27/02/15

V. Chodasevič e F. Prokosch

Nina Berberova e Vladislav Chodasevič
 
Che ne è della vita degli artisti, dei loro gusti e amori, dei loro bisogni e dei loro rapporti sociali? Se la figura dell’autore come antecedente, padre e padrone dell’opera, e l’immagine della vita come punto di riferimento imprescindibile per la sua comprensione sono state ormai cancellate dall’orizzonte esclusivo del testo, significa che diari, biografie e memorie vanno considerate d’ora in poi soltanto sotto il profilo storico-documentario, per non dire feticistico? Oppure ci sono già in essi tutte le condizioni della letteratura proprio perché, come dice Giorgio Manganelli, scrivere della vita di uno scrittore è impossibile e immorale?
Due libri recentemente editi da Adelphi possono aiutarci ad abbozzare una risposta: si tratta di Voci (tradotto da G. Forti) dello scrittore americano Frederic Prokosch, e di Necropoli del poeta russo Vladislav Chodasevič (1886-1939), curato da N. Pucci e prefato da Nina Berberova, che fu a lungo compagna dell’autore.
Il primo è un’autobiografia stranamente formata in gran parte dai resoconti di 50 incontri che Prokosch ha avuto e cercato nella sua lunga vita con ballerine, tennisti, spie e soprattutto con alcuni dei maggiori scrittori del secolo (Joyce, Stein, Eliot, Pound, Woolf, Blixen, Nabokov...); il secondo è composto da magnifici saggi di prevalente taglio memorialistico su protagonisti (Belyj, Blok, Esenin, Gor’kij...) del grande e drammatico periodo che anche artisticamente la Russia ha vissuto tra l’inizio del Novecento e l’affermazione della Rivoluzione d’ottobre.  La generazione che ha dissipato i suoi poeti, secondo l'espressione di Roman Jakobson. Pur non dimenticando le notevoli testimonianze e i curiosi aneddoti di cui sono ricchi (tanto che difficilmente si sbaglierebbe anche scegliendo a caso: si tratti di Dylan Thomas che si bagna nudo nel mare autunnale di Ostia, di Brecht che pontifica in uno squallido bar newyorkese o del vecchio Santayana nel suo convento, in Voci...; o delle bugie e delle lacrime di Gor’kij, delle equivoche compagnie di Esenin o dei tanti tragici suicidi in Necropoli), questi due libri ci interessano qui proprio per il grande spazio che danno alla figura umana e storica dell’artista e per i diversi atteggiamenti adottati nei suoi confronti dai rispettivi autori.
Cominciamo da Vladislav Chodasevič: in Necropoli, talvolta da conoscente tal altra da amico, ma sempre come critico che conserva una sua personale visione e capacità di resa oggettiva anche nei momenti di maggior coinvolgimento, egli narra soprattutto la storia di una generazione, quella simbolista, che, non ammettendo “che si separassero lo scrittore dall’uomo, la biografia letteraria da quella personale”, proprio per la costante ricerca di “una sorta di pietra filosofale” che permettesse di saldarle finì per tramutarsi spesso in “una storia di vite infrante e di potenzialità artistiche non realizzate fino in fondo”. Per questo Chodasevič accorda la propria attenzione anche a personaggi che artisticamente poca o nessuna traccia hanno lasciato di sé.
“Ricordalo: comunque sono esistito”, gli dice uno di questi, ed egli se lo ricorda, consapevole che anche in questi tentativi di legare arte e vita, “in alcuni casi autenticamente eroici”, sta la “profonda verità, forse irrealizzabile” del simbolismo. Non per questo però trascura di analizzarne l’equivoco essenziale, il quale (paragonabile a quello opposto di coloro che considerano l’assenza di vita come condizione dell’opera, secondo una malintesa santificazione del modello kafkiano, che di fatto spesso giustifica solo la vuotezza dell’una e la pochezza dell’altra), consisteva appunto nell’istituire una relazione di diretta implicazione tra le due realtà, e anzi di reciproca alterna subordinazione: così, per esempio, “bastava che fosse innamorato, e l’individuo si vedeva assicurati tutti gli articoli di prima necessità lirica: la Passione, la Disperazione, l’Estasi” ecc.; e viceversa le tensioni e i contenuti dell’opera dovevano riversarsi a ogni costo nella vita.
Subordinate in tal modo l’una all’altra, non è da stupirsi che potessero finir mancate entrambe. Eppure proprio ciò che i simbolisti russi non riuscirono a progettare, e nemmeno a prevedere (destino o storia), ha talvolta portato a compimento quello che altrimenti sarebbe stato solo l’involucro di un nato-morto, premurandosi di offrire una soluzione alle loro velleità, così colmandole. Per questo, come forse in ogni opera, anche le speranze dei simbolisti si realizzarono sotto il segno dell’involontario e le loro vite diventarono opera solo evadendo i loro progetti, e a noi si offrono sotto un segno che oltrepassa di molto il patetico a cui sembravano destinate. Grande merito di Chodasevič è di aver trovato l’esatta misura per raccontarcele, con una sobrietà che è già e sempre esercizio di intelligenza, da una distanza che non esclude la partecipazione e come una testimonianza che scherma con il suo tono oggettivo una personale meditazione sui territori della morte: Necropoli.

Di tutt’altro tenore sono il discorso e l’atteggiamento di Prokosch, che anzi a prima vista sembrano ridursi a quelli di un sia pure particolare ammiratore di divi. Colpito dai primi incontri infantili con grandi personaggi (specie Thomas Mann, amico del padre), Prokosch dedica parte della sua vita a rinnovarli, registrando fedelmente ogni particolare. Tuttavia presto anche qualcosa d’altro si insinua nel suo percorso ed egli, nei diversi interlocutori e al di là di essi, comincia a cercare “l’artista come eroe, come enigma, come martire, come rivelazione e infine come frammento dell’umanità”. Il viaggio alla sua ricerca, diventato Prokosch scrittore a sua volta, si trasforma inoltre nella ininterrotta formazione del viaggiatore stesso, che si ricerca come individuo e insieme come parte di una forza che lo trascende e di cui è preda (scrive il suo primo romanzo, Gli asiatici, come in trance), ma che intende conoscere e controllare sempre di più per servirla meglio, per rendersene degno. Egli si rende conto cioè di partecipare di qualcosa (l’arte, la bellezza, la creazione) il cui mistero non finisce di stupirlo e di restargli incomprensibile, ed è per questo che cerca di avvicinare coloro che al suo nucleo gli sembra che si siano maggiormente avvicinati. Proprio in quanto tali essi – che sono di volta in volta, o allo stesso tempo, i suoi specchi, gli amici, i modelli, gli eroi e gli uomini nella loro singolarità e estraneità – non solo non deludono mai Prokosch, ma possono a buon diritto, con le loro parole e la loro quotidianità, marcare le tappe fondamentali di un’autobiografia intellettuale in cui appunto tutti questi aspetti sono sottaciuti o elisi.
Ma se da questi artisti Prokosch ricava indicazioni e suggestioni più o meno importanti, non per questo si dilegua il mistero inaugurale, che anzi gli oppone in modo tanto più netto la propria oscurità quanto più viene messo in chiaro ciò che avrebbe dovuto approssimarlo (ma forse è questo lavoro di sgombero l’essenziale). Né da essi egli apprende la saggezza che ponga termine alla sua anche geografica instabilità, che invece gli si rivela parlando con due vecchietti che non si sono mai mossi dal loro villaggio natale, ma solo quando egli stesso è ormai pronto a riceverla. Come questa saggezza però, così anche i risultati di tanto affannarsi non appaiono alla fine particolarmente sorprendenti, né poteva essere altrimenti in chi cercava da altri una sicurezza e risposte che non sapeva rinvenire da sé e in sé, né nei testi dei suoi maestri.
E tuttavia Prokosch ha imparato certamente più di quanto riesca a dire: lo dimostrano i suoi romanzi e questo stesso libro. Voci infatti, a uno sguardo più approfondito, si rivela più di una pur bella autobiografia: proprio l’atteggiamento deferente del discepolo, la mimesi e l’adesione totale ai vari personaggi e al loro stile, ripreso nei ritratti e nelle ambientazioni, non solo permettono a Prokosch di praticare quella forma indiretta di critica che è sempre il pastiche, ma anche di aggiungere surrettiziamente, in alcuni casi, delle appendici apocrife all’opera dei suoi modelli.
Che cosa ha dunque imparato Prokosch e dovrebbero imparare quei lettori che ancora non lo sanno? Che ciò che è misterioso e non si riesce a formulare direttamente può sempre diventare un’opera e solo in essa manifestarsi; che il frutto della creazione è più misterioso e molteplice della sua origine, del suo processo di emergenza e del suo tramite o autore; che la domanda sulla causa è meno importante e interessante dei suoi effetti; che gli effetti sono la vera causa.
 30-01-1986



  

21/02/15

Il lanzichenecco e la Morte di Dürer





L'incisione Il lanzichenecco e la Morte di Dürer, del 1510, per certi versi sembra proprio una tavola di fumetto, e forse lo è: c'è persino l'osso che nei cartoni animati viene gettato ai cani, o spunta qua e là in Jacovitti (magari l'ha copiato da qui: i disegnatori di fumetti sono molto più colti di quanto pensano gli sciocchi alcuni perlomeno; del resto è ormai una frase fatta dire che i grandi cicli di affreschi erano i fumetti del passato). Però ci sono alcune cose che segnalano, senza ombra di dubbio, il grande artista: la mano della Morte che tocca il braccio del soldato come a richiamarne l'attenzione, e la testa e le spalle di questi che si piegano impercettibilmente in avanti, con il peso del corpo bilanciato dall'inclinazione opposta dell'alabarda, che il soldato regge meno di quanto vi si appoggi.


È un gesto che non si nota subito: dapprima l'attenzione va alle due figure prese nell'insieme, poi al gesto più evidente, quello dell'ostensione della clessidra, che i due personaggi fissano con espressione beffarda la prima (per l'occasione la morte non è puro scheletro ma conserva gli occhi, oltre ai capelli e alle sopracciglia, che ne accentuano la malignità), sgomento l'altro, tra l'inebetito e l'impaurito.

Solo dopo si nota la mano che fuoriesce dal mantello sbrindellato, inciso con tratteggio fitto tanto da creare una macchia nera nella parte più interna, come se fosse il centro buio dell'incisione, il vortice nero che sta per risucchiare ogni cosa, e va a sfiorare la manica del soldato, quasi confondendosi con le sue pieghe. È un gesto che conosciamo tutti, per averlo fatto tante volte, consciamente o meno, e più per averlo subito, spesso con disagio, da persone particolarmente fastidiose. (E pensare che può anche essere un gesto di grande dolcezza, il contatto dell'intimità: la mano che va, con naturalezza, leggera, all'avambraccio della persona amata, che ne avverte appena la pressione ma ne riceve comunque tutto il calore, la felicità profonda della confidenza, dell'abbandono.) Di solito però serve a richiamare l'attenzione, pretende l'adesione a ciò che viene enunciato, alla sua verità, ma soprattutto equivale a una presa di possesso: ne proclama l'intenzione; ne è già l'inizio.  Come se la Morte dicesse, qui, al lanzichenecco, che non può pensare di sfuggirle; che, per quanto il tempo non sia prossimo, a giudicare dalla sabbia ancora presente nella parte alta della clessidra, è già, e per sempre, preso.

Solo allora, dopo che il mio sguardo si è in questo modo esercitato a  focalizzare meglio i dettagli, all'improvviso io vedo, sul polpaccio destro della Morte a metà scarnificato, il ricciolo di carne che sporge, cadendo all'ingiù. Rabbrividisco, e forse solo allora capisco.

15/02/15

Versare il latte (Su Vermeer)


 Non avevo molta voglia di andare a Amsterdam, mi sentivo un po’ stanco e depresso, ma ormai avevo preso l’impegno con un amico, che oltretutto aveva già prenotato aereo e albergo. “Vedrò qualche Rembrandt,” mi dicevo come fiacca consolazione, “qualche Hals e la grande diga sul mare del Nord...”. Io che ho sempre affrontato ogni viaggio con entusiasmo, carico di energia, con mille progetti di cose da vedere e da scoprire, con la testa che cominciava a lavorare di fantasia, gioiosa, non appena la decisione di partire veniva presa… Sto perdendo la curiosità… le cose che mi interessano sono sempre di meno… Vuol dire che sono invecchiato. Così, di colpo.
Poi, lì, le cose sono andate meglio, il tempo primaverile era splendido e la città incantevole, la gente tranquilla e i turisti nel complesso discreti, e pian piano anch’io mi sono lasciato andare. Mi sono alleggerito. Andavo a spasso volentieri, mi guardavo attorno senza ansia né avidità: mi lasciavo esistere. Di visitare i musei, che di solito è la mia fissazione (almeno uno per città, ma bene), non mi sfiorava nemmeno l’idea, ma siccome avevo allentato ogni resistenza, quando il mio amico ha insistito per quello di van Gogh (è un patito di van Gogh, lui), senza pensarci ho detto che allora era meglio il Rijksmuseum. Vada per entrambi, mi ha risposto. Va bene: oggi uno, domani l’altro.
Al Rijksmuseum il mio amico, di cui ascoltavo distrattamente commenti, senza condividerli ma anche senza nessuna intenzione di discuterli, dopo le prime sale ha cominciato a prendere un ritmo diverso dal mio: ci ritrovavamo ogni tanto, ma di fatto ognuno proseguiva la visita a modo suo (lui sedendosi spesso). Ho visto cose belle con moderata attenzione e altrettanto entusiasmo (cioè nessuno), soffermandomi qua e là su qualche dettaglio e su alcuni interni

di chiese. Uno in particolare, di Pieter Saenredam, con l’immenso edificio fatto solo di pareti e colonne chiare, con un gruppo di banchi al centro e poche persone che più che pregare o ascoltare il commento a un testo appena letto sembravano fare una sommessa, e direi quasi reticente, seduta di autocoscienza: tutti, tranne un cagnolino, mi pare, e un bambino sdraiato per terra fuori dai banchi, in primo piano, minuscolo, che appoggiato a un gomito leggeva non so cosa (avrei detto un fumetto, dalla sua posizione rilassata, se allora fossero esistiti fumetti). Mi ha colpito quella posa distesa eppure concentrata; mi è piaciuto che leggesse, perso in un piacere suo e indifferente alla funzione religiosa. E mi è piaciuto anche che il gruppo si disinteressasse di lui.
Poi ho incontrato alcuni ritratti di Rembrandt e altre cose, certamente bellissime, ma... Forse ero io che non funzionavo. Pazienza, càpita.
Infine sono arrivato, senza accorgermi, nella saletta di Vermeer. Le pareti sulla sinistra e di fronte erano ostruite da un gruppo con una guida e altri visitatori sciolti, così mi sono diretto a destra, dove, davanti alla Stradina, c’era meno gente.

Ho sempre pensato a Vermeer con diffidenza (forse perché piaceva a Proust, o per come piaceva ai suoi personaggi) e per un caso curioso, chissà perché, tutte le volte che sono stato al Louvre, almeno una dozzina, non ho mai visto i suoi due quadri; e anche alle riproduzioni delle sue opere ho sempre guardato in modo distratto. Poi mi sono imbattuto, a Vienna, con il Pittore nel suo atelier, o Allegoria della pittura, come viene anche chiamato. Così ero curioso di vedere le quattro tele di Amsterdam, ma non entusiasta come mi era successo, per esempio, a Roma mentre stavo andando a vedere i Caravaggio. 

Mi sono dunque fermato davanti alla Stradina e me la sono guardata ben bene. Più che guardarla l’ho scrutata, spiata, anatomizzata centimetro per centimetro, con quei movimenti del busto e del collo, quello spostarsi avanti e indietro che appaiono tanto ridicoli quando li osserviamo negli altri. Mi spingevano a farli la voglia di non perdere nulla, né dell’insieme né dei particolari, il desiderio di memorizzare e, infine, l’ammirazione, ma la consapevolezza mi rendeva un po’ ridicolo ai miei stessi occhi. Ma non mi importava.
Ammirazione... Mi piace ammirare, riconoscere la grandezza, o anche solo la maestria; non sono di quelli che trovano ovunque qualcosa da disprezzare, come se non facendolo si sminuissero... no, ammetto volentieri di ammirare, con spontaneità, ingenuamente (è uno dei pochi lati di me che mi piacciono: quando mi accorgo di essere stato ingenuo, a volte riesco persino ad ammirare me stesso); ma l’ammirazione non mi basta, preferisco sentirmi schiacciato, come sott’acqua, a grande profondità e senza scafandro, con le ginocchia che si piegano dallo sforzo per restare ritto e il corpo che si comprime, si fa più denso, compatto, aumenta di peso specifico e non riesce a muoversi, il respiro che non trova sbocco o poi esce tutto insieme, di colpo, in un fiotto rumoroso, come mi è successo nella Cappella sistina e in poche altre occasioni; o ancora preferisco... Lasciamo perdere.
Niente di tutto ciò con La stradina, ma mi accontento, e continuo a spogliarla col mio sguardo impertinente finché non vedo che alle altre pareti i visitatori si sono diradati. Vado da quella parte e mi trovo davanti alla cosiddetta Lattaia. E subito, al primo impatto, resto impietrito, invaso da una commozione inspiegabile, con gli occhi che mi si inumidiscono, anche se è un’umidità che resta tutta dentro l’occhio, che non si trasforma in lacrima.
Non capisco... avevo visto la riproduzione non so quante volte, senza restarne particolarmente colpito. Quando sento gli occhi bagnarsi, il primo impulso è resistere, invece resisto all’impulso e lascio che le cose vadano per conto loro, inchiodato lì come un imbecille contento di esserlo. Aspetto che la commozione defluisca, prima di spostarmi a vedere gli altri due quadri, ma quella resta, come un sottofondo che si è ormai installato e che so che mi farà compagnia a lungo, ora e ogni volta che me ne ricorderò. 

Guardo comunque sia la Lettera d’amore che la Donna in azzurro che legge una lettera, con quella doppia ombra azzurra della sedia che sembra irradiarsi sul muro in lievi sfumature soffuse, a puntini scontornati. E nell’essere assorta della donna trovo qualcosa di quella che versa il latte: mi piace moltissimo, ma perché non mi tocca altrettanto? Solo perché la commozione di prima era così pervasiva da non lasciare spazio a nient’altro? Torno alla Lattaia e l’emozione si rinnova, intatta, con maggior forza anzi, come se la prima volta fosse stata solo una preparazione, una rincorsa, che avrei scambiato per l’unica e vera, senza la minima traccia di dubbio, se non fossi tornato indietro.
Cos’è? Da dove viene? Cosa mi dà a vedere questo quadro? Guardo il muro, il chiodo in trompe-l’oeil, lo scaldino sul pavimento, la gonna rossa e il grembiale blu, il panno verde del tavolo con l’altro panno blu che finisce sotto il paniere, il pane e il boccale sul tavolo, la finestra, la cesta di vimini e lo scaldino di rame appesi accanto alla finestra, poi arrivo alla testa piegata, scendo al busto e alla spalla con la manica rimboccata, al braccio muscoloso e alla mano sinistra che regge da sotto la brocca tenuta per il manico dalla destra, e mi arresto al meato nero della brocca da cui il latte si riversa nella ciotola dagli orli luminosi. Poi torno di nuovo al volto piegato, agli occhi in ombra che non mi guardano, e infine capisco: al di là dell’insieme e dei particolari, al di là della luce e degli oggetti, ma in ciascuno di essi, nell’ambiente e nella scena, ciò che questo quadro mi mostra non è nient’altro che l’assolutezza di un gesto; anzi, meglio, il gesto assoluto.
Non mi racconta una storia, non allude a un contesto, non accumula, sia pure con discrezione, elementi che definiscano un luogo o un ambiente o una posizione sociale: mostra, come mai avevo visto prima, esattamente quel gesto di versare il latte che immediatamente, e insieme, diventa il gesto.


A impormi questa idea, questa evidenza, è l’inclinazione della testa della donna, la sua continuità con ciò che fanno le mani, attraverso la posizione delle spalle e l’angolo del gomito sinistro, la luce sull’avambraccio che accentua l’impressione di una forza, non controllata, bensì resa inconsapevole di sé dalla consuetudine, tanto che la brocca appare più leggera di quanto non sia, così che la mano destra non ha nemmeno bisogno di stringere troppo il manico.
Guardo il suo volto, gli occhi chinati, l’ombra sulle palpebre, le ciglia sotto cui non traspare nemmeno un accenno del bianco della cornea mentre il chiarore si diffonde sugli zigomi, e non riesco a pensare a cosa le passa per la testa. Non ci riesco perché per la testa non le passa nulla, nulla al di fuori dell’attenzione, della concentrazione totale su ciò che sta facendo. Non è pensosa come il geografo, né sognante o maliziosa come chi riceve o legge una lettera, e nemmeno serena, come pure verrebbe facile pensare: non c’è traccia, in lei, di psicologia. Nessuna storia la precede o le accade o si può supporre che le accadrà. Il suo gesto non rimanda a niente: sta solo versando del latte, e lei è tutta in questo versare. Non c’è quella cura un po’ ansiosa di non rovesciarne nemmeno una goccia, che prende sempre, per esempio, me, che sono impacciato, maldestro o frettoloso (a scelta, il risultato non cambia: ne rovescio sempre un po’); non c’è nessuna implicazione nel latte che versa, come liquido vitale o cibo elementare, anche se la vicinanza del pane potrebbe indurre a crederlo (e difatti lo si crede, come capita a me adesso: ma questo non toglie  nulla al discorso, semmai aggiunge qualcosa; solo dopo, però, cioè adesso): sta solo versando del latte, per preparare un pasto.
Le cose sono sul tavolo nello stesso esatto modo in cui lei versa il latte. Potrebbero essere considerate come una natura morta a sé stante, ma a me sembra che la perfezione del gesto rende perfette anche loro, non per quello a cui servirebbero, ma per quello che sono; anzi, facendone più di quello che sono proprio in quanto sono solo come sono e solo quello che sono.
Attraverso l’evidenza del gesto che mi si è mostrato, nel momento in cui lo percepisco, vedo anche il corpo che lo compie, questo corpo che compie questo gesto, la cui assolutezza non comporta niente di universale o di eterno, ma è contenuta tutta intera, è richiesta dalla, e richiede la singolarità, l’individualità dell’atto e dell’esecutore.
A versare il latte è (non può che essere) una donna, e precisamente questa donna che adesso amo, che vorrei al mio fianco non perché io abbia bisogno di lei, né perché lei mostri di aver bisogno di me, bensì proprio perché lei non ha bisogno (penso: “non ne aveva bisogno allora e non ne ha ora...” ma subito mi vien da aggiungere: “non ne ha più”, perché adesso è morta...) né di me, né di nessuno, né di nient’altro (quantomeno finché compie questo gesto, che peraltro ormai compie per sempre). E mentre lo penso, mi rendo conto che per la prima volta penso a lei come a una donna, una che in carne ed ossa è stata, e che lei era esattamente come il quadro me la mostra, e non per qualche presunta qualità “fotografica” del quadro (nel senso in cui una fotografia in genere rimanda a qualcuno che, per essere stato fotografato, in quel momento c’era, esisteva...), quanto piuttosto perché la sua esistenza è resa ineluttabile dal gesto, che me la fa amare perché mi colma una mancanza che ignoravo di avere nello stesso istante in cui me la rivela.
E allora capisco anche che quando pensavo che la volevo al mio fianco non formulavo un auspicio, e tanto meno un rimpianto, quanto una constatazione di cui andavo prendendo coscienza e che ora si stava finalmente realizzando. Ora l’ho al mio fianco, e insieme a lei ho la mancanza che ora conosco e il suo rimedio per sempre efficace. E capisco anche, adesso, che le poche occasioni in cui ho avuto esperienze come questa, momenti in cui, come dicevo, alla lettera manca il respiro, il nocciolo dell’esperienza non è il venir meno del respiro, ma il suo recupero; anzi, più che un recupero, il suo primo affiorare, il suo ri-nascere. Sono un altro.
Ho le vertigini: non mi riconosco; mi manca il respiro: muoio; sono perduto: mi piace; il primo respiro mi attraversa violento: sono nato; piango: sono grato.
E tuttavia l’evidenza del suo non-essere più lì nell’essere-lì per sempre del suo gesto, è anche l’evidenza del mio non-essere più qui, della mia morte, già avvenuta e ancora da venire, ma già qui, e per sempre, nel suo avvenire. È anche su di me che piango, è del mio non-esserci più che cerco di consolarmi.
Guardandola, fisso lo sguardo su di me e gli occhi mi si inumidiscono. La mancanza che ho incrociato è anche quella di ciò che mi mancherà, e che io mancherò: la fine, e non riesco a sostenerla.
Piango anche per questa mia debolezza che non accetto, e insensibilmente sto già passando ad altro: qualcosa d’altro mi chiama (ciò che non riesco a sostenere mi spinge altrove). Dapprima come puro richiamo, vuoto che non riesce a prendermi, poi come interesse che mi cattura, anche se sullo sfondo resta sempre ciò da cui credo di essermi allontanato e che a poco a poco mi convinco di avere dimenticato. I musei servono a questo. Amo i musei (quando non li odio).

Questo non è ciò che ho visto, ma ciò che penso che il vedere mi abbia provocato. Pro-vocato. Quando la commozione mi assale, cesso di vedere: le lacrime che mi corrono verso gli occhi me li offuscano, e il pudore, o l’ostinazione, che cerca di impedir loro di sgorgare, mi costringe a chiuderli. Chiudo gli occhi perché stanno salendo le lacrime; li chiudo per impedire che sgorghino; li chiudo se riescono ugualmente a sgorgare: in ogni caso non vedo più. Qualsiasi cosa accada, il risultato è l’impedimento a vedere, tanto che mi sorge il dubbio che non vedere sia, in ogni caso, lo scopo, il fine reale di ciò che accade. Ho visto e non reggo ciò che ho visto. Non reggo ciò che ho visto e non voglio più vedere. Non voglio più vedere perché vorrei non aver visto. Ma ora che ho visto non posso più fare a meno di vedere. Ho visto per sempre. Riapro gli occhi e lascio che la commozione prosegua il suo corso. Il suo corso è buono. Adesso voglio vedere, non mi stanco di vedere. Anzi, non posso nemmeno dire che voglio vedere: vedere è l’unica cosa che io sono.

Poi non posso fare a meno di notare il colore della parete. È luminoso, perlaceo, lattescente, e non mi sembra provenire dalla finestra; ma allora da dove viene? La risposta è semplice: viene dal gesto, e esattamente da ciò in cui il gesto consiste, versare il latte, che si riverbera su tutto rendendolo più prezioso (soprattutto il pane).

Anche Steen ritrae gesti (vedi la donna che si toglie la calza nella Toeletta), ma, appunto, e sia pure con occhio acutissimo, Steen questi gesti li ritrae: sorprende, descrive, racconta, ammicca, teatralizza, cerca il tipico, la caratterizzazione (come nel Ciarlatano o nelle scene famigliari). Esattamente tutto ciò che non intendo quando parlo di gesto assoluto (che forse sarebbe meglio chiamare atto assoluto, se “atto” non avesse troppe connotazioni filosofico-teologiche alte, da Aristotele in poi).
La “lattaia” invece non è ritratta, non è in posa, sia pure la più “realistica”, la meglio “recitata”: non c’è, davanti al pittore, un modello da ritrarre dal vero, con quello scrupolo della “somiglianza” (vedi le dispute sull’uso della camera oscura...) che per molti studiosi è l’essenza della pittura di Vermeer. Nessun modello può essere così dimentico di se stesso: per arrivare a “dare” il gesto, Vermeer ha dovuto tradire, o dimenticare, il vero che pure aveva davanti agli occhi.
La donna non (mi) guarda e non si dà a guardare: è questo che mi piace. Questa “chiusura” c’è anche in molti altri quadri: per esempio, oltre che nella Merlettaia, nella Donna in azzurro che legge una lettera e nella Ragazza che legge una lettera accanto alla finestra, che la precede ed è interessante perché, a differenza di essa, questa è riflessa dalla finestra a cui sta accanto, quasi volgendosi verso lo spettatore, aprendo un gioco di sguardi che è più dei fiamminghi che di Vermeer; anche se, osservando con attenzione, pure il volto sulla finestra sembra guardare meno lo spettatore che, ancora, la lettera che la ragazza tiene in mano. Ma è appunto questa duplicità che Vermeer esclude dai suoi quadri: le figure sono assorte, e lui non interferisce. Davanti a esse egli si eclissa, di solito; è distaccato, si direbbe; ma, come dice benissimo Gowing, questo «distacco si rivela come una forma d’amore»: l’amore che lascia che il mondo sia come è, che non ha bisogno di afferrare né di intervenire. È la pienezza che le cose comunicano col loro semplice esserci.

Se qualcuno avesse visto Vermeer dipingere, certo non avrebbe scorto nessuna differenza con l’atteggiamento delle figure dei suoi quadri. E infatti il gesto assoluto che il pittore ci mostra è lo stesso che egli compie mostrandocelo.

A proposito dell’agire assoluto in un contesto quotidiano e elementare, mi viene in mente una poesia di P’ang-yün che talvolta do come traccia di tema ai miei studenti:

Quale soprannaturale meraviglia,
E che miracolo è questo!
Io tiro acqua dal pozzo, e porto la legna!

Ma appena la rammento mi appare inadeguata. È P’ang-yün a provare questa meraviglia, sono io che la leggo, non la donna che versa il latte; in ciò che essa fa non c’è spazio, come non c’è bisogno, per l’autocoscienza di chi si vede compiere qualcosa e d’un tratto ne gioisce, colto dalla sorpresa di un’illuminazione in cui una serie di azioni, banali nella loro quotidianità e in questo elementari quanto essenziali, si rivela nella concatenazione armonica degli istanti: lei è questa concatenazione, e insieme è il perfetto isolamento di ciò che non ha bisogno di nient’altro, perché si basta, è perfetta, nel suo essere ciò che è nell’istante in cui lo è.

Un gesto assoluto è questo. Ma “gesto assoluto” è solo una formula. Si trattava di vedere, per me, al di là della soddisfazione momentanea che mi procurava l’averla trovata e che in un certo senso già mi forniva un’accettabile spiegazione della mia commozione (come se spiegare bastasse), se mi poteva aiutare a scoprire dell’altro, se c’era.
Di solito le formule soddisfano solo i superficiali. A me piacciono le formule, talvolta. Ma non le uso. Stavolta sì. Io sono superficiale, spesso. Non stavolta.

La donna non mi è vicina, non mi guarda, non sa di essere vista: sembrerebbe dunque distante; dirò di più: essa presuppone non tanto il suo non essere vista quanto l’assenza del vedere nella sua stessa pensabilità. È questa la sua riuscita paradossale: solo un voyeur nascosto la potrebbe vedere così, ma l’intimità che egli scopre non ha niente da nascondere, e quindi nemmeno niente da esibire, così che l’atto del sorprendere, l’intenzionalità del vedere tipica del voyeur, viene negato. Quel che resta è un vedere puro, a sua volta assoluto, senza soggetto. Il gesto assoluto può essere visto solo da uno sguardo assoluto.

Ciò che la donna compie non è subordinato o funzionale alla cosa da fare, anche se non potrebbe essere quel gesto, proprio quello, senza che, non qualcosa, ma quella cosa, proprio quella, sia fatta.
La concentrazione sul fare non è l’indifferenza verso il risultato, è anzi l’espressione del massimo rispetto che in ogni istante gli è dovuto; e proprio perché gli è dovuto il massimo rispetto, non lo si deve “servire”. Non gli è dovuta nessuna subordinazione: io non mi sacrifico all’opera, che sarebbe quindi la giustificazione di un sacrificio che a sua volta la giustificherebbe; nessun oggetto vale anche il minimo sacrificio se, nel momento in cui effettuo la serie di gesti al cui termine esso è realizzato, ognuno di essi non basta a sé. Ognuno è se stesso e basta, ed è compiuto perché non può fare a meno di essere compiuto nel modo esatto in cui lo è; nessuna giustificazione a posteriori, così come nessun progetto a priori, lo potrebbe salvare se non si salva già da sé in ogni momento del suo compiersi. Non è finalizzato a nient’altro che a sé, fosse pure quest’altro l’illuminazione, la trascendenza o la salvezza (e tantomeno l’autonomia dell’opera, la sua divinizzazione o il suo essere fine in sé: stiamo freschi...).
In ogni cosa che faccio deve essere contenuta la perfezione, non solo del gesto che la fa, ma anche dell’attitudine, o dell’impulso, che mi ha spinto a farla. La perfezione della cosa fatta le deriva non tanto dalla sua compiutezza, quanto piuttosto dal suo reiterare all’infinito la perfezione del fare, del gesto che fa. La lattaia non rappresenta un, o il, gesto assoluto: lo è; e lo è solo nella misura in cui quello che vedo nelle immagini e nei colori di cui consiste, nell’assolutezza del gesto da lei compiuto, è l’assolutezza della pittura, che a sua volta è tale solo in quanto questa pittura assoluta è l’assoluto di ogni gesto compiuto da Vermeer.
L’opera non ha bisogno dell’autore, è sciolta da lui (assoluta) nella misura in cui tutto l’autore è in essa nel gesto mediante il quale essa viene ad essere. Se questo gesto è perfetto, nemmeno l’autore ha bisogno dell’opera (anche lui è assoluto), ma a sua volta lo è solo in quanto l’opera c’è e non ha più bisogno di lui. Egli scompare dall’opera così come l’opera scompare da lui. Ciascuno è la sparizione dell’altro perché ciascuno è la perfezione dell’altro e, mediante tale perfezione, dall’altro si scioglie (è assoluto). E in quanto tali ciascuno di loro, senza bisogno di negare alcunché d’altro, è l’unico possibile, come l’unico quadro possibile mi è sembrato, quando l’ho visto, questo quadro, non il più bello, ma proprio l’unico, perché incarnava anche una mia ossessione (anzi, in quel momento la mia sola ossessione), facendomela (ri)scoprire nel momento stesso in cui mi indicava la strada per cercare di venirne a capo, tanto che dopo, anche se ho continuato la visita, in tutti gli altri quadri non ho fatto altro che vedere questo.
Non ho visto più niente, cioè. Ho continuato a sognare il mio sogno. Quello di sempre, perché è così che vorrei che fosse ogni cosa, ogni singola parola che scrivo nel momento in cui qualcuno la legge. Io per primo. Anche queste. Queste per prime. Ora. Ciascuna.