29/08/20

Judith Schalansky, Inventari, perdite e scoperte.

Sono giorni di perdite. Di perdite così grandi, che si accumulano come macerie alle nostre spalle, e come macerie ingombrano anche il nostro sguardo sul futuro, tanto che ci sembra di non poter vedere o pensare nient’altro. Ciascuno è impegnato a contare le proprie e quelle dei propri cari, della propria comunità, e solo con difficoltà riesce ad alzare lo sguardo, a pensare a orizzonti più ampi, e quasi solo con spavento. Eppure dovremmo essere abituati alla perdita. Viviamo da sempre di cose perdute, di quelle che sono state nostre o ci hanno solo sfiorato, e di quelle che nemmeno immaginiamo che siano andate perse. Ancora macerie. Montagne di macerie, e di storie. Interi continenti che galleggiano come isole in oceani sconosciuti.

In giorni come quelli che stiamo vivendo ne ritornano a ondate, a volte con strazio o nostalgia, altre, poche, con un sorriso. Molte sono cose e momenti che avevamo cancellato come di poco conto, niente su cui valesse la pena soffermarsi, anche solo fantasie, progetti istantanei caduti immediatamente e che ora, taglienti, ne trascinano con sé altri nel varco aperto, a seguirli, tanti, e di tutt’altra natura. E poi si pensa anche ai luoghi dove avremmo voluto andare, o che solo hanno attirato la nostra curiosità per un attimo, a tutto quello che è andato perso senza che ne avessimo mai sospettato l’esistenza. Ai mondi scomparsi di cui niente abbiamo mai saputo.

È anche a questo che serve la letteratura. Ed è a momenti come quelli che stiamo vivendo che si rivolgeva, certo senza un’intenzione consapevole (ma è appunto a questi momenti che la letteratura si rivolge: parole affacciate sull’imprevedibile; parole che vengano buone per tempi e luoghi a cui non erano dirette), la tedesca Judith Schalansky, classe 1980, scrivendo e progettando persino nella grafica, elegante quanto funzionale al loro senso, i suoi libri, in particolare gli ultimi due tradotti, Atlante delle isole remote, del 2009 (trad. it. di Francesca Gabelli, Bompiani, 2013: che in realtà è il suo secondo, preceduto l’anno prima da Fraktur mon Amour, un saggio sui caratteri gotici che ha vinto diversi premi dedicati al design) e Inventario di alcune cose perdute (2018, trad. it. Flavia Pantanella, Nottetempo, 2020).

 


 

Ma già nel primo premiatissimo libro tradotto in italiano, Lo splendore casuale delle meduse (titolo originale Der Hals der Giraffe, “Il collo della giraffa”, 2011, trad. it. Flavia Pantanella, Nottetempo, 2013), aveva una forte incidenza la perdita, la cancellazione quasi, come se non fosse mai esistita (e come verrà più esplicitamente detto in Inventario) della DDR, vista attraverso lo sguardo di un’insegnante di biologia in una scuola superiore dell’estrema provincia del nord-est, che sta perdendo classi e studenti (la stessa provincia che viene dettagliatamente descritta in “Il porto di Greifswald”, il nono racconto di Inventario, che la narratrice, che vi è nata, ripercorre passo dopo passo alla ricerca non della propria origine ma del suo riconoscimento, perché “La difficoltà non risiede nel trovare l’origine, ma piuttosto nel riconoscerla”). L’insegnante registra i cambiamenti nella sua scuola, e nella sua vita, con sguardo distante, anaffettivo, che si commuove a suo modo, asciutto, solo davanti alla natura, alle sue forme e alle sue leggi, dure, eleganti nella loro necessità, amorali, ma oggettive: così sono e non c’è nient’altro da dire. Vede il mondo sotto una rigida prospettiva di darwinismo sociale, ultramaterialistico, senza nessuna concessione al sentimento o alle debolezze, ma come per difendersi da esse, per dimenticare o dare un senso accettabile anche alle proprie perdite personali, agli abbandoni di cui è stata vittima o che lei stessa ha favorito se non proprio provocato, una corazza che però alla fine si incrina.

Nelle Meduse, la sintassi è ridotta all’osso; nominale, appena possibile. Sincopata. Ritmica, immagino, in tedesco; anche nella traduzione italiana, però. Che mi sembra ottima: nel senso che è ottimo l’italiano – che è quanto di meglio chiedere a un traduttore. La focalizzazione è spesso, non sempre, interna, come una specie di monologo interiore, non a flusso, ma come discorso indiretto libero, di solito, analitico come è la mente della protagonista, di tono spregiudicato, quello che usa dire disincantato, lucido (la scienza lo permette: anzi, lo esige!); sprezzante, di fatto. Quasi crudele.

La storia e la vita umana sono lette attraverso quella naturale e biologica, in chiave rigorosamente evoluzionistica, con ovvio ridimensionamento della scala di importanza antropocentrica e dei nostri valori, quali che siano, che da questa prospettiva telescopica tendono ad assomigliarsi, anche se non proprio del tutto, visto che il recente passato, proprio e della propria ex nazione, la DDR, spesso affiora dolorosamente, nonostante ogni strategia difensiva, e come metro di paragone rispetto al presente, migliorato solo in apparenza, e di fatto peggiorato. La strategia difensiva la porta a chiudersi in se stessa e si traduce in sostanziale assenza di empatia, a parte un episodio rivelatore verso una giovane allieva nel finale, ma non insensibile nei confronti della bellezza, purché sia quella della natura e delle sue leggi (la simmetria delle meduse)
, e non chieda di essere ricambiata, perché essa stessa in se stessa chiusa e appagata, e che quindi non si traduce nella dialettica credito/debito. Un libro di impatto pari al suo rigore, di grande intensità.

 

Già il libro precedente, Atlante, parlava di isole che ci sono e non ci sono, che sono state cercate e abbandonate, o abitate e abbandonate a se stesse. Remote, nel senso non solo di lontane geograficamente, ma soprattutto in quello di lontane, e a volte escluse, dalla memoria collettiva e persino dalle fantasie, che magari hanno abitato per un po’, prima di sparire in apparenza per sempre. Perdute anch’esse insomma, ma che Schalansky – innamorata delle cartine, degli atlanti e dei mappamondi, come tanti bambini del passato che sognavano davanti alle illustrazioni e zone bianche, agli spazi vuoti e senza nomi o con nomi esotici e sconosciuti di cui erano costellati –, scopre e nomina e studia, raccontandone poi la storia e le peculiarità, magari integrate con dati di fantasia. Infatti anche per chi scrive, come per navigatori e scopritori, l’attribuzione del nome è già l’inizio di una storia, e a volte di un mito, come se i luoghi non fossero solo trovati, ma, appunto, inventati. “La cartografia dovrebbe essere annoverata finalmente tra i generi poetici e l’atlante tra la bella letteratura.”

 

Guardando la cartina di un’isola in cui non c’erano né nome né scala né scritte, scrive l’autrice, “improvvisamente mi fu chiaro che le isole altro non sono che piccoli continenti e che i continenti, a loro volta, non sono altro che isole, molto, molto grandi”. Così per ognuna di quelle scelte redige una breve scheda, di lunghezza che sia contenuta nella griglia di una singola pagina, se non proprio uguale, come lo saranno i racconti di Inventario (16 pagine l’uno) che sintetizza una geografia e una storia che possono essere sviluppate in epopee e monografie, e lette di seguito formano un’enciclopedia di mondi lontani e sognati, e a volte tragicamente trovati. Come in un racconto di Borges, a cui i due libri della scrittrice tedesca devono non poco, oltre che a Benjamin, Calvino, Perec, Sebald: niente di nuovo come riferimenti, ma rielaborati in modo molto originale, come lo è il timbro della voce dell’autrice.

E storie smarrite, mondi alternativi, memorie ritrovate o inventate sono i racconti di Inventario.

 

Le isole si rivelano luoghi perfetti “di proiezione per esperimenti utopici e paradisi terrestri”, ma allo stesso tempo anche prigioni naturali, reclusioni, condanne all’esclusione e distopie reali, regimi efferati, tirannie, consuetudini orribili, ritorni a stati ferini che l’umanità forse non ha mai conosciuto... e quindi come involontari ideali esperimenti sulle dinamiche delle relazioni degli umani tra di loro e di tutti con l’ambiente, con tutti i crismi della scienza prerelativistica, che separava nettamente esperimento e osservatore (chi ne subiva gli effetti sulla propria pelle o se ne faceva promotore per la scienza contava zero). La fuga, l’isolamento cercato, l’attrattiva per il “bel niente” di isole deserte, senza attrattiva o di quelle delle zone artiche dove nemmeno i virus si direbbe che possano arrivare... “Può darsi che il paradiso sia un’isola. Lo è anche l’inferno.” Ben poco però è attraente quanto l’inferno, perché “sono proprio gli avvenimenti terribili a possedere il più grande potenziale narrativo e le isole sono il luogo perfetto dove ambientarli... È tipico di questi racconti che verità e fantasia non siano più separabili: la realtà diventa finzione e la finzione si realizza”.

 

Negli atlanti e nelle carte degli stati nazionali, queste isole sono “sospinte ai margini, con una scala tutta loro, ma senza alcuna informazione sulla loro reale posizione. Queste isole diventano così le note a piè pagina della terraferma, in un certo senso superflue, ma infinitamente più interessanti del poderoso corpus continentale”. In fin dei conti sono come gli umili, gli sconfitti, i dimenticati, di cui la letteratura degli ultimi due secoli si è fatta un dovere di recuperare e raccontare le storie, talvolta inventandole con una maggiore verosimiglianza e verità di eventuali modelli e riferimenti reali. Vengono “salvate”. E salvati sono anche gli oggetti dell’ultimo libro dell’autrice. Ogni isola e ogni oggetto diventano il centro del mondo, come lo è ciascun punto della superficie di una sfera, e come lo è, o dovrebbe esserlo, per Canetti, ogni uomo, nessuno escluso.

 


Il discorso di Atlante sembra chiuso, come circoscritte sono le isole. Invece il primo racconto di Inventario di alcune cose perdute inizia riprendendone il filo. Vi si parla infatti di Tuanaki, che diventa così la 51esima isola, quella che non c’è più, un piccolo atollo una volta abitato e visitato da vari esploratori, che un bel giorno sparisce inghiottito dall’oceano, forse per un maremoto che nessuno ha avvertito (come sta per essere inghiottito il minuscolo atollo Takuu dell’Atlante, che gli abitanti non vogliono comunque abbandonare). Dei missionari che lo cercano per la loro opera pia di conversione al vero dio non riescono a trovarlo, e nessuno più lo cerca dopo di loro e presto viene dimenticato. Restano pochissimi documenti a loro volta persi in qualche memoria o archivio. La scrittrice cerca di ricostruirne, e immaginarne, tracce e storia, per concludere infine: “il mondo piange solo ciò che conosce e non immagina cosa abbia perduto con quella minuscola isola, nonostante la forma sferica pari a quella della terra avrebbe permesso a quel luogo sperduto di esserne l’ombelico, pur non essendo legato a essa dalle robuste scotte del commercio e delle guerre, bensì dal filo sottilissimo e regolare di un sogno.” A cui aggiunge poi questa postilla, ancora con un’eco borgesiana: “Perché il mito è la più alta di tutte le realtà, e la biblioteca, pensai per un momento, il vero teatro di ciò che accade nel mondo.”

 

Il mito è, in un certo senso, la scienza delle lacune, il filo che cuce gli strappi e le slabbrature delle storie e delle testimonianze, o gli orli di assenze solo accennate; e la biblioteca è il luogo dove di ogni cosa si può trovare traccia, incluse le lacune e le cancellazioni che solo lì si palesano.

Di cosa parlavano le decine e decine di libri scritti dal profeta Mani, tradotti in molte lingue e della gran parte dei quali non ci è rimasto che il titolo? Che cosa resta dell’opera di Armand Schulthess, che un giorno si ritira nella sua proprietà in montagna e dissemina casa alberi e muri di tabelle e libri e repertori della sua personale reinterpretazione del mondo e del sapere? Che ne è dell’opera di Saffo che non ci è pervenuta? In che poesia, in che contesto e quale senso avevano i versi sparsi e i frammenti affiorati nei luoghi più disparati, citati da eruditi che non ne dicono altro? Che impatto hanno sulla fantasia e sulla vita della narratrice e come la aiutano a parlare dei valori morali o della sessualità, la propria e di tutte coloro che nel cosiddetto saffismo vengono classificate e imprigionate?

Che ne è di opere e figure di cui si è perso quasi tutto, se non il nome dubbio di uno studio sulla luna e l’omaggio di un cratere che poi è finito per essere attribuito a un omonimo? E dei luoghi dell’infanzia, della nazione in cui si è cresciuti, la DDR per Schalanski, con la sua organizzazione e i suoi modelli vita, che poi da un giorno all’altro scompare e di cui pian piano vengono cancellate anche le tracce più significative, in una guerra di distruzione, costruzione, nuova distruzione e altre ricostruzioni di simboli i cui significati trasmigrano capovolti da un decennio all’altro? Come accade, per esempio per il suo Palazzo della Repubblica di Berlino est, simbolo della nuova realtà della DDR, di cui parla il penultimo racconto, abbattuto per ricostruire il precedente castello degli Hohenzollern,  a sua volta abbattuto come simbolo detestato di ciò che la nuova repubblica voleva cancellare per costruire il suo mondo nuovo, a cui si intreccia anche la storia personale della narratrice, il momento in cui anche la sua famiglia, per il tradimento del padre, si spezza e viene demolita, come per molte cose della storia recente della Germania. Quanto incide questo sulla vita di una bambina? Cosa resta dei luoghi e dei ricordi, forse falsi, dell’infanzia? È così importante decifrare la verità, demistificare le illusioni? “In fin dei conti la demistificazione del mondo è una balla colossale. Il pensiero magico di un bambino è più potente di ogni statistica, di ogni fatto empirico [...] Contro il mito non si può che perdere. ... Che cos’è il desiderio, cosa la volontà, e cos’è solo una funzione fisiologica? Prendere o lasciare? Diventare un contenitore. Rinunciare alle congetture, riconoscere l’esistenza di qualcosa di più grande. Come la pietà. Come l’umiltà. Un’umiliazione assoluta.”

Sono tanti i fili che si intrecciano in questi dodici racconti, come le loro forme, i linguaggi usati e la rete delle immagini costruita per ciascuno con grande coerenza, con quelle di derivazione scientifico-naturalistica a prevalere, come in Lo splendore casuale delle meduse.

 

Mentre i precedenti libri si caratterizzavano per una spiccata e molto rigorosa unitarietà di stile, questo lo varia da un racconto all’altro, trovando nel tono complessivo del discorso, distaccato ma mai cinico, e spesso anzi ironico, più tra le righe che in modo esplicito, la sua coerenza e compattezza, la cui cura è segnalata anche dall’uguale lunghezza di ciascuno, 16 pagine, come la descrizione delle isole nel precedente libro era contenuta sempre in una pagina. Per ogni racconto l’autrice trova la voce più “naturalmente” adeguata (anche se a volte con un po’ di manierismo compiaciuto della propria bravura) e soprattutto una forma che si rifà a modelli canonici ma sempre riprendendoli con sottili innovazioni e spesso passando senza soluzione di continuità dall’uno all’altro all’interno di ogni singolo testo: dal racconto realistico a quello fantastico, dal resoconto quasi documentaristico al saggio storico o artistico, alle memorie personali e famigliari.

L’inventario del titolo è anche quello delle immagini, degli stili, delle forme culturali, come i disegni delle forme naturali scandivano la narrazione nel romanzo delle meduse. Nella parola inventario c’è invenzione, inventare. La radice è la stessa, in fondo anche il significato e le azioni che essa comporta: trovare, assegnare un luogo, dare una collocazione, colmare le lacune, cucire gli strappi, creare una serie, una storia in cui inserire ciò che si è trovato, un senso per la cosa e per la ricerca e il ritrovamento che ne è conseguito. Più o meno quello che ci tocca fare quotidianamente e che ci toccherà ancora di più, quando sarà alla vita che dovremo assegnare nuovi termini, in nuove mappe e storie da raccontare che sperabilmente non siano ancora le stesse di prima, tutte uguali, dette allo stesso modo, con le identiche parole prosciugate, come prima, come ora. Libri come questi mi sembrano un ottimo aiuto per aiutarci a farlo.

 


 

 

 

 

 

 

 

                         


26/08/20

Georges de La Tour, San Sebastiano curato da Irene

San Sebastiano, il bel giovane nudo legato a una colonna trafitto da una o più frecce su cui sgranavano gli occhi nelle chiese di tutta la cristianità le signorine e signore afflitte da sposi o fidanzati bolsi e adiposi, e che concupivano anche molti signori senza poterlo confessare (come Mishima ancora pochi decenni fa), assieme a san Rocco era considerato uno dei più efficaci protettori dalle epidemie. La sua storia di conversioni e guarigioni, in particolare di una nobildonna muta, non è la più idonea alla bisogna, ma la necessità per i deboli prende tutte le strade, dritte o traverse, pur di arrivare a superare le difficoltà, a un soccorso, una protezione. In penuria di santi specializzati, se ne adattano altri. Un collegamento si trova sempre. Come protettore san Rocco ha goduto di maggior prestigio, il bubbone o la piaga sulla coscia sono una garanzia, e infatti non si contano le chiese, chiesette, cappelle e edicole che gli sono dedicate nei borghi e nelle aperte campagne devastate nei secoli da ogni genere di pestilenza. Per tacere delle grandi confraternite, come quella di Venezia che ha regalato all’umanità il capolavoro inesauribile della Scuola grande, tappezzata di capolavori, di Tintoretto soprattutto. Ma anche Sebastiano ha fatto la sua parte, in pale di altari, perlopiù laterali, dipinti devozionali domestici (diciamo così) e oggetti di fervore collettivo e privato.

Di solito è un bel giovane che viene rappresentato nel momento del supplizio, legato a una colonna, trafitto da uno o più strali, dal fisico perfetto (era il minimo, per un capo della guardia imperiale quale lui era) con solo il ventre coperto da un perizoma spesso succinto in modo sospetto, e lo sguardo variamente declinato dalla serenità alla forza interiore, allo stoicismo e in certi casi persino con una sfumatura di estasi, a meno che non sia il mio occhio non innocente a vedercela. È una figura che hanno presente tutti per averla vista spesso riprodotta o direttamente in qualche chiesa o museo, che ha dato occasione a tanti capolavori, da Mantegna a Antonello da Messina, da Botticelli a Luca Signorelli, a Dosso Dossi, a Guido Reni (che gli risparmia le frecce ma in compenso abbonda con l’inguine scoperto, come faranno altri secentisti, come Aniello Falcone che il perizoma glielo nega del tutto, salvo un recupero in extremis con il lembo del panno su cui è accomodato, come a una seduta di posa) e a Raffaello, che giudiziosamente lo rappresenta di mezzo busto, ben vestito, con uno sguardo su cui preferisco non azzardare ipotesi e il suo emblema, la freccia, tenuta tra le dita con delicatezza come una penna, quella con cui è scritto il suo martirio e che rappresenta anche le frecce avvelenate della peste che però lui addomestica con il suo potere taumaturgico.  Per quanto interessanti però, e alcune persino sublimi, non parlerò di queste opere.

 



 

 

 

 

 

 

 


Preferisco soffermarmi sul momento successivo al martirio, quando il corpo del futuro santo crivellato di frecce, creduto senza vita, viene lasciato in pasto ai cani in un terreno incolto, dove la leggenda narra che sia stato ritrovato da una vedova, Irene che lo porta a casa sua e lo cura fino alla guarigione, preludio a una seconda e definitiva esecuzione. È una scena che ha avuto meno successo del corpo glorioso trafitto, ma che nondimeno è stata rappresentata in opere di grande livello: in particolare, per quel che ci interessa qui, ad opera di Georges de La Tour, in una decina di versioni di sua mano e di bottega, spesso eccellenti.

La scena è notturna, come si conviene al maestro francese specialista del lume di candela (se fosse aperta, raccomanderei una visita alla magnifica esposizione di Palazzo Reale di Milano che la tragica epidemia che ci sta flagellando con le sue invisibili frecce ha interrotto) e mostra delle figure in primo piano circondate dal buio, con solo qualche bagliore sull’ambiente circostante. Ci sono, del soggetto, due varianti principali. La prima di taglio verticale, con alcune figure in piedi; la seconda orizzontale, con meno figure, rappresentate più in primo piano, per catturare lo spettatore facendolo entrare nel quadro, come in un altro dei quadri esposti a Palazzo Reale, di Trophime Bigot, che per de La Tour, della cui formazione poco si sa, è stato tra i più probabili riferimenti, assieme al principale autore di notturni, Gerrit van Honthorst (Gherardo delle notti) e a Hendrick ter Brugghen, pure presenti nella mostra.

In realtà le versioni verticali (al Louvre e a Berlino) mostrano più la scena del ritrovamento del corpo da parte di Irene che quella della cura a cui si riferiscono i titoli. Irene con una fiaccola osserva il corpo riverso a terra con una freccia nell’addome, appena sotto lo sterno; dietro di lei tre altre donne (due relativamente in luce che formano con la santa una diagonale, come una mezza piramide tagliata dal margine destro del quadro, con il corpo di Sebastiano a fare da base; e una più discosta, al buio, di cui sono illuminate solo le mani giunte e una parte del  viso piegato a guardare verso il santo, oppresso da un dolore muto, composto, a cui invece dà libero sfogo, con un pianto dirotto la donna in piedi, più arretrata, ma anche più gigantesca all’apparenza, incombente su tutta la scena, quasi a sintetizzarne le emozioni.

Il corpo del santo, snello, levigato, dalla muscolatura appena accennata, è messo di traverso lungo il bordo del quadro, come in tante Deposizioni, con il braccio destro ad angolo retto, abbandonato, come spezzato, e la gamba destra sollevata, a coprire il sesso e insieme ad abbozzare una diagonale parallela a quella formata dalle tre donne. Dietro Irene c’è un’altra donna, con il corpo piegato in avanti e le braccia aperte in modo simile a quello del dolore di tanti compianti, ma in modo misurato, non spettacolarmente agitato, come se non ci fosse bisogno di niente di più di questo stupore pensoso, mentre Irene guarda, ancora incerta forse sulla condizione del giovane, certo pensando a cosa fare.

La versione orizzontale invece (forse una copia, ma non importa, è comunque bellissima, vedi fig. 1), racconta il momento successivo. Irene ha capito che il giovane è ancora vivo e si è chinata su di lui per cominciare a prodigargli le prime cure. È il momento del soccorso vero e proprio. Il giovane è vivo e cosciente. Nel buio della notte, nelle tenebre del mondo, una luce si riflette nella sua sclera, il braccio è piegato, ma ora come gesto non di abbandono bensì di sostegno del torso semieretto, mentre è intento, sereno e distaccato, quasi la cosa non lo riguardasse, a osservare la donna che gli estrae la freccia confitta non più nell’addome, ma nella coscia sinistra. Tra Irene e Sebastiano, più in alto, a fare da vertice del classico triangolo formato dalle teste, una giovane è chinata a guardare, si immagina con trepidazione, l’intervento. Tiene in mano una lampada, più discreta della fiaccola fiammeggiante della scena della scoperta, al cui interno è accesa una candela che proietta una luce diretta sulla coscia dell’uomo e sulla mano, sul lato destro del viso e sui bordi del velo di Irene.  Ma prima ancora il contrasto della luce sulla lampada dà luogo a una croce in ombra (accorgimento spesso usato da La Tour, e non solo da lui), che allude al prototipo dei sacrifici e dei martirii, quello di Cristo.

Irene prende la freccia con due dita della destra, con un gesto delicato e insieme elegante (la delicatezza è sempre elegante), e si appresta a toglierla. Il busto è eretto, solo la testa leggermente chinata, lo sguardo attento a procurare il minor dolore possibile, consapevole che non potrà essere evitato, mentre la mano sinistra si appoggia con le dita al ginocchio, quanto basta per aiutarsi a eseguire al meglio l’operazione senza perdere l’equilibrio. Non un grammo di più. Le labbra sono chiuse, accostate senza tensione alcuna, senza tradire nessun accenno di espressione. Solo l’attenzione che pervade come un soffio tutto il viso. Non c‘è nient’altro da dire. Niente da comunicare. Come non deve comunicare niente tutto il corpo della donna, intenta solo a ciò che fa, e forse nemmeno allo scopo per cui lo fa e alla persona a cui lo fa. A fare bene quello che sta facendo. A prendersi cura di chi ha curato e guarito. A cercare di salvare chi ha salvato e continuerà a salvare.

 

Una versione più breve, con un diverso inizio, è stata pubblicata su doppiozero.com il 31 marzo 2020

 

Immagini

1. Georges de La Tour, San Sebastiano curato da Irene

2. Antonello da Messina, San Sebastiano

3. Raffaello, San Sebastiano

4. Guido Reni, San Sebastiano

5. Aniello Falcone, San Sebastiano 

6. Trophime Bigot, San Sebastiano

7. Georges de La Tour, San Sebastiano curato da Irene

8. Georges de La Tour, San Sebastiano curato da Irene (dettaglio)


 


 

07/08/20

Pensieri su se stesso (appunti per niente 18)


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

Tutti i pensieri che posso fare su di me, anche edificanti, o profondi (poiché non ci si nega niente), non sono nulla, se non per il fatto di esserci stati, di esserci. Non mi migliorano, per quanto possa credere che conoscersi un po’ di più possa essere utile, o addirittura buono. Non proiettano la loro ombra alle mie spalle, riscattando il già stato, né la loro luce davanti a me, orientandomi, nel futuro. Non servono a niente, se non nel momento il cui li ho e, docile, li seguo. Dopo averli avuti non mi sento meno imperfetto: semmai mi rendo conto di essere stato, e quindi di essere tuttora, ancora peggiore di quanto già non temessi. Ciononostante, quando arrivano, spalanco le porte e do loro il benvenuto.

02/08/20

Libri pazienti (Appunti per niente 17)



a)
Pensavo poco fa, leggendo un libro che mi sono finalmente deciso a leggere dopo oltre 30’anni che l’ho comprato, che a volte ci si tiene lontani da certi libri come se si avvertisse l’oscuro presentimento, che sfiora una ancor più oscura certezza, che ci faranno del male, un male che non siamo in grado di sopportare... che ci distruggeranno.
Per anni ogni tanto li si prende in mano, li si maneggia con circospezione, li si sfoglia senza leggerli e li si mette velocemente al loro posto su uno scaffale ben visibile, ad altezza d’occhi, da dove ti fanno segno, ti chiamano, ti rimproverano e emettono giudizi silenziosi, inappellabili, che non vuoi sentire. Poi un giorno, non si sa perché, si comincia a sfogliarli, a leggiucchiare le prime righe, e si continua senza resistenze, né rimpianti, fino alla fine. E le parole sono perfette, esattamente quelle di cui avevamo bisogno per sentirci più forti e continuare a vivere.
Altri invece resteranno intoccati per sempre. Con solo un piccolo rammarico. Per noi stessi, non per loro. La loro funzione è assolta anche così, come creatori, e custodi, del rammarico.

b)
Ma nello stesso momento la grandezza che custodivano e ce ne aveva tenuti a distanza, viene sminuita, se non negata, dal nostro contatto. Dal fatto che, in qualche modo, ci serve. Eppure proprio questo loro mettersi al nostro servizio, o meglio: questo non rifiutarsi a una posizione servile, questo non sottrarsi all’abbassamento, è un segno ulteriore, e forse il sigillo, della loro grandezza.