29/01/19

Appunti sul camminare




“Se non altro, fino alla fine non ho camminato”, vuole che sia il suo epitaffio Haruki Murakami.
Io invece non corro mai, ma cammino un paio d’ore tutti i giorni, e l’epitaffio lo aggiorno periodicamente nella mia testa senza renderlo pubblico, come un esorcismo a scadenza. E quando cammino a volte prendo appunti. Molti, rispetto alla mia abituale, sordida (o saggia), avarizia di scrittura. Sono appunti di ogni genere e misura, che vanno a zonzo come i miei passi, senza uno scopo preciso. Appunti per niente. Ne metto qui alcuni che hanno a oggetto proprio il camminare.

Penso a quelli che camminano perché non hanno un posto dove stare, che attraversano deserti, scavalcano montagne, aggirano campi minati, territori pericolosi, inospitali… Poi penso a quelli che vanno a Santiago di Compostela per fare esperienze, dire che l’hanno fatto, esibire certificati, scattare foto per un ennesimo nuovissimo reportage, o scrivere diari, corrispondenze per giornali e riviste, consolazioni o rimpianti per i se stessi futuri… o a quelli come me che ogni giorno prendono un sentiero e vanno per un paio d’ore senza destinazione, ma di fatto girando più o meno in tondo ecc. Prima era quasi solo una necessità, ora, per moltissimi, camminare è un lusso.

E essendo un lusso, sono sempre più numerosi coloro che se lo vogliono concedere, come accade per tutti i lussi, mentre in tutti i tempi e i luoghi in cui è stato o è una necessità, per non dire una costrizione, chiunque, appena possibile, ha cercato e cerca di evitarlo. Sembra che oggi spostarsi sia un corollario secondario del camminare, che appare meno come un andare da qua a là che come un’azione in sé, compiuta e autosufficiente, che si appaga di se stessa. Una specie di masturbazione, probabilmente più soddisfacente. Oppure viene vista come un’azione che ha altri scopi, fisici o spirituali, che comportano movimento senza spostamento (senza un inizio e una meta che importino), o come uno spostamento subordinato ad altro. Anche i pellegrinaggi, nei quali la fede è un optional. E se non lo è, non conta lo spostamento ma l’espiazione, il merito acquisito, la stock option sulla benevolenza della divinità, che a quanto si dice di queste piaggerie si compiace. A ognuno le sue consolazioni.

Eppure questo lusso sui generis ha il pregio di non esaurirsi nell’ostentazione e di avere tra i suoi possibili effetti un ritorno al necessario, che viene recuperato nel versante complementare del bisogno, che viene spesso taciuto ma ne è nondimeno un aspetto fondamentale: non quello della mancanza, che risorge sempre, ma quello del compimento, che per un po’ lo frena e mostra come proprio nel suo soddisfacimento risiede la molla dell’esistenza e il modello di tutte le altre soddisfazioni, cioè la loro perfezione. Le gioie dell’arbitrio e della gratuità vengono dopo.

Per questo si è spesso costretti a cercare delle riserve di cosiddetta natura incontaminata, e anzi ansiosi di farlo, bisognosi e felici, per trovare finalmente uno spazio di libertà (perché essere liberi si deve), che anzi lì viene offerta, profusa a piene mani, gratis o quasi, per celare anche a se stessi, semmai lo si sappia (ma non è detto; anzi, è detto l’opposto), che non la si ha, e che l’opportunità che viene così offerta, e conquistata restituendo al mittente ciò che si è guadagnato con la propria servitù, che della servitù non è altro che un momento, e anzi il momento che la rende più completa, totale, in quanto ne satura e sutura non solo tutte le eventuali vie di opposizione o solo di fuga, ma anche, mentre si è convinti di averle imboccate e di giulivamente percorrerle, il pensiero stesso che esistano, il bisogno stesso di trovarne, dando proprio l’idea di stare percorrendole esattamente in quel momento…

La frase di Sant’Agostino citata dal Petrarca nella lettera del Monte Ventoso, che sbuca sempre quando si toccano questi argomenti, potrebbe essere capovolta e trasformata in questo modo: “E cercano vanamente gli uomini di conoscere se stessi e trascurano il mare e i monti, il vasto mondo”.
Invece a camminare è proprio il mondo che si incontra, specie quando si esce dagli spazi urbani. Il resto, dicevo, è un beneficio secondario; non fosse che ancora prima di mettersi in cammino un diverso beneficio c’è già stato: la decisione di farlo. Di prendersi il tempo per farlo. Di mettersi con il tempo in un rapporto diverso da quello che guida la routine quotidiana.

A camminare lungo i tratturi o fuori da ogni strada, nel bosco, per i prati, in montagna, c’è il vantaggio di non dover prestare attenzione al traffico di vetture e passanti, di non dover stare sempre sul chi va là per non investire o essere investito, per evitare chi esce all’improvviso da un portone o da qualche negozio o ufficio alterato nel bene o nel male da ciò che gli è successo, o pali o cartelli o crepe o gobbe del marciapiede. Però l’attenzione, più blanda, sporadica, serve lo stesso, diretta non a ciò che hai davanti o arriva da fianco, ma a ciò che sta sotto i piedi. Così vedi la materia, la terra, e il tempo, le stagioni; se il terreno è bagnato o secco, cedevole o duro, regolare o irregolare, e quanto; se il tappeto erboso o coperto di foglie è regolare, o se spuntano sassi o ci sono buche, dislivelli improvvisi, ghiaietto scivoloso, solchi stretti e profondi. Basta uno sguardo ogni tanto, però; poi ti puoi dedicare al resto, a ciò che sta attorno o che rimugini dentro, contemplativo e meditativo in alternanza o insieme, in una mescolanza che fa la qualità del tuo umore. Non è che sei immediatamente aperto al mondo, ma ti rendi accessibile, che forse è anche meglio.
Senti odori, suoni lontani, echi, gli uccelli, gli animali, le fronde, l’acqua che precipita o scorre.
Se sei in compagnia è più facile parlare. Ma anche stare in silenzio va bene, senza doversi per forza dire banalità o informazioni utili, stare in silenzio insieme, senza ansia. E insieme fermarsi, sorpresi quando, a un certo punto, fuori da una macchia, dall’alto, appare il fiume, o il mare.

Può darsi allora che all’improvviso, senza alcuna ragione, ti prenda un insopprimibile impulso a correre e che ti accorga, prima di sentirti un perfetto cretino, di esserti spinto per qualche centinaio di metri e, nonostante un po’ di fiatone, di non trovare nessuna valida ragione, ora, per fermarti. Sentirti solo animale e non esserne affatto dispiaciuto. E così continui, finché le vecchie gambe diventano molli e il fiato manca, e fermarsi e respirare, stupito, è solo una gioia pura, dimenticata. E ritrovata per non averla cercata.

A volte invece cammino guardandomi attorno a lungo, con grande attenzione, senza cercare o aspettarmi qualcosa in particolare. Mi stanco presto però. L’attenzione senza intenzione è faticosa, deludente. Per questo non la coltivo troppo. In genere cammino guardando la strada (la terra) o il libro davanti a me, perdendoli presto o tardi di vista (il libro meno), o dando una controllata con la coda dell’occhio a eventuali ostacoli. Ogni tanto alzo la testa e trovo il mondo ancora lì. È bello alzare la testa e trovarsi nel mondo.

La mia attenzione è, di solito, fluttuante, come quella con cui lo psicanalista difende la propria integrità mentale durante le sedute, ammesso che ne sia dotato (o afflitto), cercando al contempo una via d’accesso alla mente che si suppone meno integra dell’analizzato. Non cercare niente, non aspettarsi niente. Lasciare che i sensi vadano per conto proprio e che si posino, se proprio capita, su qualsiasi cosa li attragga o si presenti al loro cospetto, e soffermarsi o meno su di loro, imboccare o meno il sentiero che aprono al pensiero, all’immaginazione, sbirciare o meno nello spiraglio che aprono, lasciarsi avvolgere o meno dall’incanto, o dalla minaccia, che ne promana. Ma anche niente. Constatare che ci sono, basta. O ancora meno. Non fermarsi nemmeno un attimo su niente e andare semplicemente avanti. Tanto qualcosa che ti sorprende arriverà da solo, se dovrà arrivare. A volte non c’è nemmeno bisogno di dargli un nome. A volte già il riconoscimento basta. Percepisci qualcosa, lo riconosci, o ti sembra di riconoscerlo, e lo adatti a una forma che sai, cerchi il suo nome. Onda. Schiuma. Airone in volo. Canto del merlo. Verso della taccola. Ontano. Rosa canina. Profumo di acacia. Gelso. Sambuco. Rovo. Spina. Muro. Solco. Fragola selvatica. Uva turca. Vento. Già la nominazione colma.
Si capisce la gioia di Adamo nell’attribuire un nome. Ma forse ancora maggiore è stata quella di Eva, nel ripeterlo e confermarlo.
“Cane!”, disse Adamo esultando.
“Sì, cane”, ha ribadito Eva. Ed è stata la sua conferma, la sua ripetizione, a far essere ciò che era stato nominato. E a dare realtà al nome stesso.
“Albero! Serpente! Mela! Cielo!”
“Albero, serpente, mela”, ha ripetuto Eva, con un cenno di assenso, allungando la mano per cogliere il frutto più vicino.
E sarà che era ancora un po’ affannata, o che il gesto di assenso del capo abbia prodotto spontaneamente un suono, o che a produrlo sia stato il piccolo sforzo di allungare la mano verso il ramo carico di frutti: “Sì, mela”, è sfuggito dalle labbra di Eva, mentre sorrideva a sua volta. E quel suono è stato “Sì”. E secondo me è stato proprio così che è nato il linguaggio. Sì.

Camminare è pensare con i piedi. Pensare con i piedi in genere gode di pessima fama. Lo si dice spregiativamente di qualcosa che non tiene, abborracciato, rozzo, progettato male (fatto con i piedi ha la stessa connotazione, a parte certi sport).
Se però partiamo dall’assunto che ogni gesto, percezione o sensazione che, per piccoli che siano, nel farsi esperienza sono già pensiero, conoscenza, allora poco è paragonabile al pensare con i piedi…
Uno che cammina è uno che pensa alla lettera con i piedi: la testa segue, come pure il resto del corpo, e mai il pensiero è così saldo e capace di elevarsi. Non scende mai, e sale senza tema di perdere l’equilibrio e di cadere. Pensare con i piedi è una delle cose più originarie e migliori che uno possa fare.

A volte camminando ci si annoia. È raro ma capita. L’estasi non è moneta corrente. Ma credo che non ci si debba per questo affannare a scacciare la noia. Meglio accoglierla, lasciare che ci pervada, che prenda possesso di noi anche a rischio di schiantarci. A parte che, tanto, prima o poi volente o nolente ti cattura, e fa quel che le pare… Anche la noia può essere un’opportunità. Come è noto, la noia spoglia le cose dei loro abiti e scopi e belletti, e le mostra mostra in tutta la loro nudità, che può essere anche molto sgradevole: nella loro cruda nudità, dice chi le spregia (le cose e la nudità), cosa che io non condivido. Come dubito che ci sia una pura, cruda o cotta, nudità. Ma sia. È da quelle parti che conduce la noia. Toglie i veli. Azzera le illusioni (a parte l’illusione dell’azzeramento). Fa piazza pulita, tabula rasa. Ma una volta terminata questa operazione igienica, una volta spazzato via tutto, non è vero che non resta niente: restano la piazza, la tavola, e proprio da lì si può (ri)cominciare.

Altre volte ti accorgi di aver percorso un buon tratto di strada senza aver notato niente, come di ritorno da una lontananza in cui ignoravi di esserti inoltrato, o di essere già nei pressi del luogo dove pensavi di arrivare senza ricordare di aver percorso un tragitto così lungo, portato solo dai tuoi passi, leggeri, incorporei, come se il tempo si fosse tirato in disparte, cancellato, o ristretto, condensato, ma senza peso. Che è il contrario della percezione dell’istante, di quell’esser presenti a se stessi e al mondo momento dopo momento che talvolta il camminare produce, e che anzi molti cercano espressamente, alcuni addirittura adottando tecniche specifiche di “meditazione camminata”, alla ricerca di qualche fugace accesso all’incanto, che poi con gli anni acquisirà lo statuto di illuminazione. Di satori! Perché no? Può anche capitare di incapparvi, a volte. Magari per autosuggestione. A qualcuno può bastare.

 Cominci a camminare e prima o poi incappi nel misticismo e nel lirismo (stavo per scrivere “cadi”). Fusione, afflato, trasporto, empatia, pienezza, vuoto, serenità, quiete, quella roba lì. Cercherò di farne a meno, ma è difficile evitarlo, perché la felicità (come la fatica e il dolore) vi approda sempre, in un modo o nell’altro, per poco o tanto che sia. È il loro portato, che veicolano non come risultato, ma come loro componente ineliminabile, connaturata. La loro condanna.

Molto bene. E ora passiamo ad altro.

Può darsi che questo dipenda dal fatto che camminare su due piedi ha a che fare con le origini della nostra specie. E non appena entrano in ballo le origini, è noto, si entra in un terreno minato. Non importa in che misura, sotto che forma o per quanto tempo: quello di cui si può essere certi è che prima o poi il dono arriva. Soprattutto se non c’è urgenza di andare da qualche parte o di fare qualcosa entro un dato termine ravvicinato e pressante. Un po’ di tempo però è sempre necessario, anche se a volte ne basta pochissimo. Ma quello è roba per gli ipersensibili. Gente straordinaria, a modo suo, che nessuno vorrebbe essere però. Il più o il meno, di tempo intendo, sono relativi. Come l’importanza attribuita alla meta. Ma anche al cammino stesso, che non conviene caricare di aspettative. Come tutto, del resto, o quasi.

Una delle frasi che i camminatori ripetono più spesso, soprattutto quelli che scrivono anche, o i chiacchieroni in vena di teorie, è che “più della meta, ciò che conta è il percorso”, o il cammino. Non è vero. Non sempre perlomeno. E senza che questo svilisca il camminare. Che non è mai vile, nonostante a volte si vorrebbe poterne fare a meno. Durante le marce forzate, per esempio. O quando si è stati abbandonati nel deserto o in qualche altro luogo bellissimo, magari, ma inospitale. O per lavoro. La meta conta sempre, fosse pure per via negativa, o implicita; consistesse pure nel non avere una destinazione o uno scopo definito. A volte addirittura conta più del cammino, pur senza pregiudicarne le qualità né la sostanza. In certe occasioni sembra eliderlo, cancellarlo, ridurlo a poco o nulla, ma non è così. Come ci arrivi e quanto ci metti conta sempre, anche se mentre si cammina si può arrivare a dimenticarlo. Ho usato “arrivare” a ragion veduta. Per quanto alcuni insistano nell’immedesimazione, o sul fatto di essere nel puro presente, di essere il puro presente, indistinti da esso, e nell’indistinzione di tutto, dove però ogni cosa conserva la propria singolarità eccetera, camminare è sempre da qui a lì. Un passo e un altro passo. Movimento, spazio prima che tempo. Spazio che domina sul tempo, una volta tanto. Fuori dal tempo, magari, come nell’estasi, come afferma chi l’ha provata, ma nello spazio. Se no si è fermi. E se si è fermi non si cammina.

In rari casi, invece di andare da qualche parte, viene l’impulso di provare a perdersi, a spaesarsi, a essere nello spazio non come in una dimora né come in una prigione, ma come una possibilità e un pericolo. L’una e l’altro insieme. Niente fusione, niente idilli, ritorno all’originario, liberazione, sgravio, eden e compagnia bella. Essere nello spazio come ciò che contiene spazio per ogni cosa e essere e eventualità. Senza orientamento. Prima che orientamento possa darsi. Gioia ma anche noia, vitalità senza termini, e minaccia e angoscia senza sbocco. Anche se in genere per noi, oggi, a parte casi estremi, rarissimi, eccetto che nei film, dove stanno di casa, c’è quasi sempre l’orizzonte rassicurante della reperibilità, la certezza del ritrovamento: dell’oppressione claustrofobica della sorveglianza, del controllo che non lascia margine alla solitudine, e che però, qui, si rovescia in sicurezza, in opzione aperta di salvezza, di dimora. Portiamo la domesticazione con noi. Dentro di noi. La domesticazione, che è sicurezza, ci nutre, ci abita, e ci divora, come un tumore.

Bisogna provare a smantellarla. Viaggiare è un modo. E viaggiare a piedi è il modo migliore. Come dice Nicolas Bouvier, citato da Sylvain Tesson, “Se non si concede al viaggio il diritto di distruggerci un po’, tanto vale restare a casa.”
Niente vieta di farlo. O di tornarci, dopo essere andati via. O di fare una casa del luogo dove ci si ferma.

E poi, la sera, a volte, raccontare.





Questi sono alcuni dei testi che ho letto per preparare questo articolo e che mi sento di consigliare:

-       AA: VV. , Racconti sul camminare,…..
-       Thomas Bernhard, Camminare, trad. it. Giovanna Agabio, Adelphi, 2018
-       David Le Breton, Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza, 2012; trad. it. Cristina Nicosia, edizioni del cammino, 2015
-       David Le Breton, Il mondo a piedi. Elogio della marcia, 2000, trad. it. Ester Dornetti, Feltrinelli, 2001
-       Carlo Sini, Il gioco del silenzio, Mimesis, 2013
-       Marc Lestal, Kin-Hin. Meditare camminando, trad. it. Claudine Turla, Vallardi, 2018
-       Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, trad. it. Sara Culeddu, Einaudi, 2018
-       Erling Kagge, Il silenzio. Uno spazio dell’anima, trad. it. Maria Teresa Cattaneo, Einaudi, 2017
-       Haruki Murakami, L’arte di correre, trad. it. A Pastore, Einaudi, 2009
-       Davide Sapienza, Camminando, Feltrinelli
-       Sylvain Tesson, Sentieri neri, trad. it. Roberta Ferrara, Sellerio, 2018
-       Rebecca Solnit, Storia del camminare, trad. it. di Gabriella Angrati e Maria Letizia Magini, Ponte alle grazie, 2018
-       Ce ne sono altri, ma non ho voglia di recuperare i dati



22/01/19

La morte eroica (Achilleide - parerga 1)



e pensavo, leggendo sulla "bella morte", la "morte eroica", tanto esaltata, certo a ragione, fin dai tempi antichi, e riproposta di recente in salse meno nobili, più ridicole, ma tragiche e ridicole insieme, se si assommano vari punti di vista, non tutti disprezzabili (ma alcuni sì), che sì, è vero, la morte dell'eroe disegna a ritroso come un destino rispetto alla sua vita, quale essa sia stata, non sempre ammirevole, come ogni morte in fin dei conti il sigillo di un destino, sempre a posteriori, lo mette alla vita di chiunque, anche di quegli anti eroi ignoti che muoiono per gli altri, con i resti dispersi, mai sepolti, senza celebrazioni né private né pubbliche, senza onori, senza niente se non il buio per sempre dell'oblio senza nome, del vuoto... e mi è venuto in mente che per me, già eroica è ogni nascita, tutte le sacrosante nascite che arrivano sulla terra, a volte senza seguito, e più spesso con un seguito che non tocca nessuno, che è lo stesso che ci sia o no, e ciononostante, per ciascuno che continua a vivere, prima di cadere nel senza onore della banalità e delle meschinità e delle piccolezze e delle codardie e dei rancori, e forse persino in esse, quella scintilla si conserva ancora e la luce della gloria, visibile o invisibile che sia, magari affievolita, trattenuta sul limite dello spegnimento senza oltrepassarlo, attorno gli brilla sempre, senza spegnersi mai.

e pensavo anche che se dal punto di vista civico una bella morte, cioè una morte “utile” alla comunità, cambia il senso della vita che l’ha preceduta, non è vero che questa lo cambi rispetto, per esempio, a chi ha subito ingiustizie o violenza o oppressione o abusi di qualsiasi natura: il male resta il male, niente lo redime, nessun finale roseo lo cancella o lo cambia di segno; oppure, se si cambia prospettiva, la morte è quello che è, la vita è quella che è, ogni cosa è quella che è, il male non esiste, se qualcuno soffre per qualsiasi motivo, è solo una sensazione personale, un evento o una serie di eventi, grandi e piccoli che toccano solo lui e quelli come lui, come altri eventi toccano un altro o altri come lui, quando cominciano cominciano, quando finiscono finiscono, poi ne arrivano altri, che sono loro pure come sono, e loro pure prima o poi se ne vanno, spariscono, lasciano qualche traccia in qualcuno o in molti, poi, più presto che tardi, più niente e così via.


19/01/19

Achille muore (Achilleide - appunti 3).


Togli la poesia e il sapere antico e questo è quello che rimane. Storie nude, semplificate, viste da lontano. Da un fuori che ignora, e che si ignora. Che ignora di essere un fuori e ignora che cosa mai esso stesso sia, da dove parla e in base a cosa. Ironico e saccente, eppure forse con una capacità di poesia esso pure. Dall’incanto che nasce proprio dall’ignoranza di se stesso. Dal proprio punto cieco. Dove uno pensa di essere nella luce della piena comprensione sfrondata di tutti gli orpelli e non vede il buio su cui poggia, lì comincia a parlare. In quel luogo ignorato, senza corpo e definizione, lì comincia a aver luogo la sua parola. Il che significa che chi in-canta è sempre cieco. E’ sempre Omero. Tutta roba risaputa. Scontata, e quindi a sua volta poco vista, presto dimenticata.

Non si hanno molte notizie delle ultime parole di Achille. Se mai quell’uomo di grandi emozioni e poche parole, belluino, di grida pianti e urla, qualcosa ha detto. La sua morte fu narrata a posteriori, per sentito dire. Inventata, e solo da lì descritta. Il tallone trapassato dalla freccia è lo stesso a cui si narra che sia stato appeso, infilzato, dal pastore che avrebbe dovuto ucciderlo il piccolo Edipo, che da lì ne avrebbe derivato la zoppia? Esiste una storia comparata del tallone? O era il tendine? 

E’ probabile che quando fu colpito, Achille ammutolì dallo stupore di veder realizzata una profezia a cui non aveva mai creduto. E che anzi aveva apertamente sfidato lasciando proprio quell'unica parte del corpo scoperta, non protetta dall’armatura.
Altri dicono che non morì in quel modo stupido, ma in un altro più stupido ancora, perché simile a quello di tutti. Allora, di fronte a questa a suo modo sconvolgente banalità, qualcuno inventò la storia dell’immersione nello Stige e dell’invulnerabilità, e poi della profezia e del suo compimento. E poiché a noi piacciono le storie, e gli eroi non possono essere banali, ricordiamo solo quella.


C’è anche chi dice, però, che Achille, come Elena che avrebbe passato il tempo della guerra di Troia nascosta in Egitto, non si sia mai allontanato dal gineceo dove era piacevolmente nascosto. Dicono infatti che all’arrivo di Ulisse preceduto dalla sua fama di imbroglione matricolato, Teti abbia consigliato il figlio di prendersi una vacanza e abbia messo al suo posto nel gineceo un giovane cortigiano felicissimo dell’occasione propostagli. Sarebbe stato costui, opportunamente istruito e convinto da molte belle promesse e da una sola, ma decisiva, minaccia, a farsi “scoprire” come Achille, partendo poi verso Troia con il furbo gabbato, come è normale che prima o poi siano tutti i furbi, dove per tenere alto il nome usurpato e meritarsi tutti i conseguenti onori, si sarebbe comportato come tutti si aspettavano dall’Achille vero, uccidendo e morendo al suo posto, mentre questi avrebbe passato tutta la sua vita negli agi di corte fino a tardissima età, mai sazio delle gioie della vita, eroe della felicità.
Non manca nemmeno chi sussurra che, grazie alla madre e alla speciale benevolenza che con le sue attrattive si sarebbe guadagnata dal padre degli dei, egli vive ancora, spostandosi di qua e di là tra i suoi possedimenti, mondani eterei e marini, annoiando immancabilmente i suoi ospiti, a ciascuno degli innumerevoli banchetti a cui sono cooptati perché odia cenare da solo, raccontando con sempre nuovi dettagli le imprese che quell’altro ha compiuto per conto suo in gioventù e che le leggende che ne sono nate non hanno fatto che moltiplicare e amplificare, germogliando in innumerevoli meravigliosi canti che alla fine hanno giustificato la morte di quell’altro anonimo poveraccio e la sua vita di infinito scioperato.
Nonché la nostra di avidi mangiatori di storie.

Dicono anche che il nostro eroe viva per sempre su un’isola alle foci di un grande fiume (l’Isola Bianca alle foci del Danubio, ma non stiamo a sottilizzare), in compagnia della sposa che non aveva fatto in tempo ad avere subito, essendo giunto in ritardo al convegno dei pretendenti: la più bella delle donne come lui era il più gagliardo e appetibile degli uomini, Elena, che alla fine lo raggiunge per non separarsi più da lui, finché la morte non li separerà (almeno stavolta, si spera…): morte da cui gli dei li avranno peraltro dispensati, non si sa se per infinita benevolenza o per infinità, duplice, perfidia.




16/01/19

Italo, un romanzo di Marco Belpoliti (1996)


Italo, terza opera narrativa di Marco Belpoliti, si presenta come un memoriale che ripercorre la vita del protagonista dalla nascita, avvenuta il giorno stesso della prima emissione televisiva in Italia, il 3 gennaio 1954, alla dissoluzione del paese che il suo nome richiama. In realtà l’arco di tempo coperto dalla narrazione è un po’ più ampio, perché va dal 1945, anno in cui il primo presunto padre di Italo, un maestro ex-partigiano, si eclissa accollandosi l’omicidio di un prete commesso da due suoi compagni, al 2010, quando il narratore si trova confinato in un non meglio identificato “paese del Nord”. Come suggeriscono le date, la storia di Italo viene a intrecciarsi a quella dell’Italia, grazie anche ai suoi numerosi padri (oltre al maestro, un agente dei servizi segreti e un onorevole democristiano), agli amori della madre Romea Monticon (da ultimo con un ex-carmelitano[1]), alle avventure dello zio Nello dagli ambienti degli ex-partigiani al terrorismo, e al suo matrimonio con la figlia di un magnate televisivo, il dottor Berlicche, che diventerà il primo presidente del Nord dopo la divisione del paese. È quindi una storia doppia, come doppia è la temporalità della narrazione, che alterna il presente della segregazione e della scrittura al passato della memoria e della storia.
Questa duplicità, e doppiezza, costituisce una spia che, caratterizzando la narrazione, suggerisce anche una doppia lettura, al di là della patina di scorrevolezza in apparenza un po’ strampalata che cattura ad un primo approccio l’attenzione e della forte dose di riferimenti concreti che ad ogni momento sembrano convogliare su di sé tutto il senso, e la verità, delle vicende anche più improbabili, dal punto di vista diegetico se non storico. Non è quindi un caso se proprio all’insegna del falso si apre il libro: falso è infatti il primo francobollo descritto, Testa d’uomo irretita dal volo di una mosca non-euclidea, primo della serie di 36 francobolli che campeggiano sotto il titolo di 35 dei 50 capitoli in cui è diviso il romanzo (un capitolo ne ha due: l’ultimo). Di essi solo un altro è falso, e un terzo di falso ha solo il timbro.
Dunque, il primo è falso, ma esprime, meglio di ogni francobollo vero, la verità (presunta) della condizione del narratore-protagonista. L’intreccio di verità e finzione (menzogna), — la seconda per portare alla luce la prima, la prima come elemento della seconda —, è quindi la prima cosa da tenere in considerazione. La seconda è che nessuna di esse può pretendere di scalzare l’altra: ognuna di esse è (almeno) doppia, come due sono i francobolli dell’ultimo capitolo.
Tale duplicità della scrittura e della lettura si riscontra anche a livello tematico: infatti proprio il tema del doppio, e del doppio che si raddoppia a sua volta, è uno dei pilastri portanti della narrazione. Doppia è infatti la (prima) nascita (ma quattro i padri); due sono i fratelli (Romea ha un altro figlio dall’ex-carmelitano); studioso di gemelli è Gerra (Gedda), il fondatore dei comitati civici antidivorzisti per il quale Italo lavora e che poi lo curerà in clinica dopo il suo crollo psicofisico; e soprattutto Italo ripete la vicenda del padre generando un figlio che non lo conoscerà mai (anche lui è all’«estero»), e duplica la propria vita raccontandola (inventandola).

La narrazione si articola lungo quattro filoni o livelli principali: la storia di Italo; i francobolli e la loro descrizione; la storia dell’Italia e il presente della narrazione. Quest’ultimo contempla la presenza di una donna, una nera di nome Maria che fa da nutrice-amante-carceriera, che ad un certo punto per un po’ sparisce facendosi sostituire da Santina (altro doppio; serva-padrona, madre-amante, vergine-puttana, entrambe sante, almeno un po’: Santina, appunto, e Maria, quasi anagramma di Romea: Roma, e che a Roma ci va, sposa dell’onorevole Settoni, detto la Cimice). Maria funge anche da lettore quanto mai esplicito, innescando con le sue reazioni i commenti e le giustificazioni del disinvolto memorialista, e quindi la nuova duplicità di una metanarrazione affettuosa e divertita ma non per questo meno sottile.
Il diverso intreccio dei quattro livelli costituisce la forma di Italo, romanzo che in continuazione si forma e si (auto)dissolve (come del resto ciò che viene raccontato: eventi, storia piccola e grande ecc.). L’impossibilità di una forma (tradizionale), cioè di una narrazione strutturata se non continua, dà luogo a un susseguirsi di forme che non approdano a nessuna stabilità (et pour cause), senza tuttavia comportare la rinuncia a cercarne, sempre di nuovo, una, che allora non può che essere mutevole, fluida e, in una certa misura, “esterna”, oltre che interna.
Con “esterna” intendo l’incidenza continua (o il riferimento pur nell’assenza) della “storia” — che è certa (i “fatti”), anche quando viene messa in discussione, o ricostruita (come un puzzle) o inseguita nella sua aleatorietà e evanescenza con l’improbabile retino da farfalle che le vicende personali di volta in volta forniscono. Tutto però perde forma, cade continuamente nell’informe, a cominciare dalla vita di Italo per finire con l’unità dell’Italia (ma altri eventi simili, sia pure lasciati nel vago, vengono suggeriti anche per il mondo...[2]).
Alla fine al narratore sembra non restare altro che la via di salvezza individuale: prima in un istituto steineriano dopo il crollo psicofisico e infine con la scrittura (la forma “interna”). Che però non sono una liberazione, ma un’altra prigionia, come si evince dagli ultimi capitoli: la segregazione di Italo diventa sempre più stretta; alla fine non esce (non può più uscire) dalla torre, secondo ventre materno dove avviene la sua seconda nascita, però stavolta iniziata nella, o dalla, prospettiva della fine: quella personale (la conclamata vecchiaia, quando nel 2010 ha solo 56 anni) oltre che quella storica.
Già la prima nascita era stata doppia: infatti, il 3 gennaio 1954 c’è la quella fisica da Romea e padre per il momento ignoto (il maestro Boschi, assente), ma anche quella dalla televisione alle cui onde Italo viene esposto dallo zio Nello. In questo senso andrebbe allora interpretato il biglietto in cui lo zio afferma di essere il suo vero padre. Il biglietto viene invece inteso da Italo come pura cattiveria, strana forma di vendetta da parte dello zio, e per il resto non ha seguito nella trama, ma conviene notare che è inviato quando lo zio è in prigione per terrorismo e Italo lavora per Berlicche, — che è la televisione, appunto, e un nuovo padre (in qualche modo putativo, come lo zio, del quale riprende il filo televisivo), che gli dà in sposa Giada, la figlia.

Italo conquista Giada completando al primo colpo d’occhio un puzzle del quale lei, campionessa di questo gioco, non riusciva a venire a capo. Il puzzle da una parte, e il caos, la confusione dall’altra allora? Non direi: Italo risolve il puzzle ma non riesce a organizzare il caos (la mosca non-euclidea che gli ronza attorno alla testa, e dentro). Infatti il puzzle è riorganizzazione non del caos, ma di un ordine (fittizio) già fittiziamente scomposto per poter poi dare l’impressione a chi lo risolve di controllare la confusione, di saper trovare parentele nelle differenze e differenze nelle somiglianze, aggirando le forme ingannevoli delle tessere per incastrarle a formarne una vera che riproduce un altro, esterno, modello, che come tale è già ordinato secondo apparente verosimiglianza. Italo non può organizzare nessun caos finché non risolve almeno in parte quello che porta in sé; ma una volta iniziato a risolvere questo (la clinica), non può continuare se non trova anche qualcosa all’esterno, ma che con la sua storia è legato, che gli fornisca un qualche appiglio per mettersi all’opera (la scrittura).
Ed è proprio questa la prima funzione dei francobolli, la cui raccolta accompagna la sua vita: il primo lo compra lo zio alla sua nascita, per celebrarla, e, guarda un po’, è quello che celebra la nascita della televisione. Contrariamente alle tessere del puzzle, i francobolli sono emblemi, sottili perché all’apparenza fin troppo diretti e espliciti, della storia di Italo e insieme di quella dell’Italia; ideologicamente trasparenti, e stereotipati, vengono complicati, e rivificati, da Italo che in essi trova scandita la propria vita, un modo per dare concretezza, nome e immagine, ad una realtà individuale (esperienza) altrimenti sfuggente, innominabile o difficilmente indicabile proprio a causa della sua individualità (e, in più di un senso, singolarità). Senza modello quindi. Il pericolo era che tale individualità, appunto in ragione della sua singolarità, diventasse in qualche modo (poco o tanto) emblematica, nel senso ristretto della parola, con conseguente morte della narrazione e appiattimento del personaggio[3], ma è appunto questo che Belpoliti intende evitare ricorrendo ai francobolli, alla stratificazione di sensi che la loro presunta immediatezza riceve dalla storia di Italo, alla loro stessa assenza in vari capitoli, alla non linearità del loro ruolo e valore, che già i loro bordi frastagliati suggeriscono.

La loro lettura assomiglia a quella che viene fatta della “storia”, qualificata tramite microeventi all’apparenza secondari più che con i fatti o i personaggi salienti del momento (che del resto vengono poi dimenticati più o meno in fretta, meglio ancora quando assurti a stereotipati capisaldi): si veda per esempio la fondazione del primo American Conturella a Milano nel (e per il) ‘68[4]. Dal palcoscenico dei grandi eventi non a caso Italo è assente[5]: nel ‘68 è in collegio, e per lui l’evento più importante è la scoperta, contemporanea di quella della letteratura, del sesso (altro filo rosso del libro, in cui la presenza della corporalità, anche sotto forma di cibo, è continua e molto variegata); mentre nell’89 e negli anni della dissoluzione dell’Italia è nella clinica psichiatrica prima e nell’istituto steineriano poi. Del resto anche i cosiddetti grandi personaggi sono a loro volta già “abbassati” mediante l’uso di soprannomi, perifrasi allusive, “denominazioni variamente metaforiche e antonomastiche” (M. Barenghi, l’Unità, 1996), che talvolta emettono, oggi ancor più che allora, stridori che a me suonano sgradevoli, in quanto non posso fare a meno di imparentarli con la cosa che, già sgradevole di per sé, più mi respinge in letteratura (come surrogato della letteratura): la satira politica (volevo aggiungere “spicciola”, ma quanti sono i casi in cui non lo è? La satira politica, di solito, è il surrogato più comodo dell’intelligenza, e quindi il peggiore). Questi personaggi inoltre non sono meno evanescenti di Italo, essi pure “a rimorchio degli avvenimenti” di cui credono di essere i manovratori, quando non addirittura i suscitatori. Se tuttavia l’astuzia della storia finisce per burlarsi della loro supponenza, neanch’essa poi sarà tanto astuta: infatti altri della stessa risma prenderanno il loro posto, per essere di nuovo burlati a loro volta. Ma è una ben magra consolazione per chi sopravvive ai primi doversi sorbire i loro successori replicanti, così come è una ben magra astuzia quella che non sa che riprodurre sempre lo stesso, povero gioco.

La moltiplicazione di microeventi e episodi marginali, oggetti e segnali, personaggi noti e dimenticati, sembra collocare sotto il segno di ciò che in passato veniva chiamato “enciclopedia” anche questo romanzo, come del resto tutto il lavoro di Belpoliti: dai saggi ai testi narrativi, al modo stesso in cui egli organizza anche le recensioni a prima vista più ancorate all’attualità e i racconti che non di rado si presentano come invenzioni particolari a partire da spunti minimi, per non dire occasionali.
Tuttavia tale termine non sarebbe pertinente, almeno se inteso in senso classico; per capire che inclinazione (o piega) esso prende in Belpoliti, è utile collegarlo col punto di partenza sia di questo romanzo che del precedente Quanto basta (Rusconi, 1989), che in entrambi, più che la rottura di un equilibrio, come nel romanzo classico, è la rottura di tutti gli equilibri, e si direbbe l’esclusione della possibilità stessa di un equilibrio qualsiasi, cioè la fine. Una fine totale, definitiva, che nondimeno lascia un sia pur precario residuo (debole, stupido, espulso) — come dire: ciò che nessuno degli equilibri precedenti contemplava, o tollerava, come proprio e pertinente elemento, anche solo con funzione di contraddizione, o di opposizione —, che però si ostina a vivere e per far questo deve tentare di organizzare le macerie, gli altri resti che trova attorno o dentro di sé (comunque, e già in questo suo, loro disporsi, un mondo).
La logica (la razionalità) che prima organizzava le cose e i saperi è stata dissolta (andata a sua volta in frantumi, cancellata senza resti che possano ancora dirsi i suoi, vale a dire che possano restituirle una vita attraverso la loro appartenenza residuale), e quindi non c’è più modo di mettere alcunché in cerchio, di sistemare; l’oggetto non è più il mondo, per mezzo del sapere, bensì ciò che di un sapere che non è più tale resta, ma che comunque si deve cercare di mettere insieme, come una rete da tessere pian piano, e senza alcuna arte già pronta per l’uso.
Non c’è mondo, per quanto la sua corposità (e corporeità) urti e debordi da ogni forma e veste, bensì merci, prodotti sempre culturali di cui però si è perso tanto il produttore quanto le circostanze della produzione, per non dire il legame con un bisogno qualsivoglia.
Viene da qui quel senso insieme di penuria e di sovrabbondanza, di impossibilità di una forma e di bisogno di ragione (a sua volta sdoppiata in razionalismo che si contraddice per eccesso, e di accostamenti apparentemente arbitrari che diventano analisi); insomma quella necessità di uno sguardo complesso e mobile, senza il quale si impoverirebbe anche l’esperienza della nostra lettura, prima ancora di equivocare sulla forma e sulla scrittura del romanzo stesso.

Per questo leggere Italo principalmente come una ricostruzione (sia pure grottesca ecc.) degli ultimi cinquant’anni della nostra storia (oltre che una previsione, altrettanto grottesca ecc., ma non per questo meno orribile, di ciò che l’immediato futuro, rispetto a quando il romanzo è stato scritto — prima che il cavaliere scendesse in giostra armato delle sue temibili antenne, come un nuovo Mandricardo —, ci ha purtroppo in parte già riservato), sarebbe a mio avviso tanto corretto quanto limitativo. E così pure interpretarlo come un’indagine sul carattere degli italiani. Se infatti per la storia d’Italia qualche linea direttrice è comunque possibile individuare, il carattere degli italiani, ammesso che un’astrazione del genere sia plausibile, appare tanto informe da risultare, dell’informe, un eccellente paradigma (anche se scriverne evitando eccessive semplificazioni, proprio perché appare come un’impresa assurda, da megalomane, è quanto di meglio può tentare l’ambizione di un romanziere). Ma scrivere equivale a trovare una forma, e ogni forma, come più o meno tutto, dà quanto prende, aggiunge nella misura in cui limita: tanto più una forma fissa, solida, che in genere deriva da, o finisce per manifestare, un presupposto di essenzialità, se non di completezza. Occorre quindi trovare una forma che insieme tenga unito ma sia mobile, suscettibile, di aperture, divagazioni, passaggi da un livello all’altro del discorso, e insieme capace di catturare quante più cose (quanti più linguaggi) possibile. Porre dei vincoli, qui, anziché soffocare, allarga il respiro. È questa l’altra funzione dei francobolli (la funzione che i francobolli rivestono per la storia d’Italia in Belpoliti). I francobolli costituiscono della storia d’Italia una forma interna tanto più solida e rivelatrice in quanto involontaria, sintomi e simboli che mentre mostrano ciò che di sé essa vuole mostrare, rivelano ciò che invece è senza saperlo. Capovolto, l’ottativo diventa il più efficace indicativo, il desiderio — diagnosi, l’ideale — descrizione. Ma sarebbe un giochetto fin troppo facile e schematico. Perché i francobolli possano avere una qualche efficacia simbolica e narrativa, come già detto, devono perdere il loro statuto generico e individualizzarsi e legarsi ad una storia, non come semplice etichetta, ma come lente, di volta in volta piana concava e convessa, che specchia, cattura e rifrange, deforma e ingrandisce, o apparentemente restituisce fedele, le immagini attraverso cui un singolo legge, scopre e costruisce la propria, di storia.

È in questa prospettiva che va intesa l’adozione della finzione autobiografica in Belpoliti. Ad Adamo Vir, il narratore di Quanto basta, faceva difetto “la prima persona singolare” (ma poi finiva per parlare sempre in prima persona); Italo invece (forse perché è un individuo che non è veramente tale) ne trabocca (e forse finisce per parlare più degli altri che di sé): altra non-coincidenza con sé, ma per eccesso, speculare alla prima e ad essa complementare (come a dire, forse, che un io non c’è, ma è giocoforza adoperarlo, e che, viceversa, si può parlare d’altro — e degli altri — solo passando per un io: specie per un io che si sente diviso, cfr. pag. 154, ma per il quale la divisione si traduce non in carenza ma in moltiplicazione).
L’eccesso di io è ciò che ad Italo rimprovera spesso Maria: vale lo stesso da parte di Belpoliti riguardo all’Italia? Comunque sia, il difetto dell’io, la sua (presunta) scomparsa, non avviene senza resti ingombranti, che poi si rivelano, o si manifestano, come una sua (neanche tanto diversa) presenza ossessiva in ogni dove (complementare al rilkiano “nessundove” di cui Belpoliti parlava in Confine, Elitropia, 1986, la sua prima raccolta di racconti).
Dissimulata tra tutte queste presenze, e quasi resa invisibile dalla loro proliferazione, c’è in Italo quella a mio parere più importante, quella dei linguaggi, dei generi e degli stili. Una presenza che ricorre in molti romanzi recenti, specie quelli che in qualche modo si suole riassumere sotto l’etichetta di postmoderno, che di solito di essi fa un uso parodico. Ma Belpoliti non ne fa la parodia; fa di più: li prende sul serio. E non perché attribuisca alla letteratura un’importanza che non ha (nessun atteggiamento romantico in lui, nessuna idea “novecentesca” della letteratura e del linguaggio come “assoluto”) — anzi, per lui essa è solo un modo, molto importante è vero, ma un modo al pari di altri pur nella sua specificità, per cercare di organizzare e capire il mondo (in questo fedele alla lezione di Calvino a cui ha dedicato molti saggi e ultimamente un libro, L’occhio di Calvino, ed. Einaudi, che dell’autore ligure dà una lettura innovativa, tutta incentrata non a caso sul problema della conoscenza) —, quanto perché prendere sul serio la letteratura, quando la sia fa, è anche l’unico modo per prendere sul serio la realtà.
Proprio per questo, per quanto ci sia umorismo, ironia e anche divertimento puro, in Italo la parodia è assente; a Belpoliti non interessa di atteggiarsi a zuzzerellone, non fa il giorgio con le sgallettate, per dirla con Ripellino, e nemmeno saltella giulivo ripetendo che “essere qui è meraviglioso” (anche se, magari, è vero); è duro nel suo atteggiamento, e quando prende di mira qualcosa, tutto finisce per ordinarlesi attorno, per confluire verso essa, e semmai qualcosa gli si può talvolta rimproverare, è un difetto di quella leggerezza di cui pure il suo amato Calvino ha evidenziato l’importanza. Ma non importa: con tanti che fanno i cretinetti sul nulla, la serietà (degli intenti più che del tono e degli argomenti: in questi l’esuberanza e l’allegria non difettano di certo), è un valore. Se talvolta difetta la grazia, ne guadagna la forza.
Linguaggi generi e stili, Belpoliti li mette in relazione, li fa giocare l’uno con l’altro, anche fino all’attrito, abbandonandoli alla soglia della loro sclerosi, non un istante prima (e per fortuna nemmeno un istante dopo). Ne nasce un movimento tutto particolare e un linguaggio che è difficile catalogare: c’è di tutto, il lettore colto può anche sbizzarrirsi nella ricerca dei riferimenti, delle citazioni, ma sarebbe un gioco gradevole e basta: primo perché la fluidità di una lettura appassionante non ne viene intaccata (anzi, si è sempre curiosi di “quel che viene dopo” e di “come andrà a finire”: ingrediente non trascurabile, così almeno pare, di ogni raccontare); secondo perché il rimando non è uno sfizio intellettualistico (per chi alla conoscenza e all’intelletto attribuisce un grande valore, il rimando è come la respirazione, naturale e necessario), ma deriva dal desiderio, e come da un pulsione a fagocitare e a ricostruire il reale (che diventa tale sola a partire da questo movimento di introiezione e restituzione) in tutti i suoi aspetti e livelli: e per far questo, per uno scrittore il linguaggio è l’unica via praticabile.
Poiché tuttavia Belpoliti non ritiene di imporre un proprio stile differente dagli altri e riconoscibile a prima vista nella sua individualità al mondo, nell’illusione demiurgica di forgiarlo a propria immagine e somiglianza, sono i linguaggi che già ci sono a detenere l’unica pertinenza (parole e frasi sono quasi tutte “di riporto”, riusate però a partire da una costante volontà di scorrevolezza, di “leggibilità”); e se poi un tono e uno stile risulteranno comunque, sarà solo dal modo in cui tutti sono stati connessi e reciprocamente modificati, operazione non meno difficile della precedente (anzi).

Mettere l’uno accanto all’altro, annodare, tracciare mappe è del resto il modo in cui procede anche il lavoro saggistico, non meno importante di quello narrativo, di Belpoliti, che a prima vista sembra solo riferire e collegare ciò che ha trovato nelle sue vastissime quanto varie letture, o ricomporre i frammenti sparsi che su questo o quell’argomento si trovano dispersi nell’opera di uno scrittore, mentre alla fine ne risulta un paesaggio o una costruzione del tutto differenti da quelli che sullo scrittore o sull’argomento presi in esame si era letto fino allora (si veda il già citato libro su Calvino).
Se Belpoliti ha uno stile dunque, non risiede nel linguaggio, nella riconoscibilità di una sintassi o di un lessico, ma va cercato nel pensiero (uno stile di pensiero). Ed è questo che lo distingue dall’erudito settecentesco a cui di primo acchito potrebbe essere accostato: in lui la compilazione presuppone l’amore per ogni singola cosa, perché solo questo può essere il presupposto di una passione più grande, che è quella di muoversi tra le cose collezionate (collazionate) e di stringerle l’una all’altra coi più vari legami (non a caso ai nodi Belpoliti ha dedicato un lavoro più che decennale che è ultimamente sfociato nella cura di un voluminoso numero monografico della rivista Riga, da lui diretta assieme a Elio Grazioli, e nel notevole lungo saggio di suo pugno, quasi un libro, che i fili di tutti gli altri annoda). Non è tanto la passione per la conoscenza, quanto la conoscenza appassionata, che asseconda i propri umori e che proprio perché non ne ha paura riesce a controllarli, a contraddistinguere tutto ciò che Belpoliti fa.

Ma torniamo al romanzo. Dopo essersi fatto rimorchiare dagli eventi, con tutti i vantaggi anche di buona coscienza che tale accettazione contempla, alla fine Italo crolla, e soltanto questa sciagura personale (riflesso-allusione-simbolo di quella storica?) gli permette di cambiare (meglio: lo costringe a cambiare).
Nel crollo psicofisico — implosione più che esplosione — Italo si chiude su se stesso, attorno a un nucleo duro, innominato e forse innominabile, duro e insieme bucherellato: la pallina da golf, che resta comunque un oggetto da prendere, e preso, a mazzate. Il cambiamento partirà da lì, ma non sarà veramente radicale (nessun cambiamento esclusivamente simbolico può esserlo, anche se nessun cambiamento che non sia anche simbolico sarà veramente tale, lascia intendere Belpoliti). È una tragedia? Non è detto. Neanche per il paese. Esplodono delle forme, ne nascono altre. (Esplode anche l’elicottero di Berlicche: è una tragedia?)
Dunque Italo cerca di cominciare da capo. E come si comincia da capo? Imparando prima a respirare, poi a parlare e infine ad avere un rapporto con lo spazio, gli oggetti e le persone. La ri-nascita, quella che dovrebbe essere la nascita vera poiché in essa il soggetto crea se stesso (diventa il proprio padre e la propria madre, dopo tanti genitori fasulli quanto ingombranti, ed anzi è lui ora a “mettere al mondo genitori”), sembra infine riuscire, ma è una riuscita risibile, in quanto Italo, di nuovo, se fa qualcosa, lo fa senza saperlo né volerlo e scopre solo dopo di averla fatta (diventa il padre di un figlio che non gli appartiene e che non vedrà mai se non in effigie, un figlio che come lui sarà senza padre quindi), cioè riproduce il se stesso di prima, magari un po’ più sereno e distaccato (ma il vero distacco, quello dell’esilio, non sarà stato lui a volerlo. — E poi il distacco, anche se permette di vedere meglio le cose, non è necessariamente un bene.)
E a ben guardare, a cosa lo introduce questa nuova nascita? Non certo ad un futuro nel segno della vita, ma ad una vita tutta chiusa nell’orizzonte della morte, ad una vecchiaia precocemente sentita (quando scrive ha 56 anni, ma parla di sé come di un ottantenne, e non solo per gigioneria), con gradevoli consolazioni certo (i pranzetti e la compagnia notturna di Maria e Santina: quest’ultima un po’ faticosa per la verità), ma fuori, via, lontano nello spazio e indietro nel tempo, un tempo da ricostruire ma che non quadra, un tempo più immaginario che della memoria, e uno spazio scomparso... Eppure un tempo e uno spazio abitabili proprio (e solo) nella (ri)costruzione: il tempo e lo spazio della pagina. Non è poco. Ma basta?
Per chi, chiuso il libro, esce di casa e si guarda attorno, non si direbbe. La lettura, sotto questo aspetto, non è stata una gran consolazione. Eppure il lettore magari pensava di averne proprio bisogno. Ma è appunto a lettori come questo — ai lettori-Italo cioè, o agli Italolettori se si preferisce — che uno scrittore fa bene a negarla: Belpoliti gliel’ha negata e ha fatto bene. Per questo c’è stato chi (Gianni Baget Bozzo in particolare) ha visto in Italo un romanzo nichilista, l’esemplificazione del vicolo cieco in cui è condannata a cadere quella che secondo lui è la visione tutta materialista di Belpoliti, e di chi la condivide (quella che con molta approssimazione si potrebbe chiamare la sinistra attuale); e certo anche tra i lettori della cosiddetta sinistra ci sarà stato chi, accanto alla soddisfazione della critica alla vecchia Italietta, avrà trovato o troverà insoddisfacente il fondo sconsolato del romanzo; ma c’è forse molto di consolante in ciò che nel dopoguerra, per limitarci ad esso, abbiamo saputo fare ed essere? La tendenza ad autoassolverci, e in più ad esigere anche l’assoluzione degli altri, è una delle nostre caratteristiche peggiori: pretendere che lo faccia anche un romanzo che ci riguarda, allora, è il minimo. E d’altra parte sarebbe proprio un romanzo italiano quello che lo facesse, come lo sarebbe il suo opposto e complementare, quello che si compiacesse dell’abbassamento e della denigrazione. Italo evita entrambi i pericoli, non perché risolva le contraddizioni o indichi soluzioni o pervenga a qualche verità (non spetta a un romanzo farlo), ma perché mette tutto in gioco, con grande generosità, quella vera di chi rischia in prima persona, senza riserve o tornaconti di secondo grado, senza preventivate consolazioni o accattonaggio d’affetti o consensi: qualità che ci piace rinvenire negli altri (per esempio in Salman Rushdie e in David Grossman, ai quali Belpoliti ha indubbiamente fatto riferimento per questo suo libro), ma che raramente siamo disposti a concedere a chi ci sta vicino. La generosità piace solo in teoria. La vitalità disturba. La misura è solo quella piccola della perfezione microscopica: tutto il resto è scompenso, dismisura. La dismisura fa paura. Sia benedetta la paura, allora.



Marco Belpoliti, Italo, ed. Sestante, 1995, p. 400, £ 20.000


[1]In questo libro più o meno tutti sono ex-qualcosa, forse a significare non tanto, o non solo, il costume del trasformismo (infatti basta il tempo a fare di tutti altrettanti ex), quanto l’incapacità di ciascuno di essere semplicemente quello che, in ogni momento, egli è: un difetto di identità e di consistenza più che di coerenza insomma. Ma vedi oltre.
[2] Quello del venir meno del mondo, della sua fragilità che si traduce in continua dissipazione, e della conseguente necessità, vissuta come un dovere da Italo, di almeno rallentarla, dal momento che impedirla è impossibile, è forse il sentimento più pervasivo del romanzo, anche se Belpoliti, quando lo affronta direttamente, lo riferisce principalmente agli anni ‘90. Si veda l’importante capitolo L’obolo (p. 348-354), di cui vale la pena di citare qualche frase tratta dai primi due paragrafi, ma che andrebbe considerato nella sua totalità: “Non è necessaria un’esplosione, una deflagrazione (...) per cancellare il mondo. (...) Il mondo va via senza far rumore, milionesimo di secondo dopo milionesimo di secondo, anche se, in apparenza, tutto resta uguale a prima.
Siamo in pochi a sentire la scomparsa del mondo, in pochissimi a saperne misurare la costante e inarrestabile diminuzione, quasi nessuno poi sa scandire il ritmo di sparizione (...). Questa eclissi è il risultato di una perdita, della scomparsa dei ricordi, dell’esaurimento della memoria. Il mondo muore ogni volta che qualcuno dimentica qualcosa, ogni volta che un uomo scorda a casa il cappello (...); per non parlare poi di interi popoli rimossi, di avvenimenti scordati per sempre (...). Il mondo se ne va, giorno per giorno, si smarrisce nella testa delle persone, diventa sempre più sottile, finché un giorno non ci sarà più.”
[3]In realtà Italo più che un personaggio è una specie di Zelig, che diventa di volta in volta ciò che da lui esigono coloro che gli stanno attorno e gli eventi in cui si trova invischiato. Lo è ancor di più quando, accorgendosi della propria inconsistenza, vuole reagire; e i risultati delle sue (scarse) rivolte stanno a dimostrarlo. Molti altri personaggi, anche se in misura minore, condividono questo statuto, che sembra valere per essi in quanto già vale per la realtà. Curiosamente l’eccezione è Berlicche (ma nemmeno tanto a ben guardare: e questo è un merito di Belpoliti, perché proprio in questo caso il pericolo di riduzione a macchietta sarebbe stato meno tollerabile). Forse proprio perché Berlicche ha del Mefistofele e dell’Hermes insieme, ne vengono mostrati anche i lati più “umani”, come certe timidezze, la capacità di tenerezza, le paure e ansie che si potrebbe anche chiamare, senza scherno, metafisiche.
[4] È stato F. Cataluccio a farlo notare per primo, nel corso di una presentazione del romanzo alla libreria Feltrinelli di Milano.
[5]Gli eventi a cui Italo partecipa sono minori, anche se a volte connessi a quelli grandi, e appartengono in generale ai momenti meno chiari della storia d’Italia, momenti che solo in minima parte conservano la segretezza all’interno della quale si erano verificati (non a caso quello che è forse il vero padre di Italo appartiene ai servizi segreti, coi quali ha molti rapporti l’onorevole Settoni, sempre non a caso detto la Cimice). Attraverso di essi Belpoliti suggerisce un’altra possibile idea della storia del nostro paese, un’idea fatta di complotti tragicomici, di trame e organizzazioni nascoste di cui tutti sono a conoscenza, di maneggi dietro quinte trasparenti, di grandi gesti d’effetto e di ubique meschinerie quotidiane: l’idea di un paese meschino che della democrazia ha conosciuto solo l’apparenza, ritualizzata e vacuamente teatrale. Se quindi i grandi eventi sono assenti non è tanto perché, come diceva di se stesso Goethe, a Italo gli dei hanno concesso “il privilegio di trascorrere dormendo le crisi della storia”, quanto piuttosto per una scelta precisa, legata a una precisa idea della storia e della politica italiane. Ed è proprio per questa via che Italo è un romanzo a pieno titolo politico. Ha infatti ragione M. Raffaeli (il manifesto, 20 luglio 1995) nel riconoscere in esso “un romanzo politico in accezione etimologica, nel senso che mantiene gli avvenimenti pubblici non come sfondo o pura rifrazione ma come costante orizzonte d’attesa rispetto al percorso individuale”, senza che ci sia bisogno quindi di tematizzarli direttamente nella loro deleteria spettacolarità (deleteria ancor di più quando usata per dare peso, e legittimazione, ad una narrazione che senza di essa finirebbe per non averne).