30/01/17

Soldati morti quarant'anni fa (Inizio)




A mezzogiorno il tempo aveva girato al brutto. La valle, da bianchissima, era passata al grigio, sempre più scuro nel precoce declino della luce. Poi ci sarebbe stato il buio più totale. Nero il cielo, nero l’orizzonte, nera la neve per terra, nera la neve che sarebbe caduta sulla terra nera di neve dal cielo nero. I lavori erano terminati verso mezzogiorno, così, dopo un veloce rancio sul posto con i viveri K, seduti sullo zaino protetti dalle pareti della pista che avevamo scavato per 5 giorni, potemmo tornare un po’ prima del previsto al mucchietto di malghe diroccate che costituivano il nostro accampamento. I più fortunati, tra i quali io, ci avrebbero messo un’ora, quelli all’altro capo dello scavo, almeno due: gente scelta apposta tra i più carogna e resistenti, contrabbandieri, papponi, artisti del coltello, picchiatori non fascisti, anarchici, contestatori e dissidenti generici e assoluti, ladruncoli, borseggiatori e via a scalare fino ai mansueti, o presunti tali, come il sottoscritto (presunti da loro stessi, s’intende). Alle mezzeseghe, o ai mezzo imboscati. I veri imboscati erano appunto imboscati: non lì e nemmeno nei paraggi.
L’atmosfera era allegra, perché avremmo potuto riposare e poi dormire un po’ di più. E ne avevamo tutti bisogno. La partenza era prevista per le 6, ma la sveglia era programmata per le 4 perché prima c’era la colazione da fare calda e abbondante, i bisogni da sbrigare, se possibile, intanto che non si era ancora infagottati e sigillati, l’accampamento da smontare, i muli da accudire e caricare (e da convincere a ubbidire) e tutta la carovana da organizzare. Infine si sarebbero avviati ufficiali, sottufficiali, soldati e animali in sequenze rigidamente prestabilite e da incanalare con i giusti intervalli nella pista, in fila indiana: tutte cose che richiedevano tempo. Lavarsi non era contemplato, per quei giorni; inscenarne la pantomima nella neve, in assenza di acqua corrente perché l’abbeveratoio era ghiacciato, era l’atto eroico dei più intransigenti, o fanatici, gente che ci teneva a sbandierare la propria virilità anche in quel frangente dove da sbandierare non c’era nient’altro, o un gesto aperto di sfida dei più ribelli o dei più cialtroni, a scelta. Io mi lavavo.
Di farsi la barba però non se ne parlava proprio: ci sarebbe stata l’opportunità la sera, ma eravamo sempre troppo stanchi, nessuno si azzardava a mettersi a torso nudo nemmeno al coperto e non c’era né acqua calda per insaponarsi né corrente elettrica per i rasoi. Le pile o erano consumate o erano riservate a cose più importanti: e poi chi aveva rasoi elettrici? Chi era così idiota da appesantire uno zaino con un rasoio o altra roba inutile? Io avevo tre libri, tra cui il Fedone, in vista di un esame.
Poi, con una marcia che, a seconda delle condizioni meteorologiche e di altre trascurabili varianti, sarebbe durata tra le 6 e le 9 ore, ci saremmo lasciati finalmente alle spalle quella prima durissima parte di campo invernale. Saremmo arrivati in una caserma, ci saremmo scartavetrati unto e fango sotto una lunghissima doccia bollente; avremmo riparato gli abiti strappati o scuciti, e io mi sarei rasato pelo e contropelo, fino alle radici, asportando anche l’ultimo invisibile strato di pelle morta, bruciata dal gelo e dal sole, tanto da non lasciare la minima asperità sulle guance, non rilevabile nemmeno dalla pressione della carezza più appassionata, benedizione che peraltro non riuscivo, allora, nemmeno a immaginare.
Prima della ritirata il maggiore (o capitano o tenente colonnello, o quel che era), ci illustrò a grandi linee quello che ci aspettava il giorno successivo senza entrare nei dettagli per non guastarci la sorpresa. Ricordo solo che disse: “domani sarà una giornata storica”, frase che allora attribuii certamente alla retorica militare, e che avrei subito dimenticato, come tutto il resto. Come si dimenticano i dettagli del nulla. Ammesso che ne abbia.
Si riferiva, l’oratore, se la memoria non mi inganna come fa a volte quando si accosta a punti dolenti, alla circostanza a suo dire epocale che quello “scavalcamento” non l’aveva mai tentato nessuno, da anni e anni almeno. Durante la guerra qualcuno probabilmente l’aveva effettuato, spinto dalla disperazione, braccato dal nemico, per raggiungere compagni lontani o salvare la pelle (o disertare), ma non ne erano rimaste testimonianze, e quindi...! L’idea era tutta sua! Aveva faticato a demolire la resistenza dei generali in capo e dei coordinatori delle diverse esercitazioni previste per quel periodo; alcuni all’inizio si erano opposti, altri avevano ironizzato, ma alla fine ce l’aveva fatta. Se i tempi ci imbandiscono una gioventù di femminucce, invertiti, drogati, lazzaroni e sedicenti rivoluzionari, noi mostreremo al resto dell’esercito, e al paese tutto, come raddrizzarli! Come farne dei veri uomini! Dei soldati!, per dirla con una sola parola. Con la parola definitiva! Così lo aveva sentito vantarsi in mensa ufficiali il dottore, non appena giunto il dispaccio del comando con l’approvazione del campo invernale. Aveva ideato lui il tragitto; lui aveva organizzato le tappe e tracciato sulle carte il percorso, che poi avrebbe conservato per sempre il suo nome, con il solo aggiornamento periodico del grado in seguito all’avanzata ineluttabile della sua carriera. Il suo personalissimo cursus honorum. Il suo gradus ad Parnassum, pace o non pace di questi tempi infami! Un classico sarebbe diventato! Un passaggio obbligato per ogni esercitazione dei secoli a venire! Se l’era studiato ben bene, lo scavalcamento. Non c’è spazio per l’improvvisazione in queste cose. Ci vuole gente seria e preparata. Gente coraggiosa!
I valligiani e gli spalloni che stavano servendo la patria nella nostra caserma (che, con mortificante sorpresa, ho scoperto essere qualificata come punitiva non appena mi ci sono trovato assegnato, senza avere nessuna colpa da espiare se non quelle strettamente ontologiche) gli avevano detto che, mentre la prima parte del tragitto era stata scavata sul versante protetto della valle, la seconda, passati dietro la malga grande, era tutta sul lato sbagliato della montagna, quello più esposto, che scendeva a strapiombo senza un’ombra di vegetazione, e quindi più pericoloso, ma lui non gli aveva dato ascolto. Che ne sanno di sicurezza quegli analfabeti! Non saprebbero leggere una mappa nemmeno in scala 1:1! E tutto era filato liscio, che meglio non si poteva. Fino a oggi anche il tempo ci aveva assistito e avevamo sì lavorato al gelo, ma almeno all’asciutto. All’asciutto nella neve. Confortati dal tepore dell’astro luminoso!, disse a sigillo conclusivo. Per saldare la bara dell’orazione. Scemenze così... insulsaggini professionali.


Il tempo infatti ci era stato propizio per tutta la settimana, dopo la nevicata della marcia notturna di 26 km che aveva gloriosamente inaugurato le tre settimane di campo invernale, e l’altra di qualche giorno dopo quando avevamo raggiunto le malghe salendo per non so più quante ore fino a quasi 2000 metri, dai 600 della base, e con i muli da convincere a passare per strettoie che non erano più nemmeno mulattiere, ma tratturi da capre, tracciati fantasma col terreno scivoloso, radici nascoste nella neve o appena affioranti a sgambettare gli affaticati e i distratti, alberi cresciuti di traverso, o piegati o spezzati dal vento o dal tempo, tratti di strada ai margini di scarpate perpendicolari (“precipizi” suonerebbe una vanteria), pezzi di obice mal legati che cadevano dai basti, muli che si ingegnavano a dire la loro, sempre più forte,  inascoltati, e anzi bastonati, come i cocchi di mamma che si lasciavano cadere tra la neve, magari scegliendo accuratamente dove era più alta e soffice, giurando che da lì non si sarebbero mossi, sollevati per le ascelle e spinti avanti a calci in culo; mentre io salivo in tutta scioltezza, il passo elastico e dinoccolato, esibendo un’oltraggiosa nonchalance. La prospettiva di un riposo più lungo era poi cresciuta di almeno un’ora in seguito all’arrivo imprevisto alla grande malga superiore, mentre ancora stavamo ultimando i lavori, di alpini di un’altra caserma, che ci avevano chiesto di lasciarli passare approfittando dei nostri scavi perché avevano dovuto modificare all’ultimo momento il loro percorso, pare a causa di uno smottamento o di una slavina in una valle vicina. Erano più leggeri, senza muli o pezzi d’obice da trasportare, senza altro ingombro che gli zaini. Alpini semplici, mica artiglieri di montagna come noi! Se anche fosse nevicato, avrebbero liberato il passaggio ben prima del nostro arrivo e in più ci avrebbero pressato con i loro passi la neve fresca che minacciava di cadere già dal pomeriggio, come effettivamente successe.
Il capitano (o il maggiore o il tenente colonnello o quell’ecc. che era) aveva fatto buon viso a cattivo gioco, perché anche lui era stato avvisato all’ultimo momento, con ordine tassativo di obbedire, e ce lo aveva comunicato senza risparmiare complimenti sferzanti sul corpo, di cui peraltro facevamo parte anche noi artiglieri, sia pure in qualità di figli minori (trascurati, reietti!), sulla compagnia, gli ufficiali e i soldati, che sarebbero poi i meno colpevoli, che ci erano passati davanti. Non si può organizzare un campo in questo modo! Arrivare a uno scavalcamento, non si dice senza dottore e infermiere che quelli va be’, ma anche senza pale e picconi, con l’attrezzatura ridotta ai minimi termini. Il cervello l’avranno portato o pesava troppo anche quello? Ammesso che non sia una camera d’aria e basta. Rideva da solo delle sue battute esilaranti. Con qualche flebile eco dovuta a un paio di ufficiali di complemento. A crepapelle, rideva. Non ce la faceva a trattenersi. Un peccato mortale, per un oratore. Va capito: troppa adrenalina. Non avrebbe dormito, sicuro come l’oro. Ne aveva meno bisogno di tutti, del resto, essendo rimasto nel suo alloggio in caserma fino al giorno prima e avendo percorso a piedi solo l’ultimo sentiero.
Speriamo che la pista non venga rovinata, concluse, dopo aver ritrovato, per un attimo, un po’ di fiato. Alcuni soldati risero. (Lui li guardò stranito.)

Durante la notte la nevicata si era trasformata in bufera. O così sembrava dai sibili del vento attraverso le fessure dei muri diroccati e gli squarci del tetto, con folate che crescevano di intensità e rumore passando dalle finestre vuote e rimbalzando contro le pareti sconnesse e portavano fino ai nostri nasi e ai capelli che sbucavano dai sacchi a pelo dei fiocchi la cui origine e entità nessuno osava verificare, e che si poteva solo immaginare alla debole luce di qualche pila proiettata contro il soffitto e le feritoie delle finestre tra un sonno e l’altro, sonni corti, leggeri, subito interrotti dal freddo e dall’ansia, dal mormorio dei compagni, dai sospiri e da un grido strozzato che qualcuno non era riuscito a reprimere del tutto o da quelli volontari emessi ogni tanto dai più furiosi, o dal rivoltolarsi di quelli troppo stanchi anche solo per assopirsi. Nessuno riusciva a dormire davvero. Ci saremmo alzati tutti con le ossa rotte, la testa pesante, i muscoli indolenziti, ancora gonfi di acido lattico non smaltito, imbastiti e legnosi, senza sapere con quali risorse avremmo potuto affrontare la fatica e lo stress che di sicuro ci attendevano l’indomani. Avremmo sistemato lo zaino alla benemeglio, strofinato le stringhe gelate durante la notte per poterle allacciare, e poi ci saremmo infilati gli scarponi, avremmo indossato il pastrano, bevuto qualcosa di caldo che nel frattempo qualche santo ci aveva preparato, con i guanti, il passamontagna e il cappello già addosso, e infine svolto a memoria le nostre rispettive mansioni, con sicurezza, ginnici!, e ci saremmo disposti in ordine, per essere pronti senza esitazioni al comando di partenza che sarebbe arrivato ad ora incerta, ma sempre troppo presto, quando in molti per questo o quel contrattempo non avrebbero ancora finito di sbrigare i loro doveri e bisogni. Come detto io ero fortunato perché sarei partito in coda, e quindi avrei avuto una mezz’ora in più a mia disposizione, ma c’era sempre qualche graduato a farmi fretta, a ricordarmi che ero come gli altri, come tutti, e anzi peggio di tutti, a inventarmi lì per lì qualche compito che mi facesse scontare il delitto di essere come ero: di essere chi ero. 





15/01/17

Diverse ondate



Le trasmissioni sono terminate, è molto tardi e la stanza è soffocata dal fumo. Intorpidito dalla sghemba immobilità a cui, fino alla saturazione, si era abbandonato, non ha però sonno. A fatica si alza, sostenendosi allo schienale basso della poltrona per stabilizzarsi nell’equilibrio: macchie nere, a brevi ondate, gli transitano dagli occhi alla testa, finché non si abitua al buio eretto e non inquadra, dai discontinui interstizi della persiana, la finestra. Senza vacillare la raggiunge e la spalanca, dopo aver alzato la persiana con cautela, silenziosa. I palmi compressi, e quasi appiccicati all’umidità del davanzale, si sporge in avanti verso il giardino e sente l'aria gelida colpirlo prima di invadere la stanza rovesciandovi una diversa, luccicante foschia. Davanti a lui, a tre metri, un'altra macchia, quella sfrangiata dell'abete, confusamente delineata nei suoi contorni dal lampione della strada distante; accanto all'abete, all'identica altezza dei suoi, due occhi che guardano fissi verso di lui, privi di intenzione. Altro non vede, un corpo a cui apparterrebbero, che del resto nemmeno cerca o immagina, il loro colore o la forma: un puro sguardo che rimbalza nella concavità del suo e poi gradualmente lo colma come di una tensione trasparente, anteriore a qualsiasi oggetto o immagine, a stabilire non un contatto, ma una pura direzione, univoca, non speculare, intransitabile da pensieri o emozioni, senza meta. L'opacità del suo corpo ne ha solo incrociato la traiettoria ed egli, non che distogliersene o sostenerlo, si limita ad assecondarlo, ricevendolo come qualcosa che non lo concerne. Le palpebre, pur restando aperte, si rilassano, le mani aderiscono al marmo fino a non più sentirlo, l'umidità gli avvolge la faccia, penetra nei capelli e nelle narici, una ventata di nebbia gli attraversa i vestiti e dilaga nella stanza senza incontrare altra resistenza.

10/01/17

Rispetto!




Se ne fregano di tutto, sparano cazzate a raffica, non mostrano di prendere in considerazione niente (idea, comportamento, persona) che diverga anche solo di una virgola da loro, usano toni di un’aggressività e di un’arroganza mai sentiti sinora e che anzi vanno crescendo di giorno in giorno, e poi terminano le loro espettorazioni, dopo una pausa, come se gli venisse in mente solo allora qualcosa che accidenti, stavano per dimenticare, e non sta bene, non sta bene no: “Ma rispetto!”. Alcuni, educati dai gesuiti o in scuole steineriane, aggiungono: “Grande stima!”.
Dicono il contrario di quello che credono di dire, senza saperlo. Significare il contrario di ciò che si dice è la definizione di ironia. L’uso dell’ironia presuppone intelligenza, o quantomeno consapevolezza. Non è il nostro caso.
Lasciando perdere la stima, che presuppone il riconoscimento di un valore, se non di una vera e propria superiorità (e chi mai lo è oggi, quando nessuno ha più nemmeno il sentore dell’autorevolezza e del valore altrui?), il rispetto esige per lo meno attenzione, prendere sul serio, stare in ascolto e eventualmente controbattere argomentando. Ma no, non c’è tempo. E poi bisogna esserne capaci. Cosa che sarebbe troppo pretendere da tutti quegli stronzi.
Rispetto?
Fanculo!

09/01/17

Le banche del centro



Nelle banche del centro, di sera, ben oltre la chiusura, le luci dell’ingresso centrale restano sempre accese a mostrare, soffuse, l’imponenza e la solidità dei locali, e del patrimonio, attraverso le grandi sbarre che li difendono. Sono sbarre lisce e rese così lustre dalla sistematica pulitura, che non di rado il passante è tentato di sfiorarle coi polpastrelli, per puro piacere, per sentirne la fresca levigatezza e saggiare le minime deformazioni che l’aria, negli anni, non manca mai di provocare. Tutte le finestre che danno sul marciapiede hanno invece le luci spente e i tendaggi tirati. I tendaggi di solito sono a pannelli, di larghezza variabile, che anche quando sono accostati in tutta la loro estensione lasciano sempre piccoli spiragli dai quali un curioso potrebbe sbirciare, magari per sorprendere, di giorno, il brillare di un anello o di un orologio che suggerisce il movimento improvviso di una mano o una ciocca di capelli di qualcuno che assente o sbuffa al telefono, e, di sera, nell’ombra proiettata dalle luci della strada e dai fari delle auto e dei tram, lo spigolo di una scrivania, qualche lettera a zig zag di una tastiera o il margine dei documenti non ancora evasi. Ma di sera chi passa ha poca voglia di indugiare e in genere cammina frettoloso facendo solo scivolare uno sguardo distratto, eppure vagamente deluso, di una delusione che non deriva da nessuna specifica attesa, sullo schermo opaco che difende un mistero del quale pure indica la prevedibilità, ma che non per questo mistero cessa di essere, e non importa se vacuo. Più importante è la banca, più lunga è la trafila dei finestroni schermati, e di conseguenza più forte la delusione, nonostante raramente oltrepassi la soglia della coscienza. E comunque è con sollievo che infine si incontra, sempre, una stanza con accesa una lampada da scrivania, che le tende appena accostate lasciano vedere nella sua quasi interezza. Dietro di essa, su una poltrona non troppo lussuosa ma comoda, e davanti a un paio di monitor accesi, c’è un impiegato che lavora. Anche se nemmemo allora il tuo sguardo si è soffermato e il passo ha proceduto spedito verso casa o all’appuntamento che ti aspetta, capita a volte che, senza un motivo, i movimenti si fanno più sciolti e in certi casi, addirittura, ti metti a fischiettare. Stasera hai proprio appetito e qualcosa ti dice che la cena sarà davvero gustosa.