26/04/22

Epifania - Ipofanie (1986)

Recupero questa annotazione che oggi mi sembra più oscura (e confusa) di quanto allora non credessi, perché mi ricorda, tra l'altro, come sono nate le mie Ipofanie, e i brevi racconti che poi sono confluiti nella sezione eponima di Cosa dicono i morti

Sullo stesso foglietto dove inizia il seguente abbozzo, infatti, è annotato, isolato, con data luglio 86: IPOFANIA/E

 

1 agosto 1986

Parlando di Musil (ma credo valga per molti contemporanei), Magris scrive: "L'attimo non può venir tesaurizzato, l'illuminazione momentanea non può diventare possesso duraturo: la linearità, la successione cronologica del significante è incompatibile con l'atemporalità mistica dell'epifania. Possedere significa disperdere" (L’anello di Clarisse, p. 221). In questo caso cioè la riflessione sarebbe costituzionalmente impossibile dal momento che il suo oggetto, quando essa si instaura, sarebbe già svanito.

Mi chiedo se non sia non solo l'impossibilità di un possesso duraturo dell'attimo, ma proprio l'impossibilità di qualsiasi durata (di costruire la durata nella sua completezza attraverso la forma e la linearità) alla base dell'importanza accordata all'epifania da molti contemporanei, o meglio: del ritorno insistito, "necessario" dell'epifania in molti contemporanei.

Se l'epifania si impone, sia pure sotto varie vesti, allo scrittore contemporaneo, non sarebbe cioè dovuto alla perdita del tempo (lineare), alla sua frantumazione? Effetto quindi, l'epifania, e non causa o momento importante della frantumazione stessa: sintomo. Come se la mancata tesaurizzazione e l'impossibilità della durata scavassero un campo vuoto di cose (di rappresentazioni e di esperienza) ma sempre più carico di tensione, di una tensione senza oggetto che ad un certo punto scatta come una molla investendo la prima cosa o rappresentazione che capita (fosse pure una foglia o un frammento di specchietto come in L’ora del vero sentire di Handke)

D'altra parte questa esplosione (che è un'implosione rappresentativa) deve restare chiusa nell'attimo, perché se si svolgesse (sviluppasse, concretizzasse), la sua "relazionabilità" assoluta e totale la dissolverebbe, relegandola al rango degli altri attimi del tempo frantumato e irredento. L’impossibilità di relazione e di durata non sarebbero quindi insite nell'epifania, ma viceversa il tentativo di immetterla in una durata e la sua totale relazionalità la determinerebbero come monade, pena la sua dissoluzione qualora si tentasse di dispiegare la sua rete infinita di possibili relazioni. Questo, oltre a tutto, la eguaglierebbe a tutto il resto, che non è tesaurizzabile né duraturo (non diventa esperienza), proprio perché anch'esso dissolto in una rete tale di relazioni non gerarchizzate né gerarchizzabili, tanto che ogni scelta o limitazione farebbe saltare il "come tale" della cosa o rappresentazione in oggetto eguagliandola di nuovo a tutto il resto, cioè ridissolvendo nell'eguaglianza ogni differenza.

Sprofonda non importa dove, ed ecco perché l'epifania non ha oggetto se non occasionale; ma questo sprofondare assoluto, caricato dalla precedente tensione frustrata a "dire, esperire ecc.", non si chiude più su se stesso (per es. nella malinconia, nella catatonia fisica e psichica), ma si rivela come l'unico "pieno" possibile, si "accende" tanto che la scomparsa o l'annullamento nella vertigine della caduta si trasformano in un orgasmo di tutto l'"essere" ("corpo e mente"). Anzi, è la forma più compiuta di orgasmo, che è appunto scomparsa-annullamento e insieme illuminazione di tutto l'essere.

Ma ciò che l'ha portato a questo punto, e non alla scomparsa-annullamento come buio, dissolvimento, oblio ecc. (attenzione a queste immagini...) era la tensione già presente in precedenza, la "volontà" vuota accumulata (a dire ecc...). Ciò che si ricollega ad un altro topos della letteratura moderna (intendi topos non solo come luogo ricorrente, ma soprattutto come ciò necessità o che altro che l'ha reso tale, che ha moltiplicato il suo ritorno): lo scrivere ad ogni costo pur non avendo assolutamente niente da dire (come Walser, 175), ed anzi proprio perché non si ha niente da dire. Attenzione però: questo non aver niente da dire, che viene solitamente interpretato come contingente deficienza soggettiva, è invece condizione oggettiva. Walser dice: "sapere tante cose, aver visto ecc.", ma questo non regge un: eppure non ho niente da dire, bensì un: e non... (congiunzione coordinativa copulativa e non disgiuntiva, che potrebbe anche essere letta come conclusiva: pertanto..., o come implicazione: B appunto perché A).

Walser non augura a nessuno di trovarsi in questa condizione, senza sapere che proprio essa sarebbe diventata la regola (lui, l'eccezione, prototipo della futura, ma prossima, regola). Ecc.

Così l'epifania, o l'estasi puntuale, non è la contraddizione o il piede di porco che scardina l'ordine lineare del tempo, ma l'altra faccia della sua dissoluzione, e come l'ultimo rifugio da questa dissoluzione lasciato, e implicato, per chi non è ancora giunto a (intravvedere la possibilita di) costruire/vivere un tempo diverso, che è il vero problema. Ora, questo tempo la narrativa contemporanea lo costruisce (difficile è definirlo...): per questo molti romanzieri l'epifania, che prima avevano ricercato/utilizzato, l'abbandonano (Joyce, per es. ma cfr.). L'epifania è l'ultimo residuo del tempo lineare, la sua presa di coscienza l'inizio di un tempo diverso (Proust, per es.? ma cfr.)

È anche l'altro lato (il termine di un percorso) della differenziazione basilare per l'ordine temporale dei bambini e dei popoli primitivi, tra ora e non ora (cfr. Facchinelli, Freccia ferma, 38-9): per essi il presente è qui e ora, pieno, seguito da un altro altrettanto pieno che però non è un poi, così come quello precedente non diventa un prima.

cfr. poi 224…

 

20/04/22

Nuno Judice, Adagio, 1994



Nuno Judice è uno dei più importanti scrittori portoghesi degli ultimi vent’anni. Nato nel 1949, fa parte di una generazione all’apparenza fortunata, dal momento che ha potuto vivere la prima giovinezza negli anni a cavallo della rivoluzione dei garofani (1974): dagli ultimi del regime di Salazar, quando nel fascismo ancora imperante già si prefigurava e si preparava il cambiamento, a quelli successivi che alle speranza sembravano offrire un terreno di compimento se non privo di ostacoli, per lo meno liberato da quelli più ingombranti; ma che presto ha dovuto scontrarsi col dopo di una normalizzazione che sembra non arrivare mai, se non nelle forme peggiori e nella perenne difficoltà, quando non impossibilità, di conciliarsi col presente.

Bene ha fatto allora Fabio Pusterla, per ripresentare Judice al lettore italiano (a tre anni dall’antologia La poesia corrompe le dita, a cura di A. Aletti, Ed. Colpo di Fulmine), a scegliere nella sua vasta produzione poetica narrativa e teatrale proprio questo racconto che a tale periodo e ai suoi problemi è dedicato, tanto più che molti di essi non sono esclusivi della situazione portoghese. Adagio è infatti una resa dei conti col passato indispensabile per chi cerca di aprirsi una via al presente, ma che può essere fatta solo mettendo tutto in gioco, dai sentimenti alla politica alla cultura. La coincidenza dell’età del protagonista, degli ambienti che frequenta e l’urgenza più che il grado di coinvolgimento coi temi analizzati facilita l’arbitrio dell’identificazione con ciò che può aver realmente affrontato l’autore, e tuttavia il discorso è personale soltanto nella misura in cui ben individuato deve essere ogni personaggio narrativo.

Al pari del protagonista del libro, Judice è consapevole che “la riflessione individuale ha perso completamente di interesse” e “odia ... la letteratura” dominante che non sembra “interessata ad esplorare qualcos’altro oltre ai problemi del proprio autore”, ma non ignora che una riflessione che non sia legata alla concretezza del singolo finisce per essere la peggiore delle astrazioni. Così da una parte proietta i vari personaggi in una dimensione paradigmatica nominandoli mediante i loro ruoli e le loro professioni (il Poeta, l’Innamorata, il Politico, l’Ingegnere), mentre dall’altra cerca di strapparli al pericolo di un’astratta ingessatura moltiplicando le notazioni particolari e concrete in modo che la loro rappresentatività non soffochi ma anzi tragga beneficio dalla loro individuazione.

Anche la scrittura, – nel suo continuo movimento dal presente al passato in un andirivieni in cui la memoria è legata al qui ed ora come prefigurazione distorta da cui bisogna ad ogni costo evitare di restare intrappolati e a sua volta riaccende la necessità di un rinnovato confronto ad ogni nuova mossa della trama –, intreccia con grande equilibrio il momento riflessivo con quello concreto in una densità di immagini che se da un lato si fanno quasi dimenticare nel ritmo serrato del pensiero, dall’altro vi soffondono la tonalità di emozioni e sentimenti che non indulgono ma nemmeno rinunciano a se stessi.

I personaggi succitati invece sono tante figure che al cambiamento dei tempi e della società non sanno opporre che l’irrigidimento di posizioni che risultano sempre esterne, vuoi con la fuga, vuoi con la pretesa di giocarlo ai propri fini o che finiscono per esserne travolte per non aver saputo operare quell’“adeguamento soave di ciascuno al modo collettivo di essere, che dava finalmente un’anima nuova alla città”.

Solo il protagonista, o meglio la voce narrante che non a caso resta senza nome (anonimo come i tanti che al “modo collettivo di essere” partecipano?), dopo aver sperimentato le vie dell’estraneazione, dell’opposizione e della chiusura, lentamente, per tentativi ed errori, trova modo di riaprirsi al reale e alla sua accettazione, che per essere “pragmatica” (anche se a taluni può apparire opportunista o moralista) non per questo si lascia trascinare nel “vomito costante del pessimismo, la vera lebbra del pensiero che ci era stata lasciata in eredità” né nel rimpianto di un passato nostalgico o eroico. “Era quella dunque, la grande rivoluzione: la fine dell’era tragica dell’esacerbazione dei conflitti e delle individualità” ed è in essa che egli deve imparare a vivere, col coraggio di un sentimento finalmente conquistato, ma senza cadere nell’opposto idillio di un presente altrettanto idealizzato. Del resto, anche trovare idilliaca la realtà non sarebbe per niente male, come risultato.

 

 

Nuno Judice, Adagio, a cura di F. Pusterla, Sestante, 1994, p. 81, £. 14.000

 

11/04/22

Tintoretto, Susanna e i vecchioni


 

Tra i numerosi capolavori della mostra appena aperta a Palazzo reale, Tiziano e l'immagine della donna nel Cinquecento Veneziano, in collaborazione con il Kunsthistorische Museum, stanco per l’andirivieni tra le sale, mi è capitato di sedermi davanti a Susanna e i vecchioni di Tintoretto che già avevo visto più volte a Vienna. Quando uno si siede davanti a un Tintoretto del Kunsthistorische, ovvio che si sente addosso l’occhio maligno di Thomas Bernhard, ma siccome io l’avevo già fatto in gioventù prima di leggerlo, posso riandare a una sorta di sguardo vergine immaginario, e tenermi il patronato del grande Thomas a debita distanza, con tutta la deferenza del caso. E così sono stato colpito da un paio di cose che avevo sì visto le altre volte, ma senza che ci riflettessi su più di tanto, e in questo modo anche l’insieme del quadro ha preso delle sfumature per me nuove, certo derivate anche dal tempo trascorso. Ero un po’ irritato da una coppia di anziane signore (parla uno che ha settant’anni) che mi capitavano tra i piedi e mi urtavano, sia pure in modo delicato, quasi carezzevole, praticamente a tutti i quadri davanti a cui mi soffermavo, con tutto lo spazio che c’era, perché dovevano leggere gli elementari e quasi inutili cartelli esplicativi e non affaticare troppo il loro sguardo miope, scusandosi ogni volta, come se non riuscissero a padroneggiare il cilindro di spazio del loro corpo, fermo o in movimento che fosse. Il corpo di due vecchie! (E il mio, su cui preferisco sorvolare).

Fastidi da niente. Però quando uno è molto stanco tende a essere irritabile, alla lunga. Così, quando in una sala ho visto due panche, mi sono fiondato subito su quella libera e mi sono trovato faccia a faccia con il capolavoro di Tintoretto. Non so, in un certo senso è stato come se lo vedessi davvero per la prima volta. Dopo un lungo sguardo complessivo, ho cominciato a guardare quel corpo giovane che tante volte avevo ammirato, senza che sia esattamente conforme ai miei ideali erotici (espressione che mi suona come un puro ossimoro), sia in loco che su una cartolina che mi aveva spedito mio fratello moltissimi anni fa e che ho usato a lungo come segnalibro e ancora conservo. Ma si sa, un conto è una riproduzione, un conto il quadro, tanto più se visto, come stavolta, a distanza tale da potere quasi entrare nel suo spazio per ispezionarne con calma i dettagli evidenziati dall’allestimento e dal fatto di scrutare dal buio, quasi di nascosto, come i vecchioni al suo interno, accoccolato nel mio voyeurismo legittimato dalle circostanze. Inoltre, a volte, la stanchezza aiuta a guardare, quando ti fermi a riposare. Una volta seduto, dimentichi il corpo affaticato, lasci defluire senza fretta la tensione, la testa si alleggerisce, il velo che si andava addensando sugli occhi cade e, se sei fortunato, e un po’ allenato, qualcosa vedi. Cioè, ti trovi nella condizione di accogliere senza troppi preconcetti ciò su cui il tuo sguardo si posa né essere indotto a spostarlo troppo in fretta da qualche eccesso di energia che al momento non hai.


E la prima cosa sui cui mi sono soffermato, di quel corpo luminoso, dalle carni lattee, morbide e lisce, è stata la linea della schiena e della coscia sinistra, netta nel contorno, ma mossa, tutta accenni di curve e piccole ondulazioni che trapassano dolcemente l’una nell’altra, senza interruzioni, a modellare il tripudio di una carnalità esuberante e per nulla idealizzata, come sarebbe invece quella suggerita da una curva tesa e continua, in un certo senso chiusa, esaltata e insieme dominata dalla sua geometria, prigioniera della forma (si veda per esempio in Guercino, che pure condivide il modello femminile solo di poco più snello).

Quella linea mossa invece asseconda il corpo, gli è asservita e ne esalta la vitalità, e sollecita il riguardante (il guardone) quasi a sfiorarla per sentirne la consistenza e il calore, l’energia rattenuta ma sempre sul punto di rivelarsi, e non a carezzarne la levigata superficie come si farebbe con una statua, cosa che peraltro adoro fare quando possibile. È veramente un corpo, magnifico e sensualissimo, quello che viene offerto in pasto all’occhio dello spettatore (maschio, eterosessuale) quasi proteso verso di lui, con l’avambraccio sinistro che sembra un po’ troppo grosso a causa del primo piano, e la testa viceversa un po’ troppo piccola per la relativa distanza.

Per quanto bello sia il viso, magnifica la capigliatura, è la carne a dominare la scena, viva, piena, malleabile ma non cedevole, compatta e elastica, palpevole, se mi si concede il termine, con quella sua epidermide perfetta, vibrante di luci e sfumature e penombre, lievi e più buie; e fermiamoci qui. Bellissimi il piede e le mani e la candida salvietta di garza di lino, morbida e ricca di trasparenze come la vicina acqua. Per il piede e la gamba in acqua, viene spontaneo pensare a numerosi quadri di Rembrandt, in particolare una Betsabea e l’inarrivabile Giovane donna al bagno in un ruscello, su cui non mi soffermerò, se no mi perdo. (Ma intanto mi si sono installati in testa e infiltrati après coup nello sguardo.) Segua il lettore il vagabondare dello sguardo e i suoi indugi, e le proprie fantasie, se ne ha.


 

Passiamo ad altro. La scena si svolge in un giardino, quasi un paradiso terrestre con un boschetto, arbusti fioriti, uccelli e animali in libertà che si tuffano o abbeverano a un ruscello, nel quale una serie di pannelli a griglia delimita lo spazio privato all’interno del quale la giovane Susanna sta prendendo il bagno, precariamente protetta da sguardi estranei da una parete di rose rampicanti. Infatti due vecchi hanno trovato modo di aggirare l’ostacolo e anzi di approfittarne per sbirciare senza essere scoperti. Mi sa che non è la prima volta che i due sporcaccioni si godono lo spettacolo, non sono capitati lì per caso. Il vecchio in primo piano in basso sulla sinistra, con il cocuzzolo della pelata abbronzata illuminato come il ginocchio della giovane e la sua bellissima fronte, si sporge alla base del pannello fiorito che nasconde il suo corpo allo sguardo della ragazza, che invece si sta contemplando nello specchio che le sta di fronte, appoggiato a terra, sul quale noi invece vediamo solo un lembo del bianco panno e il bordo dell’acqua da cui è da poco uscita, e nient’altro. È tutto un sistema di sguardi, aperti celati furtivi attenti o negati, ma mai condivisi. Ognuno sta chiuso nella solitudine del proprio, sospesa e appagata, sospesa al suo appagamento sospeso.  

 

Per vedere non visto, il vecchio si è inginocchiato e chinato in avanti piegando la schiena e il collo con un certo sforzo, sostenuto da un braccio e da una mano poggiati a terra per mantenere l’equilibrio. La sua postura, oltre che dettata dalla libidine voyeuristica, sembra quella di un devoto che si prosterna in adorazione. Lo capisco. Spinto dal desiderio, lo blocca però sulla soglia dalla quale si sporge proprio per dargli sfogo, per lasciare che gli occhi, l’unica parte di lui che conserva un’intatta vitalità, la oltrepassino, gettando, si direbbe, il desiderio oltre l’ostacolo, folgorato dalla irresistibile bellezza del suo oggetto, dal fulgore delle sue carni, trionfante persino dell’oro dei capelli e dei monili ai suoi polsi, e della luce dell’orecchino di perla che brilla nella tenue ombra del collo. Lunga vita agli orecchini di perla!

Accanto nello spazio del quadro, ma per lui invisibili, gli abiti dismessi, un pettine di avorio, uno spillone argentato per l’acconciatura, un filo di perle, degli anelli, un vaso di cristallo contenente certamente un unguento profumato in precario equilibro sul bordo dello specchio d’acqua, e lo specchio che nessuna immagine rimanda. Solo segni, riflessi.


Verso il fondo, in piedi dietro il muro di rose, si sporge un secondo vecchio dalla lunga barba bianca come il primo ma ancora provvisto di una bella serica capigliatura. Lo sguardo non è rivolto verso Susanna, la testa è china e la sua espressione non è del tutto chiara: più che lubrica, come quella del compare, sembra pensosa. Il desiderio l’ha certo attraversato e scosso come un fulmine; o forse, più che il desiderio, la sua memoria, un remoto vestigio che quando torna a manifestarsi non manca di far male, e ora non gli resta che la tristezza di averlo perduto per sempre, il pensiero della caducità dell’esistenza e dell’evanescenza della forza vitale, da cui invece sembra esente ora e per sempre Susanna, e lui non sa se rimpiangere gli appetiti svaniti o rendere omaggio a colei che senza volerlo per qualche attimo li ha risvegliati e si lascia solo ammirare, tra rimpianto e incanto.

Intanto la natura fa il suo corso. Il cervo si china a bere, un uccello è appollaiato su un ramo, delle anatre sguazzano nel ruscello, le rose fioriscono, gli alberi verdeggiano, le fronde stormiscono. Il solito idillio. La solita meraviglia. Il mondo sembra tacere, o sussurrare dolcemente. Ogni cosa e essere è per sé, e tutto è insieme, e per un attimo entro a farne parte anch’io. E mi aggiro leggero e svagato. È allora che mi avvedo di due personaggi che mi erano sfuggiti. Sono due erme, addossate ai pilastri della struttura che regge le griglie sullo sfondo. Altri due sguardi a completare il quadro. La prima erma, sulla sinistra, dalla parte dei vecchioni, è un busto femminile senza braccia, dal volto tracciato in modo sommario, quasi senza occhi, cieca, con lo sguardo vuoto, assente; la seconda è invece un essere maschile, un satiro o una divinità, rivolto verso il giovane corpo nudo. Ha gli occhi ben aperti e sembra osservare la scena senza un commento o un sospiro. Ma certo non vede nulla, e se vede non ha poi così importanza per lui, come per la sua compagna. Niente lo sommuove, dalla sua distanza divina. È impassibile. Per forza! È di marmo, lui. Eppure la sua bocca che sembra aperta qualcosa potrebbe tradire. Uno stupore nonostante tutto? Non so. Le divinità sono incomprensibili.


Io invece, prima di andarmene, torno a guardare la ragazza, e mi avvicino per vedere meglio il suo viso che avevo un po’ trascurato, il rosso delle labbra appena pronunciate, come si fa a volte inconsapevoli quando si è intenti a pensare o osservare qualcosa, come lei nello specchio; il bellissimo rosa sulle palpebre, come un ombretto; il perfetto arco delle sopracciglia disegnate con un tratto continuo che nella destra prosegue nel naso elegante e deciso; gli occhi scuri, soddisfatti di ciò che stanno vedendo, con naturale, incantevole, civetteria, ma senza malizia; il lieve rossore delle guance; l’acconciatura elaborata deliziosamente in disordine; il collo in ombra percorso da tenui, quasi invisibili sfumature di colore; il bagliore, di nuovo e infine, dell’orecchino di perla; e resto io pure abbagliato, intenerito e ammaliato, e preso da un’imprevista dolcezza, che non ha niente del rimpianto di essere io pure vecchio come i miei due simili, e percorre il mio corpo ora riposato, appagato, senza età.