15/03/19

Parlare con i cani




La meravigliosa essenzialità della lingua di coloro che vivono con i cani, e gli animali in genere! Non dico ‘padroni’ perché chiunque può accorgersi che in poco tempo si sviluppa una felice dipendenza che capovolge i ruoli, o li pone su un piano di tale adeguamento reciproco da rappresentare una delle manifestazioni più auspicabili della parità nella più radicale differenza. O presunta tale.
Tutti i discorsi superflui vengono meno, il vocabolario si riduce, torna alle origini, a dire la vita nei suoi fondamenti, pochissime parole, qualche sostantivo e aggettivo elementare e alcuni verbi perlopiù all’imperativo (o all’ottativo, se ci fosse in italiano: ma nel canino c’è), solo per esprimere le relazioni essenziali: invito, ordine, saluto, affetto, rimprovero, richiamo… più un’altra decina per gli esemplari più evoluti, o presunti tali, per i più raffinati, che magari hanno passato le forche caudine della scolarizzazione, per esprimere sfumature, azioni non del tutto naturali (Salta! Porgi la zampa!, fino al tristissimo Balla!), e un’altra dozzina quando, rivolgendosi all’animale, in realtà gli esemplari umani parlano a se stessi, abbozzano per il loro tramite l’unico discorso che sono in grado di fare a se stessi, la riflessione interiore che per il resto ignorano, che solo l’animale favorisce e innesca. Allora riescono a esprimersi, a confessare, a dire il mondo, sicuri di essere capiti, perdonati al di là del perdono. Cioè amati. Poche parole per riuscire talvolta ad amarsi attraverso il loro amore.
Loro, i cani, fingono di capire (o viceversa fingono di ignorare); ogni tanto danno il contentino, ma perlopiù guardano con affetto e indulgenza quegli esseri che solo con loro stanno davvero bene, e si limitano pertanto a essere se stessi, esattamente quello che sono e niente più, e a farsi fin dove è possibile i loro comodi. Dei quali fa parte anche per l’affetto. Sembra che anche loro ne siano appagati.
È l’incontro, come dicono i cinici dell’amore, di due solipsismi. Perfetto, rarissimo. E quindi davvero amore, perché qualunque cosa sia perfetta, dell’amore è una forma.




12/03/19

Nostalgia di tipo B



Io, dice (pensa), non ho nostalgia del lontano o del passato, ho nostalgia dell’ora e del qui. Li guardo, li sento, già mentre sono qui e li vivo, al di là di uno schermo trasparente, di una faglia sottilissima, invisibile, ma che si avverte subito se sfiorata con un polpastrello o, non cercata, ai margini della visione, insormontabile; o come separata da un fiume o solo da una parete d’aria un po’ più fredda, non come una lama, piuttosto come un intervallo fulmineo… Sì, aggiunge dopo una pausa (un intervallo), già mentre li vivo, o mi sembra di viverli… e quindi mentre non li vivo già nel viverli, perché non ci sono mai dentro, non mi prendono e avvolgono… e sempre, quindi, sono separato da loro: separato dal me (che osservo, e mi cruccio ecc.) che li vive senza viverli.
Ogni momento la distanza della nostalgia è già lì, ribadisce (annuisco, credo di sapere già dove andrà a parare, salvo poi essere, talvolta, sorpreso: disorientato, fuori di me).
L’intimità della distanza. L’impossibilità di separarsi, di distanziarsi, dalla distanza.

A ripensarci, aggiunge come se solo ora se ne rendesse conto (ma mente, è chiaro: si imbelletta), c’era già tutto nel suo primo giovanile romanzo, e nei farfugliamenti che aveva scritto prima e ha gettato via tempo fa, frammentati e incomprensibili, tritumi di frasi, verbi all’infinito, parole senza nessi: nel romanzo che aveva scritto dalla distanza che lo ha attraversato dal primo momento in cui ha cominciato a scrivere. E probabilmente da prima ancora: dal primo momento in cui ha avvertito il suo dire e il suo pensare. E prima ancora, anzi, se possibile, quando, iniziando a leggere non riusciva a unire le lettere e poi le sillabe tra di loro. C-A, CA!, diceva sua mamma (sua mamma gli raccontava che gli diceva). CA-SA, CASA!
No, C restava C, A restava A, e poi CA restava CA e SA restava SA. 

No, casa no. Casa cosa? Casa dove?