prevalentemente sulla domanda “chi parla?”, invece che su quella, altrettanto se non più importante, su “cosa dice e come”. E’ possibile trovare qualche filo conduttore, ricorrenza di tono, costellazione di senso? Alla lunga, come accennavo più sopra, credo proprio di sì, per quanto intrecciato nella varietà, a volte persino sommerso, incriptato, fatto silenzio o enigma, incandescenza lontana, che smuore nella distanza ma non cessa di mandare bagliori minimi e insistenti. E allora, per dipanare e organizzare, per estrarre e assemblare, diventa necessario fare un’operazione analoga, ma non uguale, simile ma deviata, con differente inclinazione, a quella che Ercolani fa con i suoi autori: aggiungere una voce, senza però l’appoggio di una precisa e già definita, in questo caso proprio quella vera o presunta di Ercolani, da cui partire. Una voce congetturale che mima, echeggia e/o costruisce/inventa un’altra voce congetturale, che poi però abbandona il gioco dei rimandi, che ne esce, fatta altra ancora, e da lì comincia a guardare.

Bisogna cercare di dimenticare i nomi degli scrittori, filosofi, pittori, musicisti, studiosi, politici in cima a ogni testo, e provare, da lì, a rileggere tutto come se fosse una voce: una sola voce nelle sue varie inflessioni e tonalità e modulazioni, come se le diversità di stili e rimandi fossero solo effetto di differenze di esperienze e umori. In fondo è legittimo pensare (con Borges, per esempio) che ci sia una sola voce, o nessuna; che la letteratura sia senza autori, che passi attraverso ciò che si è convenuto chiamare con un nome (identificando poi questo nome con un autore) come un unico flusso, composito ma in fondo continuo e unitario, di un’unitarietà sempre mutevole e che si riforma diversa ad ogni istante, pur essendo ogni istante conclusa e omogenea. Ogni nuova parola suggella il già detto e ne inaugura un altro.

Ma si può anche vedere, immaginare, in questo flusso, momenti in cui si addensa e poi si coagula e fissa in una unitarietà (in una unità) solida, per quanto provvisoria; fittizia, eppure che agisce realmente e necessita di essere assunta di volta in volta come propria: come qualcosa di cui si è, come per un’azione, responsabile, per quanto non si sappia a partire da che punto e ancor più da che punto in poi non lo si è più dei suoi effetti, che a loro volta, con effetto a posteriori, disappropriano la loro stessa scaturigine. Eppure questo punto va di volta in volta marcato e assunto: non per ciò che è scritto, ma per chi scrive, come qualcosa che riguarda solo lui, ma senza il quale, senza cioè che questo sguardo venga accolto e ricambiato, alla lettera non si scrive niente.


Il rischio è il parassitismo di un’autorità che si dubita di possedere in proprio, o che non si ha il coraggio di attribuirsi, o che non si vuole assumere. Anche nel senso di un atto volontario di rifiuto: che non si vuole assumere, e non si vuole assumere. Per negare l’io? La proprietà del discorso? E lasciare invece che sia il discorso da solo a dire, a essere in qualche modo proprietario di se stesso? A se stesso appropriato?  Troppo facile però: una proiezione di, o su un’autorità e autorevolezza avviene/si verifica (anche nel senso di 'rende vera se stessa') comunque; (sempre) un altro dice quello che tu non vuoi/sai/intendi dire: attribuzione di peso autoritario, cioè dal di fuori, alle parole, che però le svuota dal di dentro.

"Sentiva che avrebbe dovuto erigere limiti e steccati, proprio per descrivere quell'istante di follia, quel brulichio ininterrotto, quell'affollarsi di fantasmi. (...) Capì che, ancora una volta, era questione di linguaggio. (...) Era stanco di una pazzia che fosse negazione del mondo e dell'io, anamnesi di una malattia, cronaca di una sconfitta. Doveva rielaborarla in forme che ne rendessero dicibile la rivolta. (...)  La Lingua che non diventa lingue, il Fiume che non si manifesta in fiumi: la cieca adesione al Sacro. No." (ibid., p. 11-12)

Sempre questione di linguaggio. Non per il fatto che il linguaggio non mi appartiene, io devo sottrarmi alla responsabilità, anche a quella di assumerlo, e non solo a quella di ciò che dico io in ciò che dice lui.

"Una costante definiva le sue visioni: la presenza di uno spazio circolare, talvolta ridotto alla dimensione di un punto. Su questo punto convergevano forze diverse. [Qualunque fosse la sua incarnazione, sempre] la sensazione era la stessa: un punto pieno, una sfera compatta sta per disarticolarsi, letteralmente frantumata dalle forze che la schiacceranno. (...) Mille variazioni su uno stesso tema."  (Il tempo di Perseo, Joker, 2004, p. 9)  

Questo punto, per Marco Ercolani, è il discorso della follia. Il discorso che dalla follia parte e su di essa non cessa di tornare, che insiste nel suo luogo, cioè nel luogo dove tutto si sfalda, ovvero dove si coagula momentaneamente, con forza lacerante, per poi diffrangersi e disperdersi: perché a lungo non si può tenere, sopportare; né vi si può consistere senza smarrirsi. Luogo dove l'io non è nemmeno l'istanza dell'enunciazione, ma un fantasma, un'imago già svanita, o al contrario solo un'ipostasi, una corazza dalla rigidità proporzionale alla sua friabilità, l'illusione di una difesa, un'inconsistenza. 

Ercolani è psichiatra in una struttura pubblica e la sua professione non si disgiunge dalla sua scrittura: dall'esigenza di venire in qualche modo a capo della propria vita. Di tenere qualcuno dei capi delle proprie vite. La citazione ligure è scontata.


In ogni caso, che si tratti di psichiatria o di scrittura, il suo è un ascolto delle voci. Ascolta le voci di tutti coloro che sentono le voci (e di tutti coloro che hanno parlato/scritto). Si mette in ascolto – fa la guardia – come una sentinella a cui non viene mai dato il turno*. Finito quello assegnato, comincia quello assunto volontariamente, anzi: quello necessario, perché da ogni parte la sua voce ti chiama. Non c'è pausa. Non c'è silenzio. Il riposo da una voce è un'altra, che talvolta può prendere altre forma, o addirittura la forma di un apparente silenzio, ma subito si mette a parlare, e invoglia a farlo per farla tacere. Ma in realtà a Marco Ercolani il silenzio è insopportabile, perché di troppe voci subito si rivela saturo, intrecciate, sovrapposte e incontrollabili.

Come con la follia, con cui in parte si identifica, l'eccesso di prossimità è non solo insopportabile, ma alla lettera impossibile. Troppo incandescente, irrespirabile. Per non essere annientato dal contatto diretto, per districare le voci, sentirle (con tutti i sensi), capirle e dare loro la parola nel loro "dis-ordine e (...) complessità inesauribili" (L'opera non perfetta Note su arte e follia 1999-2009, Nicomp L.E., 2010, p. 75) si rende allora necessario frapporre – e lo stesso tra sé, la propria scrittura e la sua scaturigine – uno schermo, un filtro, una camera di decompressione e di raffreddamento: insieme forme di protezione e sintomi di attrazione, vengono frapposte non per allontanarsene, come difesa, ma perché, pur intendendone l'estremo pericolo, se ne è irresistibilmente calamitati e non si intende rinunciarvi, se non si vuole rinunciare a se stessi. Poiché l'accesso diretto, come al volto di Medusa, è ferale, vi si torna mediante una deviazione, un détour (ci si volta e si fa un giro).

In questo a Ercolani la psichiatria come professione fa senza dubbio gioco. Potrebbe ostacolarlo, certo, proiettando l'ombra della terapia su ogni cosa, ma siccome l'artista non se ne disgiunge mai, e anzi la sovrasta (o la erode), non solo essa gli fornisce strumenti e distanza, ma soprattutto gli offre materia, che però solo l'artista trova il modo di lasciar parlare da sé, aggirando (appunto) il rischio, l'indelicatezza di volerla trasformare in poesia o racconto. Il contatto quotidiano con la follia, l'avvicinamento che essa comanda e la barriera, spesso ostile, che erige, lo difendono dalla tentazione di farne un oggetto, di rendere il dolore astratto e generico, nient'altro che una parola ad effetto, o una sfumatura opaca della compassione: anche quando parla di arte o di poesia, non perde mai di vista la comprensione della malattia, la specificità del dolore e dell'individuo che ha di fronte, per trovare un modo migliore per affrontarli, gestirli, lenirli, in sé oltre che nel "paziente".

La luce non è mai unidirezionale; è sempre (almeno) doppia (arte-follia; scrittura-terapia; comprensione-partecipazione...) e su almeno due piani (psichiatra-folle; psichiatra-artista; artista-artista; "malato"-malato...), con almeno due obiettivi: la clinica e, più che la scrittura (come sarebbe più presumibile), la quotidianità, per trovare un modo per gestire l'esistenza, l'emergenza che è la sua normalità. Si dovrebbe poter "tenere un diario correndo. (...) provare a non vestire più le mie follie con abiti da cerimonia" (Turno di guardia, Il canneto, 2011, p. 32). Ed è proprio questo che Ercolani fa sempre più spesso nelle sue ultime opere, e soprattutto in questo Turno di guardia.

A volte ci si nasconde meglio parlando di se stessi e delle cose che ci capitano, e ci si rivela di più assumendo altre identità (perché sembra di poter parlare impuniti) o creando personaggi ex-nihilo, come se fosse possibile. Il problema non è celarsi, mimetizzarsi, mascherarsi o rivelarsi: il problema è quello che si fa con la scrittura, quello che esce; e nemmeno quello che viene detto, ma il tono, la capacità di convincimento e le proiezioni o assunzioni che suscita. Il narcisismo della prima persona nelle cosiddette autofinzioni è un problema secondario, se non falso: dipende ancora da cosa ne fai, dalla banalità o originalità di ciò che viene detto e del modo, dalla semplicità o dalla complessità; dal fatto che la semplicità va verso la banalità o se contiene invece pluralità e stratificazione; e viceversa se la complessità non è per caso confusione e abborracciatura (cioè superficiale in senso classico)... ecc. La finzione che funziona meglio, a volte, è proprio quella della "sincerità", che parte magari dalla propria esperienza e parla della propria vita, e invece le usa soltanto come trampolino, o maschera dell'invenzione, e della comprensione dell'altro. Ed è spesso quando mette direttamente e chiaramente in campo se stesso, che Ercolani riesce anche a parlare meglio degli altri: a parlare degli altri come altri.

E' sul filo di questa serie di doppie partite che sta Ercolani: in bilico, ondeggiando sul filo teso tra voce propria e voci altrui, tra invenzione e riflessione, filo che le unisce e separa e che appartiene a entrambe; soprattutto filo, o più correttamente linea che percorre il bordo sfrangiato tra malattia e salute, tra follia e presunta normalità, delirio e ragione, silenzio rumoroso e discorsi inauditi: linea di una piega che distingue e cuce assieme la distanza, e il distacco della terapia, e la pura umanità (l’amore), che condivide e un po’ già guarisce da sola, e da sola già un po’ capisce.

 

*  Sempre in guardia, di sentinella. Si potrebbe costruire una teoria della sua teoria, combinando i titoli dei suoi libri: Sento le voci. Discorsi di "matti", La vita felice, 2009, è il titolo di uno dei due volumi scritto con Lucetta Frisa, - l'altro è Anime strane, Greco&Greco, 2006 - che raccoglie i discorsi e le teorie raccolte in trent'anni di studi e pratica; Sentinella, Carta bianca, 2011, è quello di un recente libretto che combina poesia e filosofia: un po' alla maniera di René Char, verrebbe da pensare; mentre Turno di guardia, Il canneto editore, 2011, è una notevole raccolta di testi relativi alla sua esperienza come guardia medica in una struttura pubblica.

 


 

12/11/22

Cose che fanno la differenza 2. Enjoy tribe (Errori vari)


Al ritorno il traffico si era infittito, pedoni solitari o a gruppetti, ciclisti, mammine e paparini che spingono carrozzine con infanti disidratati in grado solo di urlare piano, cinofili al guinzaglio dei loro cani che trascinano le loro trippe mezzo soffocati, poracci, con la lingua enorme e spugnosa penzoloni, gente che sbuca da chissà dove, che cerca di smaltire pranzi di 4 ore in cui però si sono limitati a assaggiare le varie portate, una forchettata, un boccone, e neppure tutte, ma che, chissà come e perché, gli sono rimaste sullo stomaco, a dispetto del vino e della birra ghiacciata trangugiata per spingerle giù, per sturare l'imbocco dello stomaco intasato, e che ora è urgente smuovere con una passeggiata, sotto il sole a picco, che scioglie tutto, stimola ogni ghiandola tranne quelle preposte alla digestione... per indurre quei lazzaroni di succhi gastrici a darsi da fare e alleviare l'acidità, e, se non smaltire il nuovo accumulo di ciccia, già sovrabbondante, perderne per strada un pochino, qualche etto, tanto per cominciare, o almeno fare il chilo, smuovere il deposito fecale, liberare del posto, perché stasera si continua... cioè non si vorrebbe, ma mica vorremo fare gli sfiziosi o i musoni?: ci hanno invitato, abbiamo commesso l'errore di accettare e ora dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco... Procedo a zigo zago, sorpasso, evito famigliole mono e bigeneri (i.e. con cani o altri animali domestici: cornacchie, ippopotami, oranghi, lemuri, foche e leoni marini...), mi specchio in tutti questi miei simili, mi paragono e non trovo differenze significative, finché, all'imbocco della discesa, vedo, sospeso in alto tra un albero e un palo della luce in disuso, lo striscione dell'organizzazione, con l'indirizzo internet e il numero di cellulare in piccolo, ma leggibile, tanto che mi verrebbe voglia di chiamare immediatamente, sopra e sotto il logo, brutto sotto ogni aspetto, a cominciare dal nome, che sposa trionfalmente due delle parole (inglesi!) che più trovo irritanti: enjoy, che sarebbe anche bella se non fosse svuotata, come una lattina, dall'abuso in tutte le salse e circostanze, e tribe, che designa esattamente ciò di cui abbiamo meno bisogno (io, di sicuro). La loro congiunzione produce un mostro polimorfo: la tribù godereccia? Godi, tribù? ecc. 

 


La sigla inglese mi fa sorgere il dubbio, o la speranza, che magari non sono italiani: eventualità che comunque non spiegherebbe l'errore degli striscioni legati tra tutti gli alberi che costeggiano la salitella che ho percorso all’andata e che ora mi perseguitano al ritorno: LA PASSIONE FA' LA DIFFERENZA (non spiegherebbe neanche la denominazione, se è per questo). Se uno fa uno striscione con 5 parole, di cui due sono articoli, che a considerarli parole si fa un po' fatica anche in questi tempi di democrazia teoricamente iperegualitaria, una piccola verifica non l'avrebbe schiantato dalla fatica. Il problema non è verificare, però: è pensarci. Pensare che ci sia qualcosa da. Pensare all'eventualità di una verifica per così poco. Che sarebbe come predisporre una verifica del nulla. Doppio genitivo, mi spiace doverlo specificare. Lo sconforto cresce se si considera che allo striscione non avrà lavorato un solo creativo (è gente che lavora in équipe, quella: in piccole tribù... branchi, greggi...); che altri avranno dato suggerimenti (o input, che è un termine più adeguato), discusso e approvato, e poi seguito la definizione grafica del progetto e le differenti fasi della sua realizzazione. Sarà stata una miriade: se si contano le denominazioni americane per ciascuna di queste attività e figure, deve essere stata una miriade, perché altrimenti non si inventerebbero tanti nomi e sigle e funzioni, e se non ci fossero le persone, nomi e sigle e funzioni le farebbero sbocciare, o sbucare, come naturale conseguenza... il nome segue la funzione, o la precede, o la accompagna, e la figura e l'azione, o il soggetto agente, non possono che seguire. Il soggetto, grammaticalmente, quando è espresso, di solito precede, ma di fatto segue, si sa... nomen omen. Insomma, con tutta 'sta collettività impegnata a cooperare per il raggiungimento del medesimo scopo (un esempio per tutti!: la vera, utopica comunità), è possibile che nessuno, nemmeno un cane, un reduce momentaneo dal paese dei sogni, si sia accorto dell'errore? Non so: è chiedere troppo? Un’équipe di ignoranti, o di superficiali, di distratti, di approssimativi, che razza di équipe è? Ma forse non è un'équipe, né (meglio) un gruppo di lavoro, o un insieme che provvisoriamente coopera: forse è solo un'accozzaglia di presuntuosi frettolosi; forse, giusto la denominazione, è solo una tribe, cieca e conformista: e anche questo fa la differenza.

(Sto scrivendo queste righe al fresco della biblioteca di Treviglio – e, coincidenza curiosa, le sto copiando dai fogli che ho appena recuperato in mezzo a un mucchio di ritagli, quasi un anno dopo nella stessa biblioteca, la terza o quarta volta in tutto che ci torno a "lavorare" –, e ora cambio posizione – idem ora, l'anno dopo, ma stavolta per il mal di schiena che forse, forse!, accentuato dalla tragica circostanza che oggi compio 61 anni, e quindi invecchio vertiginosamente: mentre invece è solo, ovvio!, la postura in cui scrivo – e mi porto dall'altra parte del tavolo, perché ogni volta che alzo gli occhi, da qui – allora, non ora – mi trovo davanti un quadro orrendo, che pian piano mi avvelena il piacere di scrivere su questo quaderno di ortografia polacco – o di grammatica (vedi foto), e se qualcuno dei 4 astanti forse guarderà sorpreso la manovra senza apparente giustificazione, io almeno avrò davanti, allora, una finestra aperta sui rami di un grande cedro dell'Himalaya (non del Libano, mi raccomando) e su ballatoi e i tetti della vecchia Treviglio ben ristrutturati, paraboliche a parte: il che fa una discreta differenza, che spero abbia un buon influsso sulla scrittura... per tacere della futura riscrittura: nel chiostro, davanti a un cedro analogo ma all'aperto stavolta, e con il mal di schiena... perché davanti alla finestra, se non altro, la sintassi prenderà aria e tirerà un ampio respiro. Ciò che faccio anche adesso, e in più mi stiro.)

Che nessuno, dico: nessuno!, nemmeno lo stampatore, a ritrovarsi lo strafalcione davanti abbia avuto anche solo un sospetto, un minimo senso di disagio, un'incrinatura subatomica dell'anima ortografica, o solo professionale, come di un rametto che scricchiola in lontananza, non dico sotto i piedi, più ci pensavo e più mi faceva arrabbiare, e ora, senza il rosolio di compensazione di un solo ricordo, la pappetta dolciastra, l'impiastro lenitivo o il diversivo di una sola associazione, rischiava di rovinarmi la passeggiata fino a quel momento quasi perfetta.

E non serviva a nulla contare i passi, o i respiri, o qualunque altra cosa, che di solito mi calma, perché sempre finivo per contare solo l'errore, ripetuto a ogni striscione, come un chiodo che mi conficcava a ogni passaggio alla mia croce. Qualche chiodo avanzava persino... Sì, lo so che una volta stampato uno, tutti gli striscioni sono uguali, e quindi uno solo andava considerato l'errore, però a me gli errori sembravano tanti quanti gli striscioni, e sempre più gravi con l'aumentare del loro numero. Uno passa, guarda, legge, resta sorpreso o no, riguarda e rilegge, e ogni volta l'errore gli si conficca negli arti, nel cranio: uno, due, tre, quattro... venti!

Allora ho alzato il volume nelle cuffie, ho chiuso gli occhi e mi sono gettato alla cieca e a corpo morto, di corsa, giù per il resto della discesa. Nel vuoto, immagino. O producendolo io stesso. Ovvero, poiché infine non sono caduto né ho travolto nessuno, con la gente che vedendomi arrivare si spostava allarmata come al passaggio di un pazzo, un errore della natura.


 

Cose che fanno la differenza

 


L'altro giorno, domenica 14 agosto, sono andato a fare la solita passeggiata al fiume, anche per vedere quanta gente c'era in giro. La curiosità! Che sia benedetta. La passerella era quasi deserta (prevedibile, con la canicola delle tre), mentre sul ponte del secondo canale, quello della centrale elettrica, c'erano alcuni ragazzotti che, sotto gli occhi di un pubblico trepidante e ammirato, si gettavano in acqua per nulla ostacolati, stimolati anzi, dalla presenza di due canotti stracolmi di volontari della sicurezza che arrancavano loro incontro, incazzatissimi. Gente, i ragazzotti, perlopiù non autoctona, spavalda già di suo ma che proprio in quanto non autoctona ci tiene a sottolinearlo, e che ignora le insidie del canale e del fiume, i gorghi e le buche, o, conoscendole, le sfida a bella posta: di quelli che annegano uno o due alla volta tutti i sacrosanti anni. Chissà quanti saranno quest'anno, mi sono chiesto al passaggio, sorridendo benevolo (non per i morti a venire: per il ricordo di quando anch'io mi buttavo dai ponti; anch'io mi sentivo allogeno in quei tempi, o quantomeno differente).

L'ictus beota della nostalgia mi è rimasto stampato in faccia fino al Pignone, la spiaggetta di Groppello, poco distinguibile peraltro dall'espressione abituale (infatti i conoscenti che incrociavo non mostravano sorpresa di sorta nel salutarmi). Al Pignone, oltre alle consuete compagnie che prendevano il sole o smaltivano faticosamente le pantagrueliche grigliate dei giorni festivi, ronfando o con il presunto ausilio di spettacolari e patetici exploit sportivi forieri di congestioni e infarti per fortuna meno numerosi del presumibile, mi sono imbattuto in una sfilza di mercatini sotto le candide tende di prammatica, un gonfiabile da cui i bambini si fiondavano a raffica uno sul capoccione dell'altro, per subito risalire (era gratuito), autoveicoli che vendevano bibite, patatine e panini farciti di nonvogliosaperecosaneancheconlapistolallatempia, bidoni per la spazzatura e due toilette ecologiche trasportabili. Sotto una tenda a parte c'era un banchetto dove coabitavano i rappresentanti del comune di Cassano e del comitato del Parco Adda-Nord, con relativi libretti e opuscoli che ho ignorato.

La piccola kermesse era stata organizzata per allietare il ferragosto di chi è già stato in vacanza e si prepara a riprendere il lavoro (chi ancora ce l'ha), e soprattutto per alleviare lo sconforto di chi non ha potuto partire; chi passa l'agosto al paesello per scelta, come il sottoscritto (snob e privilegiato!), non necessita di diversivi né di palliativi, anche se si guarda bene dal disprezzarli se qualcuno ne ha bisogno e ne trae piacere, come chi cava il sangue dalle rape. Il programma degli eventi era illustrato da manifesti cartacei, mentre il suo spirito sarebbe poi stato ribadito per tutta la salitella che porta verso il naviglio da un lungo nastro di cartelloni che ribadivano lo slogan della rassegna e l'indirizzo internet più numero di cellulare del principale partner degli organizzatori. Il genotipo era un pannello di 4 metri di tela stampata, cucito in numerose copie (la ripetizione identica ha la sua efficacia, lo sanno tutti) per una nota di allegra e colorata comunicazione. Almeno nelle intenzioni degli autori; e nella ricezione di committenti e fruitori, immagino (è il comune sentire popolare).

Lo slogan affermava: LA PASSIONE FA' LA DIFFERENZA. "Anche la grammatica", mi è venuto da pensare subito (con le maiuscole). La reazione mi è poi frullata in testa per un po', con tutta una serie di varianti e espansioni (anche l'ortografia, nel suo piccolo, la fa; anche la sintassi dovrebbe farla; anche l'ortografia, la grammatica e la sintassi la fanno, o dovrebbero farla, ecc.: la maledetta abitudine di cercare la frase perfetta che finisce per rovinare anche quelle decenti, che tanta grazia quando già ci sono), finché non mi è tornato alla mente il primo giorno di scuola nell'ultima terza che poi avrei portato fino agli esami di maturità, una classe che peraltro mi ha dato soddisfazioni, giusto per chiudere in bellezza la mia carriera di impiegato statale dell'insegnamento. 

Appena entrato nell'aula, mentre gli studenti scattavano in piedi in silenzio, sulla grande lavagna alle spalle della cattedra ho potuto leggere questa preziosa informazione, a caratteri giganti: SANDRA FÀ LE POMPE, accompagnata in ordine sparso, come da damigelle e a caratteri molto minori, da qualche nome, cuoricino, sigla da aspirante writer (eterno aspirante) e inneggiamenti all'Atalanta e a squadre milanesi di nessun conto. Ho salutato, pregato tutti di accomodarsi (non subito: prima li ho scrutati tutti, ad uno ad uno, per un po', giusto per godermi queste vecchie buone abitudini finché duravano, sapendo che tempo un paio di settimane e nessuno avrebbe più fatto caso al mio arrivo), mi sono presentato e, come se niente fosse, senza cancellare nulla, ho scritto nome e cognome sulla lavagna (dovevo aver visto qualche film americano di recente, perché era la prima e sarebbe stata l'ultima volta nella mia vita). Quindi ho fissato un momento la lavagna come per controllare che le mie generalità fossero corrette, mi sono voltato verso la classe e ho comunicato le principali norme di comportamento a cui mi sarei attenuto e che pretendevo anche da loro e ho illustrato velocemente i programmi... insomma mi sono esibito in una variante dell'abituale leggero e (mi dicono) divertente pistolotto di inizio corso. Infine, esplicate queste incombenze, ho guardato l'orologio, mi sono voltato verso la lavagna e, chiedendo chi era l'ignorante che l'aveva scritta, ho cerchiato e barrato la à della frase succitata. "Fa si scrive senza accento", mi sono limitato a dire. Tutti si sono voltati, con sintomatiche varietà di sguardi, verso l'autore della scritta, che, in attesa delle mie reazioni da un'ora intera al pari degli altri, è sbottato: "Ma profe, le fa davvero!". "Sono affari suoi," gli ho risposto, "e ora cancella questo obbrobrio"; e ho imbastito un breve ripasso sui monosillabi accentati, con opportuni esempi (gli esempi servono sempre), prima che suonasse la campanella. Ovviamente lo scrittore era il caso critico (stavo per scrivere clinico) della classe e io sono stato l'unico insegnante con cui non ha litigato negli anni seguenti, anche se ci ha provato più volte (ma da affezionato...).

Mentre rivangavo queste banalità, e le scaramucce, e i disastri combinati dall'allievo in questione (inutile negarlo: l'insegnamento mi manca; solo quello, ma quello mi manca davvero, a volte: carenza d'affetto), pensavo anche alle cose che fanno la differenza che mi mancano. Il fumo, per esempio (e va be'...), e il cioccolato e il gelato, a causa del valore della glicemia sempre vicino al limite (e altre cosucce come questa, dovute alla vecchiaia incombente; non ancora evidente... lontana dall'evidenza... piuttosto il contrario, sembrerebbe... ma comunque incombente, altro che palle!). Avevo un gran desiderio di caffè, che pensavo di bere in uno dei due bar appena entrato in Groppello, sperando che non fossero chiusi come tutti gli altri, poi ho visto un cartello che annunciava che la vicina gelateria artigianale era aperta e ho cambiato subito direzione. E che diamine, festeggio anch'io! La differenza a volte la fa l'infrazione. Per qualcosa che ti piace: non per l'infrazione in sé, questo mito scipito, d'accatto (per quanto a volte, si sa... anche se è solo un rigurgito di libertà, una fantasia dell'eterno prigioniero...). Un bel gelato al cioccolato fondente!, tanto per sposare due differenze.

Mentre lo gustavo, visto che ero nei paraggi, tutto contento sono andato a vedere il cimitero del paese, che non conoscevo. Tutto contento al cimitero! Non ho una passione vera e propria per i cimiteri, ma se ci passo davanti mi fermo spesso a visitarli (all'estero, nelle grandi città soprattutto, ci vado di proposito). Al centro del vialetto d'ingresso c'è un'alta cappella con, in alto, un monumento funerario che di primo acchito, col suo lungo cappello a cono, mi è parso di Pinocchio. Sarà di un vescovo invece: per chi ci vede una differenza. (C'è, c'è...) Ho scattato un paio di foto da fuori mentre finivo il gelato e poi, pian piano, ho preso la via del ritorno fischiettando la canzone che avevo nell'auricolare. Una canzone africana.

 


 

 

 

 

09/11/22

Appunti per niente 37. Che il discorso si sfilacci

 


Mi piace, diceva (ma non ricordo chi, né a proposito di cosa), che il discorso si sfilacci, vada a spasso da una frase all’altra, o all’interno della stessa frase, senza perdersi. E se anche si perde, non importa. Tanto una linea retta non c’è. La linea retta non esiste. Sempre ha uno spessore, con sbavature che aggettano in ogni direzione; sempre è interrotta, e ogni interruzione precipita nel vuoto, per riprendere dopo con una deviazione imprevista e imprevedibile. Alcuni mimano la continuità, si sforzano di ripristinarla confidando che, come loro la istituiscono con la loro azione, altri condividano il presupposto che essa ci sia; altri tracciano un solco, una via, a caso o no, ma di fatto sempre a caso, la prima che gli capita o un’altra. Sempre un’altra, comunque. Che alla fine, nei casi migliori, o nei più fortunati, darà l’impressione della necessità, e quindi della continuità.

 


 

08/11/22

Della gaffe (appunti per un trattatello che però risparmio a tutti, con una piccola rimostranza contro gli dei)



 

E’ ancora possibile commettere delle gaffes oggi, quando tutto sembra caduto nel minestrone dell’informalità? In realtà probabilmente è più facile. Ogni gruppo ha i suoi codici, dalla cosiddetta alta società a quella infima, giusto per sottolineare distinzioni che in genere si finge di ignorare ma che si stanno accentuando sempre di più, e assumere comportamenti disinvolti in ogni circostanza è il modo migliore per sbagliare sempre. Naturalmente è difficile fare gaffes nella vera alta società: lì i muri sono altissimi e le porte chiuse, l’accesso è riservato a chi vi è già dentro e quando qualcuno abbozza qualche sortita la gaffe, sesquipedale, è in agguato anche per lui (sorvolo su facili esempi per delicatezza); altrove, nella sua brutta copia dello spettacolo, quella dei Vip televisivi e mediatici, l’assenza di regole di comportamento, abbigliamento e linguaggio sembra la regola effettiva, con predilezione per il laido e il volgare. Ma se si aderisce a questi standard per la presunta impossibilità di cadervi, dato che tutto è possibile, la gaffe uno la fa sempre, comunque, di fronte a se stesso, che è quella peggiore, imperdonabile. A meno, ovviamente esclusi i cinici di professione (ma anche loro…), di non essere del tutto incoscienti, condizione che la stupidità aiuta. La stupidità imperante, quella degli altri, che possiamo vedere sempre in ogni forma di schermo non riflettente. Che peraltro è la prima a rimarcare e disprezzare ogni infrazione. E’ l’ipersensibilità del cretino. Quella che, a chi cretino è convinto di non essere, appare come rozzezza e vuota suscettibilità. E che invece è prontissima a rilevare ogni infrazione alla sua, di norma: tantissime, essendo diventato per ciascuno ristrettissimo il campo della norma.

C’è anche da dire, però, che se la norma si allarga troppo, le gaffes diminuiscono, in proporzione all’ampliamento e all’insignificanza che questo comporta. “Ah, sì? E che importa?”

Se poi uno è anche un po’ sbadato, la gaffe è il suo destino. Io lei mie non le conto. Peccato che non le dimentico.

 

Leggere un libro sulle gaffes però di un altro non consola. Se possibile, anzi, le cose per il lettore esperto in materia peggiorano. Non c’è meccanismo identificativo con il goffo cretino. E il fatto di sapere di esserlo stato in mille occasioni, e che certamente lo si sarà di nuovo fino alla morte, cioè alla gaffe definitiva, non impedisce di guardare al cretino-gaffeur, mentre si comporta o parla da gaffeur, al massimo con commiserazione, ma mai con vera empatia. Tra noi che ora vediamo o leggiamo e lui si è alzato un muro che, per quanto trasparente, resta nondimeno inattraversabile. E se alcuni quanti di empatia magari riescono a passare dall’altra parte, chissà che altro bersaglio raggiungono (sono così imprevedibili, e stupidi la loro parte), e il cretino continua a restare inattingibile. Come una divinità. Che forse egli stesso è. Perché anche sull’intelligenza degli dei è lecito nutrire dubbi. Commettono tante fesserie essi pure dalla loro distanza incommensurabile che è impossibile compatirli. Si avvampa di vergogna per loro, o di rabbia, e si preferisce volgersi dall’altra parte lasciandoli nel loro brodo, sperando che non diventi il nostro. Illudendosi che loro facciano lo stesso con noi: che come gaffe non ha eguali.

E’ tutta colpa loro, del resto. Della vita che ci hanno concesso (affibbiato), che è imperfetta da capo a fondo, senza possibile eccezione. Questo dovrebbe rendere meno urticante la nostra gaffe per noi, e quella degli altri ai nostri occhi. Saperlo però non basta. C’è motivo di arrabbiarsi ancora di più, semmai. Già che c’erano, non potevano impegnarsi un po’ di più? Stupidi lazzaroni!

È la vita come imperfezione quindi (mi scuso per l’espressione altisonante: per la gaffe linguistica), non solo l'impossibilità di piacere a tutti, ma, peggio, quella di piacere anche a coloro che abbiamo scelto, coloro a cui ci importa di piacere; è la non coincidenza dei tempi e delle reciproche aspettative, l'ineliminabile ignoranza quasi totale, al di là del ristrettissimo parapetto delle convenzioni, di ciò che stanno vivendo e pensando gli altri con cui stiamo di volta in volta interagendo, e di noi stessi, ancor di più, e la presenza sempre incombente, soffocante e imperativa dell'idea, e della volontà, nonostante tutto, di perfezione, di accettazione totale e senza riserve, di assoluto, ecco cos'è.

 

Ps. Questi appunti sono nati in margine alla lettura del bel libro di Mario Fortunato “Autobiografia della gaffe”. Che è la storia di alcune gaffe della sua vita, ma anche, in un certo senso, se non proprio una riflessione sulla teoria della letteratura, l’esposizione indiretta, traslata, laterale, con la coda dell’occhio, del proprio modo di intenderla, e almeno in parte della propria poetica, applicata, o dedotta, a momenti salienti della propria biografia, amori, incontri, aneddoti e soprattutto letture. Qui soprattutto Freud, Benjamin, Heidegger, Bachman, Proust. Perché la vera autobiografia di uno scrittore passa per le sue letture (e per le scritture; e solo in un terzo, o quarto, tempo per ciò che ha fatto e gli è capitato).

Le gaffes prese a sé non sono che episodi che riguardano solo l’autore, aneddoti divertenti o curiosi (ben raccontati peraltro, con acume, e l’ironia indispensabile a chiunque voglia sopravvivere alle proprie deficienze e, peggio, narrarle), che prendono senso e illuminano la vita e le cose, anche per noi, solo grazie alle lenti dei libri letti, che lasciano poi spazio anche allo sguardo laterale che alla visione chiara aggiunge la prospettiva da cui entrano scoperte e verità impreviste e inedite.

Scrive Fortunato: “la gaffe, lungi dall’essere un limite – un errore, un abbaglio, una cantonata – è al contrario un modo in cui il linguaggio sorpassa la realtà storica per farne trasparire l’essenza extratemporale, cioè la verità, cioè la bellezza. Anche se verità e bellezza possono essere i più potenti mezzi di trasporto del dolore.”

Insomma, in quanto gaffeur mi sento in difetto, inferiore agli altri, pieno di magagne, di tare ecc., ma proprio questo può darmi accesso a qualità e capacità che agli altri sono precluse (verità e bellezza – oltre al dolore che aiuta in questo senso, e nobilita anche!) e quindi sono superiore. E’ la rivalsa dell’inetto, come insegnava già Svevo peraltro. Il ‘900 ribaltato in gloria.

Specie quando si parla in prima persona. Scriveva Blanchot: “L’impersonnalité – une manière commode de s’agrandir jusqu’à l’universel” (La condition critique, Articles 1945-1998, Gallimard, 2010). Ma la prima persona è più furba nella sua ingenuità vera o finta: sembra ridurre tutto all’aneddoto, alla miserevole vanagloria della modestia, del relativismo, e invece… E’ l’astuzia della gaffe, come diceva Hegel. Non ci si scappa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


06/11/22

Ogni tanto l’imbuto si intasa


Le donne escono di casa con gli orinali in mano. Si mettono in attesa vicino al carro e a turno li consegnano a mio zio che li travasa nella botte attraverso un grosso imbuto. Le braccia si alzano rigide e il petto delle giovani si protende contro l’abito leggero. Alcune restano così, come blocchi di lava nera, fino a quando non ricevono indietro, con l’orinale, anche lo sguardo di mio zio, che a volte allora interrompe per un attimo il suo monologo, quasi a riprendere fiato, mentre altre sembra accelerarlo per coinvolgere vicine e lontane. Ridono tutte, anche quelle che gli predicono catastrofi. La tua lingua ti perderà. Ogni tanto l’imbuto si intasa e lui con un bastone libera il passaggio. Il gesto rilancia la sua ispirazione, che viveva un momento di fiacca. Modula nuovi commenti, a catena, in un crescendo che si nutre da sé, estatico. Le donne smorzano le risa, le soffocano in gola. Piegano il capo verso terra e si sbirciano l’un l’altra portandosi la mano alla bocca. Lui rincara la dose; loro protestano ma riprendono a ridere. I mariti sono al lavoro. Io guardo la signora seminascosta da una tendina al piano nobile del suo palazzo. Non ne distinguo l’espressione. L’ho sognata anche stanotte. Prendo la trombetta dal gancio al mio fianco e soffio con tutte le mie forze. Un cane abbaia furioso muovendosi a scatti attorno al cavallo, che non raccoglie la provocazione. Continua a masticare assorto nella musetta che gli ho messo a tracolla, e questo è tutto. Dal fondo della strada si fanno avanti altre comari. Camminano in processione con passo lento, legato. Alcune portano l’orinale sulla testa, altre ne stringono il manico con la destra e lo reggono da sotto con la sinistra tenendolo a distanza dal grembo. Come un’offerta. La signora indossava un lungo vestito bianco e si proteggeva dal sole con un ombrellino di pizzo. Attraversava la piazza deserta senza affrettarsi, ma come avesse una meta davanti agli occhi. Io ero seduto sui gradini della chiesa. Alcune donne si fermano a chiacchierare, con l’orinale vuoto in mano, il braccio abbandonato lungo il fianco. Poi lentamente, di malavoglia, si allontanano a gruppi di due o tre verso casa. Mio zio continua a parlare, incurante del pubblico che si sfoltisce. Ne basterebbe anche una sola, per lui. Forse nessuna. La signora mi oltrepassava come se io non ci fossi, ma a me sembrava di notare uno sguardo gettato di sfuggita. Intenso, che mi bruciava. Io la seguivo da lontano. In riva al torrente, dietro le canne, affondavo la mia testa sotto la sua gonna. La voce di mio zio ripete il mio nome e uno scappellotto mi sfiora leggero la nuca. Ride, enumera ipotesi, evoca lontani ricordi, disegna scenari per il mio futuro, prossimo e remoto. Io guardo la strada deserta sbiancata dal caldo, la terra sbiadita. Do uno strattone alle redini e il cavallo, con un salto, riparte.