30/05/19

I finlandesi sono più riflessivi



 a Sivia Mazzucchelli (atto dovuto)

Secondo me i finlandesi, con quelle parole che bastano da sole a fare uno dei nostri versi classici, dal settenario all'endecasillabo, per dire anche la cosa più semplice, che so? casa, freddo..., ecco, secondo me sono gente che, avendo tutto il tempo per pensare bene a cosa stanno per dire da una parola all'altra, sono gente, dicevo, che per forza deve essere più riflessiva di noi, e quindi più intelligente. Come effettivamente pare che sia. A parte i pochi meno fortunati, che, di memoria fragile, tra una parola e l'altra si perdono, e allora diventano presto pazzi, o artisti, o entrambi.
Si muovono in spazi diversi, dai confini spesso invisibili, bianchissimi, come la neve che li copre, e così capita che senza accorgersi alcuni finiscano in Russia e, ignorando dove sono approdati, scatenino rivoluzioni, o costruiscano ponti, dighe o altre opere ciclopiche, non tutte nefaste.
Poi da vecchi sentono nostalgia di casa, ma non ricordano più quale e dove è, e si abbandonano a lunghi lamenti, interminabili, che rischiano di lasciarli senza fiato, e che un linguista della scuola di Tartu una volta ha tradotto così: ahimè, ahimè. O: povero me, nella sua forma più straziante.
E dopo averli decifrati gli è parso di ricordare qualcosa e è stato colto da un pianto inconsolabile.



[commento Silvia su FB: Bellloooo
Risposta mia: stavo tornando dalla riunione, Silvia (e abbiamo parlato dei tuoi due pezzi che non arrivano), e sul libro che stavo leggendo sul treno, dalle parti di Melzo, mi è caduto l'occhio sulla parola "Kalevala", che è un poema pseudoepico finlandese dell'800 come sai (1800), e mi sono ricordato di una cosa che avevo visto in tv di un giocatore finlandese che faceva recitare a un americano una parola delle sue con grande sconcerto e divertimento di entrambi, e allora mi è venuto da scrivere la prima fase direttamente sul cellulare e poi, non so come, sono andato avanti a capocchia fino alla fine, che ho piantato lì perché ormai ero arrivato a Treviglio, ma intanto mi guardavo attorno anch'io un po' smarrito perché non riuscivo a capire come fossi arrivato lì. A quel finale, non a Treviglio... Abbraccio.]

20/05/19

Enrique Vila-Matas. La festa e l’abisso




La seconda opera è la brezza. La prima è il luogo buio, dove ti ritrovi indifeso, solo, soggetto a tutto, e senti forse, a momenti, rumori, bisbigli, intuisci movimenti e a volte sei raggiunto da toccamenti, urti e carezze che non sai da dove e da chi vengano. È un’opera che non c’è; c’è solo nella misura in cui la vivi, ti esponi ad essa entrando, ogni volta diversa, variata. Altrimenti si sottrae alla percezione; o meglio: è la percezione del buio totale: se uno non entra, da fuori c’è solo il buio, la percezione di non percepire.
La brezza percorre tutto il libro, è una delle immagini chiave; ma si sente perché prima si è stati esposti al buio, allo spaesamento, alla fragilità, alla solitudine e alla paura. È l’invisibile che ti càpita. Si comincia a scrivere così. Poi la brezza spinge.
(Ma nel luogo buio si torna sempre comunque.)
Il narratore infatti ci torna regolarmente. È un po’ una metafora del suo (e nostro) agire e vivere, la perdita di ogni riferimento, l’acuire i sensi senza nessun risultato, la tensione l’allerta e l’abbandono, il desiderio e la paura del contatto, ad opera di chiunque, nel buio in cui si brancola.

Da una trentina d’anni a questa parte, almeno a partire da Impostura (1984, non tradotto in italiano), e poi a ritmo crescente in questo secolo inaugurato con il bellissimo Bartleby & Co., Enrique Vila-Matas ci ha dato una serie di romanzi di altissimo livello che lo hanno posto tra i massimi scrittori viventi. Partendo dall’ultimo libro tradotto, Kassel non invita alla logica, vorrei parlare di alcuni aspetti e temi della sua opera che ogni nuovo titolo arricchisce di approfondimenti e sfaccettature, così da creare un edificio complesso e coerente, riconoscibilissimo ma per nulla monotono, sempre in fieri ma composto di opere perfettamente autonome e come tali leggibili.

I temi sono quelli che la modernità ha portato alla luce e che, in un certo senso, più che indagato ha fatto nascere e che ora sono nella nostra vita solo nella misura in cui ce li ha portati la letteratura: non perché prima non ci fossero la disperazione, il rifiuto, la fuga, il conflitto generazionale, o l’abisso, la perdita di identità, l’eclisse del soggetto, la rinuncia all’opera ecc., ma perché è la letteratura nata con la modernità ad averli circoscritti, definiti, tematizzati e indagati, cioè posti in essere. Leggendo Vila-Matas è tutta la letteratura che si avverte e si legge, con un accento inconfondibile presto diventa anche il nostro: non siamo proiettati nel passato, sentiamo il passato nel presente e possiamo sentire il presente proprio per la presenza in esso di tutto il passato. Non come guardarobato o repertorio, ma come fonte e sostanza del nostro sentire.

Il tono in cui questi temi sono affrontati rileva sempre di ironia e leggerezza che, lungi dall’andare a discapito di serietà e profondità, sono per Vila-Matas il solo modo in cui possono presentarsi senza tracimare immediatamente nell’insulsaggine seriosa (nella stupidità). Vila-Matas infatti è sempre divertente. Divertente quanto intelligente (tantissimo). Che poi è la stessa cosa, perché l’intelligenza è una fonte inesauribile di divertimento; meglio: di gioia; anche quando l’argomento è serio o tragico, perché anche nella tristezza e nel dolore, l’intelligenza e la comprensione possono essere fonte di gioia. Una gioia leggera, che mette in moto il cervello e l’immaginazione insieme: non quella sognante, fantasiosa (anche, a volte), ma quella combinatoria e, più ancora, quella a cui piace imboccare strade e seguirle fin dove sono tracciate e oltre, e da lì tracciarne altre. Meno per perdersi, o per il gusto dell’ignoto che avvolge e soggioga, quanto piuttosto perché già perdersi è un trovare. E anche un ritrovare: trovare non di nuovo, ma trovare nuovo ciò che già si sapeva o si aveva in ciò che si ignorava e si viene a sapere, che si scopre leggendo e pensando. Un modo nuovo di trovare. (Anche l’intelligenza è una passione.)

L’assunto di partenza di gran parte dei suoi libri è semplice: non so se c’è qualcosa di importante da capire; se c’è, è impossibile capirlo però; e se lo si capisce, è impossibile dirlo. O quantomeno dirlo direttamente. Ma siccome uno vuole dire lo stesso (è già nel linguaggio, e nella letteratura, fin dal principio), può tentare di farlo solo indirettamente in maniera seconda, o terza ecc. E questo principalmente tramite due vie: la prima, ripercorrendo ciò che è stato detto da altri (ciò che altri hanno tentato di dire in merito: anche in merito a ciò che loro o qualcun altro hanno fatto, donde la rilevanza della biografia); l’altra con gli strumenti della retorica: l’ironia in primis, che è sempre obliqua, e poi la reticenza, l’ellissi e persino, con parsimonia, la metafora e l’allegoria.
La procedura è questa: individuato l’argomento o tema, o motivo (o urgenza, o svago: perché no?): per esempio la negazione (Bartleby), la giovinezza e la “disperazione” (Parigi...), il suicidio e l’arte della sparizione (Suicidi esemplari), la depressione (Il mal di Montano), ecc., indagare (leggere, studiare ecc.) quanto si trova su si esso (non nei trattati psico- o sociologici, ma nella letteratura), collazionarli e ordinarli (ma non in modo lineare: come una trama, piuttosto) e trovare un filo conduttore, meglio se a sua volta doppio o indiretto per infilare le perle trovate o create ad hoc, con qualche nodo, alcuni visibili altri meno, e qualche pietra estranea, confidando che il lettore sia distratto e cada lui stesso vittima della doppiezza (cioè della brillanza; anzi, visto che siamo nel letterario: degli specchi, della falsa sembianza, della finta rappresentazione) e continui a modo suo l’operazione. Ciò che gran parte dei suoi lettori, che in questi libri si proiettano e trovano fratellanze impensate, sono ben lieti di fare.
Vila-Matas è affetto da una forma acuta ma non letale del “mal d’archivio” di cui parla Derrida, che cura non combattendola, ma piegandola verso il giocoso, la libera combinatoria. La letteratura postmoderna mostra chiaramente il pericolo insito in queste procedure: che il gioco scada a giochetto, che il gratuito prenda il sopravvento subordinandosi al divertimento e proprio per questo non raggiungendolo se non a tratti, o peggio ribaltandolo nel noioso, anche se Vila-Matas è troppo avveduto per non cercare di recuperare persino il gratuito nella concezione stessa del libro, nel suo oggetto (lo shandy, il mcguffin), a dispetto del rischio sempre incombente che si tratti di un salvataggio alla Münchhausen, che cerca cioè di tirarsi fuori dalla palude prendendosi per i propri capelli. Tanto che viene il sospetto che questa non sia che una presa in giro del postmoderno con le sue farciture decontestualizzate di tutto con tutto ecc., e insieme del suo (presunto) normale modo di costruire certi libri. Vale per lui la lezione di Salvator Dalì (cit. in Il viaggiatore più lento, p.87): “Approfitto al massimo della situazione. Approfitto di tutto”. Poi se ne va per le sue strade e il lettore lo segue.



Passando ora a Kassel non invita alla logica (2014, trad. it. 2015), ad alcuni è parso un libro godibile e acutissimo come sempre, ma forse un po’ marginale, con la sua apparenza di reportage narrativo, sia pure non scontato come non lo è nessun libro di Vila-Matas. Non sono d’accordo, ma se anche così fosse, a volte sono proprio i libri apparentemente minori, o “laterali”, quelli che permettono di accedere più agevolmente al mondo e alla strumentazione di un autore; non perché lì si tradisca o si lasci più andare, cosa che è difficile attribuire a uno scrittore come Vila-Matas, tanto lucido che si potrebbe pensare che questa sua qualità si traduca a volte in debolezza, o come la forza vista dall’altro lato se si preferisce, come il limite su cui fare leva approfittando del suo punto di maggior forza, come direbbe qualche orientale, per ribaltarlo a terra e costringerlo a cedere (a rivelarsi); quanto perché certi motivi che erano parsi marginali diventano in quelle opere centrali e rendono manifesti alcuni meccanismi che lì funzionano quasi da soli o vengono esplicitamente portati in primo piano, o usati in modo appena mascherato (cioè rivoltati e mutati di segno), in contesti insoliti e in forme che rilevano in apparenza di generi e convenzioni diverse, come il diario o il reportage.

Per tali ragioni è forse interessante accostarsi alla sua opera passando per la porta di un libro come questo che rispetto ai più noti sembra un po’ laterale e minore anche quanto agli argomenti, mentre invece ne riprende e sviluppa alcuni dei temi principali e lo fa, conformemente all’occasione: la più importante manifestazione internazionale di arte contemporanea cosiddetta d’avanguardia, innovando per l’ennesima volta la forma narrativa adottata. Kassel si presenta infatti come un resoconto dell’esperienza di Vila-Matas a Documenta XI che si diffonde largamente anche sulle opere e installazioni realizzate per la circostanza incluso il piccolo ruolo che lui stesso vi ha recitato, e molti hanno creduto che nient’altro che questo fosse, senza accorgersi che invece è un altro, e importante, capitolo della sua esplorazione del soggetto e dei suoi rapporti con l'opera e con la vita, – in primo luogo la sua, e proprio per questo, tendenzialmente, con quella di tutti –, e sul ruolo imprescindibile che vi riveste l’arte, che si definisce come tale solo attraverso l’innovazione, come avanguardia appunto, anche se oggi questa denominazione sembra obsoleta. (Basta chiamarla in un altro modo, se proprio.)
                             
Vila-Matas era stato invitato a partecipare alla manifestazione dalle curatrici Carolyn Christov-Bakargaev e Chus Martínez. Dopo qualche riluttanza aveva accettato, attratto dal desiderio di poter verificare lo stato dell’avanguardia visiva contemporanea e anche per cercare di sfuggire allo strano fenomeno di alternanza quotidiana di euforia e disforia, di allegria e vitalità al mattino e depressione sempre più cupa all’avvicinarsi alla sera, da cui era affetto dopo la grave malattia che lo aveva colpito pochi anni prima. Condizione che ripete, ribaltata, quella del titolo della rassegna di Kassel: Collapse and Recovery. “Nel mio corpo si compie il motto di Documenta”, p. 67. Il suo compito sarebbe stato semplice: non avrebbe dovuto fare altro che essere se stesso e starsene tranquillo per tre settimane a scrivere, invece che in privato a casa propria, in pubblico al tavolo di un ristorante cinese; compito che si sarebbe concluso, su sua esplicita richiesta, con una conferenza intitolata “Conferenza senza nessuno” (tenute, ascoltate, progettate, schivate, le conferenze sono frequentissime in Vila-Matas), come se accettare l’invito non fosse che “per vedere se ero in grado di trasformare la loro proposta cinese in qualcosa di creativo o, in alternativa praticamente identica: in grado di trasformare la loro proposta in un fertile e produttivo modo di cavarmela”. Una prova. (p. 52)

Nel ristorante cinese, Vila-Matas è quindi se stesso e insieme interpreta il ruolo dello scrittore all’opera: è un’opera che altri ha pensato per lui, assegnandogli questo ruolo, ma che lui si sente libero di interpretare a modo suo. Recita quindi il ruolo dello scrittore, come non si può fare a meno di recitare in ogni momento della vita (secondo quanto viene detto esplicitamente in Diario volubile), ragion per cui è inutile cercare di sfuggirvi. Molto meglio, allora, assumerlo con la consapevolezza che si sta comunque recitando e, poiché non si è mai se stessi, cambiare ogni tanto di identità e ruolo, declinando in modo originale dei presupposti che invece originalissimi non sono, almeno da Pirandello in poi. Per esempio, a Kassel, cominciare accettando il ruolo di rappresentante di se stesso scrittore (e della categoria) anche come colui che scrive in, e per il pubblico, forse come una parodia di quegli intellettuali che si mettono a disposizione dei fans nelle fiere e nei festival, per non parlare di quelli che se ne stanno a scrivere ai tavolini delle terrasses dei caffè parigini o all’interno di quelli triestini (con l’aggiunta però che lo scrittore catalano ama Magris e gli è amico personale), per poi assumere l’identità di un altro scrittore (chiamato appunto Autre), a cui verranno attribuite personalità e opere in apparente contrasto con quanto il lettore su Vila-Matas è venuto apprendendo, al quale Autre se ne aggiunge poi un altro ancora (Piniowsky), a sua volta dotato di caratteristiche individuali e via di seguito. La scrittore nella sua funzione pubblica non è altro che un tale che scrive in pubblico, ignorato da tutti, a parte un paio di scocciatori; l’autore come personalità e istituzione si dissolve in fantasmi mentali risibili.

Allo scrittore inventato, Autre, rappresentato come ingenuo e non intellettuale, l’autore attribuisce ironicamente due sole idee, ossessive però: incomunicabilità e fuga, di cui il Vila-Matas narratore dice che gli sono indifferenti (“il desiderio di cambiare vita e partire e basta mi era indifferente: in fin dei conti, era il desiderio di un altro... un barcellonese chiamato (provvisoriamente) Autre” – p. 103), ma che sono invece due degli argomenti che più ricorrono nella sua stessa opera, come sanno benissimo i suoi lettori. Il gioco dei rimandi e mascheramenti viene poi rafforzato dal fatto che gli attribuisce anche alcuni tratti e ricordi della propria biografia, come avviene per altri personaggi di romanzi precedenti quando si costruiscono un passato quando decidono di cambiare identità.
È una procedura che in varie forme si ritrova in altri libri di Vila-Matas: per esempio i ricordi del padre di Vilnius, in Un’aria da Dylan, si infiltrano nella sua mente in modo simile ma opposto a quelli del fantomatico dott. Pasavento nel narratore del romanzo omonimo, ma analogo a quello dei pensieri di Autre e Piniowsky, che invadono e per brevi tratti colonizzano la testa nel narratore di Kassel, che assume la loro personalità e adotta i loro pensieri e progetti e sembra (dico sembra) cancellarsi in essi, a misura della differenza e lontananza dai propri (da quelli che lui si attribuisce).
Il passato dei personaggi (e forse quello di tutti) come invenzione, insomma, come frammento della vita di un altro personaggio ancora che non coincide con colui che si inventa un’identità ricordando; ma anche un passato che trasforma l’identità del narratore e, si lascia intendere tra le righe, dell’autore stesso.

L’invenzione di Autre e di altre figure della stessa serie, come Piniowsky, mi ricorda non fosse che per una remota assonanza Learco Pignagnoli, il personaggio inventato da Benati, Nori, Cornia & Co, che a loro volta mi ricordano la setta degli Shandy vila-matasiani. Con la differenza che la combriccola emiliana ha creato un soggetto autonomo, una figura completa di opere e personalità, con un cospicuo corredo di esperienze e ricordi di cui essa sarebbe depositaria e testimone, mentre nell’opera di Vila-Matas, e in particolare in Kassel, l’invenzione dei due scrittori che ne prendono il posto nel ristorante cinese complica il soggetto, lo decentra e lo spossessa, moltiplica i punti di vista e li fare interagire mettendoli in reciproca contraddizione e rendendo infine tutto fittizio. Ovvero assegnando a tutto lo statuto di una finzione. Di una finzione necessaria: in sé, se non nei modi che viene ad assumere. O meglio: necessaria proprio perché non può fare a meno di assumere modi e ruoli che per conto loro non lo sono (ma nell’opera specifica sì). Una finzione che tuttavia in Vila-Matas non cancella il soggetto e la sua “vera” identità: “da quando mi chiamavo Piniowsky assomigliavo di più me” (188). Per essere se stessi, quindi, non basta esserlo, bisogna anche somigliare; ma per somigliare bisogna uscire da sé, cioè non esserlo più: non coincidere con se stesso. (Ricordo di sfuggita che quello che si potrebbe chiamare il “fattore somiglianza” è un altro dei motivi ricorrenti dell’opera di Vila-Matas: dal protagonista di Parigi non finisce mai che crede di assomigliare a Hemingway e addirittura va a una convention dei sosia in Florida da cui sarà allontanato con ignominia, a quello di Un’aria da Dylan che davvero assomiglia al grande Bob...: un tema che ovviamente va di pari passo a quello opposto della volontà di distinguersi e di opporsi, in una dialettica che a volte inverte i normali ruoli generazionali, narrata cioè dal padre insofferente e, lui sì, ribelle...)



Più l'autore è stato espulso dall'opera, più si sono moltiplicati i modi e le forme in cui il suo fantasma vi è riapparso. Decretata la sua morte, l'autore è libero di riprendere possesso dell'opera e scegliere tempi e luoghi delle sue apparizioni e dei suoi nascondimenti, dei camuffamenti o parziali proiezioni, delle sue temporanee eclissi.
In Kassel, al consueto gioco di sovrapposizioni-giochi-sparizioni ecc., si aggiunge la doppia figura dell'“autore all'opera” come opera. L'autore si espone mentre è all'opera (ma in realtà finge di scrivere, o scrive cose che attribuisce a un autore fittizio di cui assume la temporanea identità, sempre con il rischio che questa, però, prenda il sopravvento sulla “sua”, vera o a sua volta immaginata); è autore in quanto è all'opera, in questo caso mentre scrive al tavolo di un ristorante cinese, e come tale viene riconosciuto, o volontariamente ignorato, anche da chi non lo conosce, non ha mai letto una sua riga o ne ignora persino il nome; ma mentre si espone all'opera, diventa lui stesso opera: è opera per il fatto di esporsi. Ma questo fa di lui, di nuovo, un altro, e allora lui ne assume l'identità (la inventa, gli dà un nome e una bibliografia e uno stile), o almeno così crede, perché poi di fatto è quest'altro a prendere possesso di lui e dei suoi pensieri, o quanto meno, se non a produrli direttamente, a piegarli, a conferirgli il clinamen che li porta a incrociare le cose in modo diverso e a costituire, per tutto il periodo della possessione, gli specifici aggregati che informano l'esistenza dell'autore, il suo immaginario, e dunque anche la sua opera; e poiché l'autore come opera è un contenitore che ha sì una sua forma, ma è in parte vuoto, è pronto ad assumerne sempre di nuove (come Autre e Piniowsky), e a dar luogo a chimiche sempre diverse (di preferenza mediante il gioco di “far finta che...”).
È invaso dalla nuova “persona” e insieme ci gioca: la governa con destrezza e ne è posseduto e definito. È l'autore a decidere cosa ispira (Duchamp: il nume dell’avanguardia e di Vila-Matas) e a decidere cosa, o chi, è autore (Mutt). Ed è l'autore interno a questa operazione, a questa prassi dell'autore all'opera, a ridefinire l'identità dell'autore “vero”, demiurgo e creatura al contempo. Moltiplica cioè, nel tempio dell'avanguardia, quel self-fashioning che proprio le avanguardie hanno sempre avuto come default ineliminabile, nella loro poetica stessa: solo che qui, più che realizzazione di un progetto è reazione alle circostanze, non tanto (o non solo) epocali, quanto soprattutto quelle specifiche spazio-temporali.

Questo dell’identità (1), è un tema pressoché costante nell’opera di Vila-Matas che lo affronta da decine di prospettive diverse. Spesso è presentato come peso, gabbia ecc., che porta a negare e rifiutare quella ricevuta o costruita e/o a moltiplicarla per cancellarla e sparire/sottrarsi, nascondersi e assumerne sempre nuove, come maschere o in ruoli diversi (in famiglia, nella società, o in altri spazi geografici e culturali). Ciò che viene discusso e rifiutato è l’identità, non il soggetto, che anzi i personaggi di Vila-Matas intendono diventare proprio rifiutando l’identità: un soggetto aperto, mobile ecc., magari ridotto a quasi niente, ma non assente (nel senso di assente a se stesso: per quanto a volte anche questo impulso ci sia). Il passaggio avviene attraverso la negazione radicale o la sparizione (2), raccontate soprattutto in Suicidi Esemplari: dove però spesso più che il suicidio è appunto l’arte di scomparire l’oggetto principale, ma anche in Bartleby e Pasavento ecc., con un’insistenza che sembra la risposta all’imperativo dell’esposizione e della ricerca ossessiva dell’attenzione che nella nostra società sono diventati così decisivi da costituirsi in un vero e proprio mercato a sé e come caposaldo del mercato globale stesso. I personaggi di Vila-Matas sono artisti dell’eclisse, del venir meno agli altri senza rinunciare a se stessi, anche a costo di negarsi a qualunque rapporto o attività (Bartleby, Walser). In genere però negazione e sparizione vengono realizzate soprattutto mediante viaggi (3), che, quando non sono conclusivi, sfociano (e come potrebbe essere altrimenti?), in nuove, più soddisfacenti (fino a quando non si sa) identità, che a loro volta possono essere la scoperta di un altro sé profondo, dimenticato nell’infanzia o abbandonato come un sentiero appena intravisto ma non imboccato, o nuovo di zecca, scoperto alla fine del percorso o formatosi pian piano, quasi inavvertitamente, durante il tragitto. (Il suicidio vero e proprio non conta, in questo caso: è la fine del viaggio, la rinuncia totale. Esemplare, per certi aspetti, ma in sé non interessante. È interessante per il prima, che esso costringe a riconsiderare, quando non è una conclusione attesa, logica. Nessun suicidio, tuttavia, è una conclusione logica e necessaria, perché quello che conta è il momento della messa in atto di una decisione, che è sempre un salto fuori da ogni logica e necessità: altrimenti, data l’abbondanza di premesse simili, non si spiega perché il suicidio in fondo sia così raro.)

Al termine di questi viaggi la nuova (finta) identità diventa più vera della vera (la precedente, che in tal modo si rivela falsa, o quantomeno esaurita, chiusa, con tutto il suo carico di attività, ruoli e legami). Le variazioni intorno al rapporto realtà/finzione e verità/falsità, il trapasso del primo termine nell’altro, la sovrapposizione e le disgiunzioni e le derivazioni e deviazioni, sono un’altra delle pietre angolari dell’opera di Vila-Matas, con traiettorie, partenze, a loro volta vere o false, e chiusure o interruzioni provvisorie che verranno poi rilanciate nei libri successivi e da uno all’altro, rimescolando anche a ritroso le conclusioni provvisoriamente raggiunte. Kassel, per esempio, inizia sotto il segno dell’impostura (come il titolo del romanzo del 1984), del falso indizio e del gioco, che sono i tratti principali del cosiddetto mcguffin. L’autore è invitato a cena dalla sedicente segretaria di una coppia irlandese, i McGuffin, che poi scoprirà non esistere: in compenso si presenta una splendida donna che lo inviterà, a nome delle sue vere datrici di lavoro, le curatrici di Documenta XI, a partecipare alla rassegna nei modi già descritti. Da quel momento mcguffin ricorrerà più volte nel testo, a designare tutto ciò che di incongruo e ingannevole o fasullo si può trovare, o inserire, in un discorso o evento: una specie di corpo estraneo, da una parte, alla trama tradizionale (quella moderna, beninteso), alla sua logica che potremmo chiamare della surdeterminazione, dove ogni elemento viene ripreso, risemantizzato e reso funzionale da richiami, allusioni e connessioni interne ecc.; mentre dall’altra appare, in un certo senso, come il contrario proprio delle procedure citazionali e di ripresa di figure, oggetti e motivi che sono tra le più usate da Vila-Matas. Più che di rilancio e di agevolatore della trama, il mcguffin ha cioè una funzione di rottura, di intralcio e di sospensione o deviazione: tende a giocare con il vuoto di senso, l’assurdo ecc.. Anche se poi il testo, come sempre, lo riprende sotto la sua ala e lo piega al proprio volere anche quando non è già l’autore a pensarci. È come se l’autore volesse inserire un elemento di contraddizione, una pietra d’inciampo, un fattore di caos, all’interno di un organismo che parla di una rassegna, Documenta, in cui le opere come caos a volte si presentano e che come caotico si propone a sua volta, mentre in realtà è costruito in modo meticolosissimo. Ma è anche un omaggio al fatto che, per quanto si calcoli, il caos, la dispersione, la deriva incontrollata, sono sempre in agguato. Nel testo come nella vita. E meno male.
“Senza i McGuffin”, disse Boston, “possiamo fare ben poco, al limite cantare do re mi. C’è vento e pioverà” (p. 15).

Ogni volta che spunta un’idea, o affiora una sensazione, e soprattutto una espressione o formula o citazione che colpisce il narratore, anche se quasi sempre viene fatta oggetto di riflessione o di dialoghi che ne sviluppano le implicazioni e sembrano esaurirne quantomeno il nucleo essenziale, si può star certi che più tardi si troveranno, a più riprese, riverberate, o incarnate o alluse o declinate come un criptomessaggio in una metafora o micronarrazione o speculazione in qualche sviluppo secondario della storia, in una nuova sensazione momentanea o nella piega che prende una percezione atmosferica o il comportamento di un personaggio, o in un aspetto del paesaggio, in un ricordo... (cfr. 66-9 e poi 78 x es.). Questi dati (materiali), anche infimi, non sono però illustrazioni o esemplificazioni dell’idea o sua espressione primaria, ma il modo in cui essa diventa reale: sono le forme concrete della sua verità che, in loro assenza, sarebbe altrimenti solo puro suono, evocazione confusa, vuota, insignificante. Altre volte invece questi elementi diventano una categoria interpretativa di comportamenti o eventi (70-1), un modo per dargli un senso, una forma (75, 96)... cosa che, ripetuta o variata o intrecciata con altre espressioni va poi a costituire la rete di motivi e melodie che scandiscono e informano tutti i libri, ciascuno in modo diverso, ma con temi e ritornelli che si ripetono dall’uno all’altro: non le fondamenta su cui la narrazione poggia, ma il graticcio, la sottile e quasi invisibile (ossatura) armatura su cui si distende il testo e che lo tiene assieme e connette i suoi tracciati, annodando con le sue scansioni il decorso temporale della narrazione.

Leitmotif, temi, variazioni la cui fonte è andata persa, dimenticata o indifferente, o apposta intorbidita, tenuta segreta. Citazioni vere e inventate... del resto, invece di “come dice Kafka”, o Goethe o Dante o Maradona, basta dire “come ho letto su un muro di Valparaiso o in un cesso di Medellin”, o “come credo abbia detto un mio amico una sera in cui eravamo un po’ ubriachi”, o “come ho sentito in un tram o mentre attraversavo clandestinamente la frontiera” e uno non sembra più pedante, non è più postmoderno o troppo lontano dalla vita... (e molto vicino a cliché di genere).
(Così uno attraversa, come se niente fosse, tutte le frontiere tra un momento e l’altro, e a un certo punto si ritrova senza accorgersi, smarrito, in un luogo sconosciuto, eppure tutto e solo suo. E così ogni volta, senza che gli serva a niente, fino all’ultima.)

Una dimostrazione di queste dinamiche costruttive la si trova quando il narratore parla di ciò che contraddistingue “ogni buon viaggio” (p. 32). Mentre afferma che la paura ne deve essere una componente essenziale, il narratore accenna a un “fantasmatico” “alito secco” che avverte sulla nuca in un “vicolo buio”: sembra c’entrare poco, invece il primo, l’alito, è un antesignano, una specie di prolessi sfumata e si direbbe erratica, che prepara il terreno alla “brezza” della seconda installazione visitata e di tutte le sue reiterazioni e varianti, e il secondo della stanza completamente buia della prima installazione e delle varie visite che il narratore vi farà, e dei rispettivi campi semantici. Le opere sono quindi presenti ancora prima di essere visitate e narrate, ma questo si scopre solo quando esse avranno fatto la loro comparsa nel libro. Anzi, non si scopre, perché allora questo breve passaggio, sarà stato dimenticato nei suoi dettagli, resterà a sua volta quasi arbitrario e fantasmatico, e lo si noterà, eventualmente, solo alla seconda lettura, come è capitato a me. Alla prima non sarà avvertito come tale, ma solo all’interno del discorso che il narratore stava facendo in quel momento. Al massimo resta come una traccia come una sfuocata e oscura memoria, un soffio appena avvertito che ogni tanto la percorre. Appunto.

Resta come una traccia, o uno dei tanti percorsi secondari e digressivi di cui le opere dello scrittore catalano sono intessuti. Anche nei romanzi che presentano un andamento all’apparenza più tradizionale, la narrazione non è mai continua: infatti non solo la linearità è sempre complicata da punti di vista che riprendono gli eventi da diverse prospettive, o da ricordi e prolessi, ipotesi e analogie ecc., o si avvolge su se stessa e si aggroviglia in temporalità di varia intensità e misura e tipologia, ma soprattutto essa viene segmentata in blocchi a loro modo autonomi e compiuti (microracconti, pseudoaneddoti, riflessioni, aforismi), e in blocchi di blocchi, composti da differenti combinazioni di citazioni seguite da riflessioni e speculazioni e aneddoti ecc., con eventuali specificazioni dei contesti o dei rapporti con la situazione o il personaggio focalizzati al momento, o aperture di nuovi percorsi narrativi o riflessivi, o sguardi veloci su altri luoghi e altre stanze...
Di questi elementi di varia misura e natura è composto l’edificio narrativo, disposti in modo che nessi e le giunture, invece di essere evidenti o di facile perspicuità per analogia o contiguità spazio-temporale o per logica narrativa o argomentativa, siano del tutto elisi, e siano semmai ricostituiti o vagamente ricuciti – a volte tramite ipotesi o differenti interpretazioni – solo a posteriori, a distanza, in via probabilistica, quasi mai causale, o al massimo secondo una causalità aperta, plurima e sempre soggetta a revisioni. Le cose accadono, magari hanno pure dei motivi o una qualche ragione, ma non sono mai (o quasi) esplicite o definitive, e soprattutto mai riconducibili a un senso che chiarifichi, o addirittura spieghi. C’è come una continua sospensione non degli eventi, ma del senso, un rimando e un rilancio, una suspense delle figure e delle funzioni più che dell’intreccio. Come se il senso (i sensi) fossero sempre lì lì per sprofondare nell’oceano dell’insensato. Non dell’insignificante però.



Questo fa sì che in molti libri, come in questo Kassel, la presenza di queste sospensioni e interruzioni, e la proliferazione delle digressioni siano tali che si potrebbe parlare, con una specie di ossimoro, di struttura digressiva. Se infatti la digressione si definisce in relazione allo scarto rispetto a un tema principale o a una linea che assicura, a vario titolo, la continuità di una trama o di una logica, Vila-Matas spesso disossa talmente l'uno e l'altra fino a dissolverli, tanto che restano quasi solo le digressioni.
Ciò che conta non è l’intrigo, ma lo stile: “lo stile avanza facendo marce trionfali, l’intrigo segue strascicando i piedi”, come avrebbe affermato John Banville secondo Rodrigo Fresán che l’avrebbe poi riportato a Vila-Matas (Perder teorías, 2010). Lo stile non solo nella scrittura ma anche nella costruzione e nelle forme.
Ciò non impedisce però che poi, pian piano, tutte queste deviazioni da un tronco principale gracilissimo o inesistente si dispongano come dei pezzi di un puzzle, o come un arcipelago di frammenti, che da una parte fanno emergere le tematiche e la trama da cui si erano dipartiti e allontanati fino quasi a perderle di vista, rafforzate dalla rete a volte impercettibile ma fittissima di richiami, riprese e approfondimenti mediante la differenza stessa delle variazioni (This Variation è il titolo dell’opera con la stanza buia di Tino Sehgal); e dall'altra, contribuiscono a disegnare esse stesse una mappa che, vista a cose fatte, da fuori e come dall'alto, si scopre che restituisce il paesaggio da cui sembravano voler evadere, un paesaggio allo stesso tempo noto, ora, ma rappresentato con una cartografia mai vista prima.
E siccome la digressione in sé non ha identità né essenza, appunto perché è soltanto in relazione a ciò da cui si scarta che può essere definita tale (altrimenti sarebbe un frammento o un aneddoto o un aforisma autonomo), questa struttura risulta fatta di escrescenze, stucchi o decorazioni inconsistenti. Una sostanza, e un tutto, composta di ricami separati, che si regge su rimandi e affinità sottilissime quanto poco dimostrabili, sempre teoriche (o astratte), deducibili da effetti e misurazioni che, per essere corrette, abbisognano di esse come di una incognita indispensabile ma in sé inafferrabile, come la materia oscura nel computo del peso (e della struttura) dell'universo.

Diventa pertanto difficile, se non impossibile, definire, per nessuno dei libri, un’unica struttura, o la forma fondamentale, o solo delinearne un profilo: si istituiscono di volta in volta, a lettura in corso e poi alla sua fine, dei simulacri di unitarietà; strutture fluttuanti, ma non per questo assenti, o del tutto arbitrarie. Tra gli elementi che contribuiscono a pensarle (disegnarle), all’interno dei singoli libri ma anche tra di essi, presi nell’insieme o a gruppi, per vicinanza non solo temporale (possibili trilogie, o anche più a seconda degli elementi prescelti), sono le ricorrenze, i richiami, le riprese e persino le ripetizioni tali quali (ma si sa che poi niente si ripete tale quale) di personaggi, situazioni e temi (la conferenza, per esempio), aneddoti e citazioni.

Sembra allora, questa, una letteratura che non può fare a meno di teorie. Eppure, anche se, come detto in Perder teorías, “rifuggire dalle teorie è il primo tallone d’Achille dei creatori contemporanei” e “avere un fondo di conoscenze teoriche (..) non è affatto pregiudizievole”, questa teoria non è mai esplicita, e tanto meno organizzata, ma se ne trova ovunque, a frammenti, dispersa e sempre relativa alle storie narrate e ai personaggi che se ne fanno parziali portatori. Le teorie, come recita il titolo appena citato, vanno semmai perse; o meglio, secondo una frase di Antonio Machado che Vila-Matas cita o parafrasa a più riprese, la teoria va fatta mentre si è in cammino. “E per me camminare è passare alla redazione diretta di un romanzo, che è una maniera molto diretta di fare della teoria”. Senza contare che “l’arte del viaggio camminato dota, tra le altre cose, della facoltà di dire le cose senza averle pensate prima” (Kassel, p. 49). Il che spiega anche perché “nei [suoi] libri l’asse solitamente è il percorso: uno scrittore che viaggia e scrive del suo spostamento” (p. 189).

Documenta 13 “era il regno trionfale e ormai quasi definitivo del matrimonio tra opera e teoria. Di modo che, se ci si imbatteva in un prodotto artistico piuttosto classico, si finiva per scoprire che altro non era che una teoria camuffata in opera. E viceversa” (p. 85).
E lo stesso vale per il viaggio e soggiorno a Kassel di Vila-Matas; un ulteriore camuffamento attraverso il quale può abbordare il problema indirettamente, perché richiesto dalla manifestazione e non, come al solito, all’interno di un romanzo. Parlare “di una cosa e dell’altra, in realtà speculando filosoficamente o aspirando a farlo”, è di fatto l’attività più essenziale dell’arte contemporanea (p. 71). Pertanto parlare anche di teoria è qui in un certo senso “dovuto”: è un obbligo, se, appunto, è di Kassel che egli deve raccontare. “Ringraziavo Dio e Duchamp per l’esistenza delle teorie nell’arte” (p. 139). Se non che Kassel non invita alla logica. (Semmai “invitava all’illogicità che apriva la strada a una logica non conosciuta” - 213).

Nonostante molti suoi romanzi abbiano come narratori o protagonisti scrittori e critici e la letteratura come luogo e argomento, Vila-Matas rifiuta l'idea di metaletteratura: in un articolo del 2002, riprendendo un'idea sviluppata da Ricardo Piglia, sostiene che la metaletteratura non esiste, che è “un cliché critico che è servito per opporre una tradizione complessa di costruzione di storie con la supposta tradizione di un tipo di narrazione "normale" che "tutti capiscono"” (La metaliteratura no existe). Di fatto però, come scrive Roxana Nadim (“De la quête de soi à la quête du recit”), “i buoni romanzi, secondo Vila-Matas, sono necessariamente metatestuali, poiché interrogano la letteratura”.
Anche i cattivi, direi, che però la interrogano senza domande, accettando le domande e le risposte fornite dal supermarket monomarca del passato istituzionalizzato.

È proprio perché si inserisce in “una tradizione complessa di costruzione di storie” che diventa necessaria quel tipo di innovazione, o di scarto (come si preferisce), che nel XX secolo ha preso il nome di avanguardia, che ha svolto un ruolo decisivo negli anni di formazione dello scrittore (si veda in particolare Parigi non finisce mai), il quale non ha mai rinnegato queste radici pur modificando il modo di concepirla con lo sviluppo della sua opera. L’avanguardia, l’anelito al nuovo, dice il narratore di Kassel, è “l’essenza stessa del mio modo di stare nel mondo... Il mondo? No, solamente l’arte. –Perché? Perché intensifica il sentimento di essere vivi...” (p.145). Al di là di ogni considerazione sull’ideologia del progresso e la funzionalità del nuovo alla produzione capitalistica ecc. (vedi “gli artisti ingenui ... collaboratori del potere” e il “paradosso che le arti visive più furiose e radicali si [siano] trasformate in ornamento dello stato” – p. 39-40) e senza dimenticare che “quanto più d’avanguardia è un autore, meno può permettersi di essere qualificato come tale” (189), l’avanguardia, che a Kassel ogni cinque anni celebra i propri spettacolari riti e trionfi, è dunque per Vila-Matas un riferimento obbligato in ogni fase del suo lavoro, se non altro perché non si può fare nessun discorso critico su qualsiasi cosa se si accettano e ripetono, sia pure ironicamente (che spesso significa però: cinicamente; o sconsolatamente, in modo disincantato: è lo stesso) le sue regole e forme; così come non si può fare esperienza, estenderla, o semplicemente viverla, se non si esce dai confini dell’abitudine (individuale) e della consuetudine (sociale, collettiva), per quanto indispensabili queste siano per la sopravvivenza (“Senza la fascinazione della novità ... non avevo mai potuto vivere”, “il desiderio che ci fosse qualcosa di più” è “l’essenza stessa del mio modo di stare nel mondo”- p. 143-5). E non importa se poi questi modi verranno ripresi, adattati e neutralizzati (o quasi) proprio da ciò (società, economia, arte, costumi ecc.) da cui essi si scostavano e che quindi implicitamente o meno criticavano; questo, al contrario, ne rilancia di continuo l’imprescindibilità e l’urgenza. Diventa funzionale a ciò che combatte? Forse, ma intanto avrà cambiato qualcosa in esso e in coloro che vivono al suo interno. Se così non fosse, l’appiattimento, in primo luogo dell’encefalogramma, sarebbe più veloce e generalizzato. La vita peggiorerebbe per tutti: anche per coloro che da questo appiattimento traggono i maggiori vantaggi, ripetendolo in mille salse. Per questo essi a volte addirittura esaltano l’innovazione, anche se poi si limitano a accaparrarsi i risultati, se e quando possono, mentre il processo lo mancano sempre. Al massimo lo trasformano in procedura. Produttiva e profittevole.
“Nell’arte non si innova, lo si fa in un’industria”, come dice provocatoriamente Chus Martínez. Che poi aggiunge: “L’arte fa, e ora càvatela da solo. Ma l’arte, ovviamente, non innova e non crea” (p. 47). Lasciamo in sospeso il termine “innovazione” allora, così la critica è contenta, e dedichiamoci al fare che Vila-Matas mette in atto nel suo ambito specifico, quello narrativo. Si è già accennato all’attenzione riservata alla costruzione più che all’intreccio, alla ricerca di forme sempre diverse di combinazione e di variazione dei materiali e dei registri, alla strumentazione retorica e citazionale e alla complicazione dei rapporti tra esistenza e finzione e tra vero e falso. Soffermiamoci ora, in Kassel, sulle ripetute visite ad alcune opere e sulle varie riprese delle immagini e della loro traduzione in parole, come metafora filata o loro declinazione in differenti percorsi interpretativi: non si tratta soltanto di apparati formali o stilistici; sono anche un diverso modo di fare esperienza di esse, e insieme il riconoscimento del loro ruolo e il loro uso nel riconoscimento stesso della realtà (di ciò che accade) e dell’esperienza che il protagonista-narratore ne fa. Il soffio impercettibile, le parole che lo definiscono ecc., come i sussurri e gli sfioramenti e i toccamenti nella stanza buia, o la spazio naturale stravolto (Untilled, di Pierre Huyghe) o il frastuono del bombardamento nel bosco (Forest, di Janet Cardiff e George Bures Miller), rivissuti una visita dopo l’altra per ciascuna opera, ma anche per ciascuna visita nella catena e nella contaminazione di tutte le altre, sono ciò che dà forma e rende sperimentabile qualcosa che altrimenti resterebbe appena percepito, o non percepito, subìto come un disturbo, un fastidio al limite esterno dei sensi, e non nominato, senza voce né nome. Effetto che a volte è esattamente quello l’arte d’avanguardia a volte vuole suscitare, riuscendoci spesso peraltro.
Oltre, e forse più che uno strumento formale e strutturale o un ricorso stilistico, esse si configurano quindi come condizione di percezione e esperienza della realtà: leva per estrarre dal continuo e indifferenziato il discreto e significante, come combinazioni variate a seconda delle diverse circostanze, e della loro stessa sequenza, di un insieme omogeneo ma non chiuso di tratti, che difatti mutano per numero, pertinenza e rilevanza di volta in volta.

Ora, ammesso, come è ormai acquisito anche nel discorso comune (cosa che semmai dovrebbe indurre al dubbio), che non si dà esperienza del mondo, e quindi conoscenza, e quindi verità (in qualunque modo la si voglia intendere), senza una organizzazione di segni e percezioni in una sequenza che possiamo definire come narrativa, cioè senza un racconto, per questo diventa determinante, meno del suo “cosa”, che possiamo definire solo a posteriori, il suo “come”, cioè la forma in cui effettivamente la sequenza si organizza e presenta, e in cui, soprattutto, le “cose” (quelle che poi distinguiamo in oggetti, pensieri e eventi...) ricevono il loro statuto e valore (oggetto e/o simbolo, evento e/o riflessione, azione e/o allegoria ecc.). Le distinzioni tra narrazione e riflessione, per esempio, o tra centro e periferia, trama e digressione... sono definite non da categorie e classificazioni esterne, ma dal loro disporsi nella forma di (specifico) oggetto: nell’oggetto che viene formandosi (nella scrittura e lettura) o è, a bocce ferme, formato.




Sono questo oggetti e congegni che i libri di Vila-Matas mettono in opera, strategie che consentono di riconsiderare la posizione e il ruolo del soggetto nel mondo contemporaneo, senza farsi troppe illusioni ma senza cedere al senso di assoluta impotenza che costituisce il tratto distintivo della contemporaneità, in un intreccio questo sì inestricabile di allegria e depressione, Collapse and Recovery, scoperta e apparente impero dell’identico, gioia e attrazione e sgomento. Come quelli che si provano sul bordo di un abisso.

Ed è proprio sull’abisso che vorrei chiudere, quello che ogni opera contiene e su cui ogni opera, e ogni lettore leggendola, si affaccia.
Non solo Vila-Matas all’abisso ha esplicitamente dedicato un volume di racconti, Esploratori dell’abisso, ma cercare di esplorarlo è ciò che fanno anche molti dei protagonisti dei suoi romanzi. Anche dentro il vero o presunto abisso di se stessi. Lasciamo perdere la fin troppo citata frase nicciana: “E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te”. Non è detto che se guardi nell'abisso, anche l'abisso guardi te: spesso sei così banale e noioso che l'abisso preferisce guardare altrove; e se anche ti rimandasse la tua banale e noiosa immagine, tu, poiché banale davvero lo sei, non saresti in grado di vederla.
(E allora a che pro sprecare la fatica? Meglio guardare altrove, nel buio brulicante, orrifico, delle profondità... e anche lì è già tanto se si arriva appena sotto la superficie... specchiarsi in se stessi e spaventarsi.)
L’abisso non può essere esplorato. Sull’abisso ci si può solo sporgere. C’è chi lo sorvola, o lo scruta dall’alto, come l’equilibrista (Kafka, per es., ma anche Philippe Petit), ma non lo esplora. Stare così lontano, sopra l’abisso, è in qualche modo anche esserne dentro: si crede di scrutare l’abisso, e si è in un altro. Se qualcuno scende, dopo averlo perlustrato, si accorge che non è un vero abisso: che ha un fondo, come Il nono cerchio di Ignacio Padilla, o che al fondo ce n’è un altro, e poi un altro ancora, sempre più difficili da raggiungere e esplorare. L'abisso è solo in quanto se ne può dire. È solo ciò che se ne può dire facendo segno verso l'indicibile. Il suo indicibile nasce con la sua stessa nominazione. Parlare degli stati oltre limite è impossibile, non ci sono parole. La parola che pretende di dirli è patetica. O, peggio, ridicola. Meglio l’ironia, la deviazione, l’allusione, la citazione: la circumnavigazione.
La parola normalizza il limite in quanto è essa che lo pone. Può indicare un oltre, certo, avvicinarsi asintoticamente ad esso, ma intanto lo sposta. L’oltre che indica è sempre il suo oltre, quello verso il quale essa ci ha condotti.
Nondimeno alcuni cambiano le parole, spostano limiti, indicano degli altri oltre, ne tracciano i contorni, li disegnano, abbozzano mappe dei territori finitimi. Sono queste le poche cose di cui, secondo Vila-Matas, mette conto di scrivere; o meglio, di cui metterebbe conto se si potesse. Disperazione, suicidio, sottrazione, fuga, scomparsa, depressione, negazione, menzogna, perdita, fallimento: il resto è merce, offuscamento, palliativo. Ma per scriverne occorre inventarne ogni volta la forma: trovare nuove forme di esplorazione, disegnarne una nuova mappa. Per questo Vila-Matas, a mio parere giustamente, disprezza il romanzo tradizionale, anche se io personalmente non ho niente contro i palliativi e so quanto sia gradevole, ogni tanto, indulgervi, sentirsi abbastanza forti da poter essere deboli.
Di nient’altro infatti narrano i suoi libri, senza parlarne se non in modo indiretto. Coloro che hanno provato comunque a sperimentarli e a parlarne, che ne sono stati attori e vittime, non finiscono di attrarlo, gli suscitano ammirazione e tenerezza (non compassione). Ma lui (noi) non è capace. Ovvero ha tentato, ma visto che era impossibile, parla di quegli altri e le loro parole utilizza: le rende sue, vi mischia le sue e le porta sull’orlo di un altro abisso. Il nostro, che allora intuiamo.

Detto in altro modo: l’abisso non si esplora perché per esplorarlo devi esserci dentro, ma se sei dentro è già finita. O quello dove sei non è un vero abisso, il vero abisso. Se puoi parlarne ne sei fuori; ne sei già uscito o ne esci nel momento e per il fatto stesso che prendi a parlarne. Ma non è di esso che parli: parli della tua caduta e della tua uscita, racconti il prima e il dopo, e i ricordi, che sono sempre, comunque, ricordi modellati dalla forma e dal modo che il dopo ha preso: creati dal dopo. Li descrivi, incidi i margini, li ricalchi e ricami, abbozzi un modello, la cartografia dei loro paraggi, appunto.
Su cosa ci sia dentro, non si può dire niente. Nemmeno la festa di cui è certo Roberto Juarroz, in un verso peraltro bellissimo che Vila-Matas non si stanca di ribadire da un libro all’altro: “Nel centro del vuoto che c’è un’altra festa”. Forse c’è, ma non si sa. È sempre fuori. Dopo. Nel momento in cui, almeno, si sporge la testa, ci si aggrappa, come nella storiella zen, al cespuglio che sporge sull’abisso, sopra la tigre e accanto la fragola, buonissima. La festa in cui potrai trovarti non sarà mai quella al centro del vuoto. Quando sei a una festa, sei già altrove. Ma questo non significa che il vuoto l’hai schivato.



18/05/19

Marcel Beyer, Forme originarie della paura, Einaudi, 2011


Marcel Beyer (1965) è uno scrittore tedesco di grande spessore molto apprezzato in patria e all’estero e che merita attenzione anche da noi, nonostante la prodigiosa fioritura di talenti nostrani degli ultimi tempi. Un primo romanzo di grande livello, Pipistrelli (ed or. Flughunde, 1995), tradotto per Einaudi nel 1997, è passato quasi inosservato. E' facile prevedere che saranno in molti ad andarlo a recuperare dopo aver letto lo splendido Forme originarie della paura (ed. or. Kaltenburg, 2008) proposto di recente ancora da Einaudi.
Il titolo italiano è quello dell'opera più nota del controverso zoologo Ludwig Kaltenburg, la cui vita viene ripercorsa da Hermann Funk, ornitologo in pensione, che la intreccia alla ricostruzione della propria in seguito alle domande di una giovane interprete che desidera apprendere i nomi degli uccelli in vista di un convegno.
Funk incontra Kaltenburg (ricalcato sulla figura di Konrad Lorenz, come suggerito anche dal rovesciamento delle iniziali) ancora bambino e la sua vita ne resta subito segnata: nonostante la presenza amorevole del padre, professore di botanica, che con la madre morirà durante il bombardamento di Dresda, “da quel pomeriggio in poi il ricordo di mio padre comincia a impallidire”. Dopo la guerra sarà Kaltenburg a indirizzare la vita dell'orfano indeciso prendendolo sotto le proprie ali, è il caso di dire, e facendone il proprio discepolo, che come tale lo amerà, fino a quando la scoperta dell’adesione al nazismo dall’eminente studioso sempre negata non lo trasformerà nella più cocente delusione della sua vita.
La narrazione si impernia sui ricordi che la sollecitazione dell’interprete fa scattare e consente di approfondire e precisare, nonché sulla discussione della figura e delle opere di Kaltenburg, in particolare quella del titolo (che ricorda L’aggressività di Lorenz), anche alla luce che vi proiettano quelle di altri amici, talvolta da Kaltenburg sottovalutati o ripudiati (come Martin Spengler, basato sulla figura di Joseph Beuys).
Non si tratta quindi di una ricostruzione lineare e volontaria, quanto di una navigazione per blocchi e associazioni indotte dalle circostanze e dalle domande dell’interlocutrice. Questo caratterizza anche il tono del romanzo, che non è nostalgico ma nemmeno subordinato alla volontà di chiarire per fare i conti ad ogni costo, e ne detta il ritmo, che è quello di un flusso discontinuo, scandito mediante strategie molto varie e abili quanto sottili: dilazioni, reticenze, manovre di accostamento, tentativi di comprensione e di nominazione e classificazione, focalizzazioni progressive ma spesso per vie indirette o laterali che conducono a ridefinizioni a posteriori, a illuminazioni postume, improvvise e impreviste, di episodi avvenuti magari decenni prima.
Un flusso che parte da e si sofferma su episodi all’apparenza marginali, persino fantasmatici a volte, che però imprimono la loro tonalità affettiva al ricordo e agli eventi personali e storici evocati, con abbozzi, schizzi, disegni e successivi riaggiustamenti onde accordare la memoria recente a quella profonda, come fa la traduttrice per memorizzare i nomi degli uccelli.
Il periodo storico (che va dalla Guerra alla riunificazione della Germania, passando per la guerra, la deportazione e lo sterminio degli ebrei, la vita nella RDT, la Stasi, le delazioni, gli arresti notturni, e lo stalinismo...) è tra i più ardui da affrontare in narrazione che voglia evitare sintesi azzardate e eccessi di coincidenze, ma anche qui Beyer (come aveva già fatto con il nazismo in Pipistrelli) ne viene a capo con soluzioni estremamente originali e rigorose, ciò che costituisce una delle principali qualità del libro.

Se anche l’evento storico determina lo svolgimento della trama (ad es. la “gita” a Dresda in rapporto all’avanzata dei russi nel febbraio del 45; il bombardamento di Dresda attraverso la morte degli uccelli nel Grosser Garten; l’episodio fondatore del rondone, Jerzy in polacco, e la bambinaia; il passaggio dei vagoni merci stipati durante una ricognizione botanica sugli argini della ferrovia...), esso viene suggerito al lettore, spesso di sfuggita quando non sottaciuto, solo dalle azioni dei personaggi, o da osservazioni marginali o discorsi che si riferiscono ad altro.

Ed è proprio questa peculiare angolazione che procede in via indiretta, dando spesso per scontata la conoscenza dell’argomento (nel caso dei libri di Kaltenburg o delle opere di Spengler) o dei fatti storici, ma sempre incarnata in episodi fortemente individuati e attraverso descrizioni che solo in seconda istanza rivelano una possibile lettura figurata (in particolare quelle splendide degli uccelli e del loro comportamento), a conferire originalità e profondità alla posizione dei problemi e a offrire strumenti per la loro comprensione, senza cadere mai in generalizzazioni, e anzi giungendovi solo a posteriori, a tratti e con grande fatica, o come dono della rimemorazione e della ricostruzione, vale a dire della narrazione, della sua forma e della sua sintassi, linguistica e diegetica, che non prescinde mai dalla presenza, esplicita o meno, di un interlocutore: qui non a caso di una giovane interprete (come potrebbe esserlo uno psicanalista e come lo è ogni lettore).
Per quanto il tono resti sempre estremamente sobrio e misurato, i momenti di grande intensità, anche visionaria, sono numerosi e memorabili, e anche i passaggi che a prima vista appaiono funzionali alla caratterizzazione o in qualità di connessioni strutturali, a volte belli, altre meno, spesso poi terminano con un tuffo al cuore, o con un lampo che si riverbera a ritroso sull’evento narrato con nuove insospettabili sfumature emotive o di significato.
Come la lettura di tutto il romanzo, che appaga di per sé e insieme rilancia verso nuove, forse non indispensabili ma che si impongono con forza, se si incrociano fatti e personaggi e riferimenti in altri modi. Per esempio la figura di Klara, che poi diventerà moglie del narratore, con la sua passione di Proust, e la lettura della memoria e del romanzo che questo comporta. Proust: Marcel, come Beyer.

Questo articolo è uscito su doppiozero.com il 4 ottobre 2011