31/12/13

Alcune cose che dei quadri di Francesco Lauretta hanno suggerito a Angelo Rendo e al sottoscritto

 1 -Passo lungo
di Angelo Rendo
Io qui mi fermo, in questa stanza, qui la vita, il dovere. Non sono ancora entrato che un chierico mi avanza un paramento viola; lo restituisco. Sarei quasi tentato di non parlare con nessuno, e nulla scrivere, quel che è avanzato ritornerebbe a fare il suo dovere.
Faccia e spalle occhiute non possono mirare se non il cuore muto della fine che ogni inizio si porta chiuso nella teca: la reliquia esplosa come un rosario di miccette.
Allora, più sputi di seme e lame di madre dolorosa e gialla arsura, maestro, vossignoria! E luce rossa carica o filamentosa al punto da scordarsi, e scordarsi del luogo nel quale si procede, del motivo della venuta, della ricerca di sostanza.
La testa gira più per le mute esplosioni, le nebbie che per la pittura. La pittura sta sparendo, è simile a un pannuzzo graveolente marrò con chiazze minime di luce bianca lì per destino d’evoluzione. Oppure è lì lì per essere risucchiata dallo scarico celeste. Naturalmente il Paradiso c’è. Chiamiamolo giungla.


2 - e questa è la mia paginetta

È come se tutti gli strati di colore che Frenhofer aveva sovrapposto sulla tela lasciando affiorare in un angolo solo un piccolo piede, sia pure di bellezza folgorante, fossero pian piano evaporati lasciando serie successive di stesure monocrome, rosse e azzurre soprattutto, all’interno delle quali, a seconda delle angolazioni e delle distanze, emergono forme, figure, abbozzi, tracce di altre tracce cancellate e rinascenti, memorie, progetti, scarti, tutti assieme, o come se tutto fosse immerso in un brodo primordiale delle figurazioni, o della percezione, o di emozioni ignote e potenti che cominciano a fissare e cercano di rendere stabile questo o quel segmento, o volume, o sfumatura o linea o segno, a provare a dare un nome, ancora prima che a eventuali cose da esse sbocciate, alle intensità da esse suscitate, al disagio, e all’euforia, della loro confusione, a questo continuare a essere con, e a essere ancora e sempre, insieme, questo e quello, e poi di vedere un questo e un quello separati, quasi individuati, che cominciano a fare segno, a dirsi e mostrarsi, pronti sempre a ritrarsi ma già, almeno nei sensi, vivi, riconosciuti, non: indecisi tra essere e non essere, loro, né l’uno né l’altro piuttosto, contenti così, nella pienezza di questa non vita e non morte, in perfetto equilibrio, per ora e quindi per sempre, tanto che poi anche perderli è bello, e non importa.

(o come nel magma lavico di un vulcano, dentro, prima ancora di uscire, nella luce buia delle sue viscere, nel calore che tutto dissolve e tutto prepara, o Sotto il vulcano, come nella serie di Pierre Alechinski, e come nel libro di Malcom Lowry che l’ha ispirata, o nel Vulcano di Antonio Moresco, o nei suoi Canti del caos)


 Grazie Cccio!

 

30/12/13

Una visione di Zurbaran


...e naturalmente c'erano queste nobildonne, o badesse o religiose generiche, ritratte come sante (o viceversa), che porgevano con suprema grazia il simbolo del martirio, e addirittura lo eclissavano, o lo sublimavano, a ornamento, in quei loro abiti preziosi anche quando all'apparenza semplici, e nella postura elegantissima più degli abiti stessi, con quello sguardo dolce, ma come sospeso, arrestato un attimo prima dell'ammiccamento, e quindi quasi freddo, o tiepido, e appunto per ciò massimamente sensuale... e quelle madonne tredicenni a volte tristissime, o di poco più vecchie quando fuggono verso l'Egitto con quei san Giuseppe men che trentenni dal baffetto appena disegnato sopra il labbro, il capello nerissimo con basette a punta, con tratti gitani, affilati, come ballerini di flamenco... o quei monaci e santi dagli abiti semplicissimi ma nondimeno sfarzosi nel loro colore uniforme, a volte di un bianco così puro, come mai si può vedere in altre pitture, così candido, sfavillante, come un concentrato di luminosità, la somma di tutte le luci, da cui sbucano teste incappucciate o piegate di lato nella sofferenza o levate nell'estasi di una visione, e mani bellissime, e poi solo, sotto, piedi nudi, in ombra, e poco più: panni semplici ma di una morbidezza che è tutto meno che penitenziale, che ricadono in pieghe amplissime, pittura di solo colore, che si staglia da sfondi quasi omogenei, spesso scuri ma che sfumano talvolta in fasci di barbagli, compatti, riflessi di fonti lontane... e quell'apparizione della vergine a san Pietro Nolasca, visionario abituale, che vedeva anche città, Gerusalemme celesti immagino, ma qui ecco che gli appare, in trono, una bellissima Vergine, accompagnata da angeli musicanti con tagli di capelli che si sarebbero visti ancora uguali in certi paesani di Goya, con un lungo abito candidissimo che scende fino alla nube su cui poggia i piedi nascondendo completamente il trono su cui siede, attorniata da un nugolo di angioletti che le formano un'aureola dorata, a centinaia, che sfumano, in lontananza, in una luce infinitamente popolata... visione orizzontale, che certo è venuta dall'alto ma ora si assesta a livello del pavimento fino a invadere lo spazio della stanza del santo avvolto da una di quelle immense tuniche marroni, da cui sbucano le mani in preghiera, le dita anzi, un colletto bianco di camicia, e la testa, coi baffetti d'ordinanza, piegata verso l'apparizione, mentre alle sue spalle una porta aperta compensa questa invasione, la equilibra, in un certo senso, aprendosi su un locale buio, forse un'altra stanza, la cella vera e propria del santo, o un androne, un corridoio, in fondo al quale è ritagliata un'altra apertura, una finestra senza serramenti o vetri, o un arco, che si affaccia su un cielo scuro, quello sotto cui abitiamo noi, che alzando gli occhi, vediamo solo l'ombra appena imbiancata dalla luna di qualche nube, e ce lo facciamo bastare.