29/07/20

Luoghi del sacro (Ricordi di copertura 13)


Un’amica mi manda una foto da Micene e subito mi vengono in mente alcuni dei luoghi in cui ho maggiormente avvertito, o mi è sembrato di capire, il sacro. Come all’arrivo a Micene, appunto, camminando lungo un viale di alberi del pepe, o di eucalipti, verso le tombe, accompagnato da canto fortissimo delle cicale.
E poi a Atene, salendo lentamente, ma non a fatica, lungo la scalinata che porta all’Acropoli, con gli occhi socchiusi, ridotti a una fessura, fermandomi ogni tanto a guardare in giù, verso il mare.
E scorgendo da lontano, dal deserto, con 41 gradi all’ombra, la città santa di Kairouan, in Tunisia, e poi entrando nel grande cortile, in quel momento quasi deserto, della grande moschea.
E ancora, dopo aver visto le grandi rocce con i graffiti camuni a Capo di Ponte, quando, proseguendo sul sentiero, e ancora avanti, fuori dagli alberi, mi sono ritrovato in una piccola valle verdissima, con una fonte, o un ruscello in un angolo della spianata, nel silenzio più totale, senza nessuno in giro, come se ogni essere vivente, cioè mortale, si fosse ritirato da lì, o avesse preso una lunga pausa, per riflettere, o dormire.
Ogni volta d’estate, con il sole a picco, una luce sfolgorante, implacabile, che non feriva però, e anzi avvolgeva, senza cancellare né trasfigurare. Che era semplicemente lì perché così doveva essere.


14/07/20

Simon Sellars, Ballardismo applicato



“J. G. Ballard è uno dei pochi scrittori di fiction del ventesimo secolo dall’immaginazione così singolare da aver ricevuto un suffisso in inglese: in -esque o -ian, come nel caso di “Kafkesque” e “Dickensian””, scrive Simon Reynolds nel saggio che accompagna la traduzione inedita della video intervista All that mattered was a sensation che il grande scrittore inglese ha concesso a Sandro Moiso nel 1992, ora pubblicata in un’edizione bilingue corredata da un apparato iconografico e da una bella introduzione dello stesso Moiso, in un pregevole libro a cura di Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti, per le edizioni Krisis. “Per alcuni lettori Ballard ha saputo imporre il suo modo di vedere tra i nostri occhi e il mondo”, tanto che è impossibile non pensare alla sua opera di fronte a eventi catastrofici, esplosioni di violenza, sesso traumatico, celebrità assassinate, comunità isolate che implodono, periferie degradate, grandi strutture stradali che sembrano ecosistemi autonomi ecc., che ritroviamo un po’ ovunque nella realtà degli ultimi decenni, dove le più cupe distopie del grande scrittore inglese, che apparivano solo estremizzazioni di aspetti appena accennati della società a lui (tra il 1960 e il 2000), sembrano essersi puntualmente realizzate, talvolta andando persino oltre la sua immaginazione.
Reynolds, riprendendo e commentando alcuni spunti dell’intervista, districa e ricollega in una fitta maglia questi caratteri tra di loro e, in modo illuminante, ad aspetti della società e della cultura inglese fino ai nostri giorni, dalla politica alle nuove consuetudini, dall’urbanistica alla musica, con una scrittura tanto chiara quanto acuta.
Il saggista definisce giustamente Ballard “un macchinario che produce paesaggi e scenari che aleggiano negli occhi della mente del lettore”, ed era abbastanza prevedibile che uno scrittore dotato di una tale forza visionaria, e anche predittiva, trovasse chi, reale o immaginario, nel proprio disorientamento nei confronti della realtà e di se stesso, ne facesse al contempo un’ossessione e il vademecum più attendibile per interpretare anche gli aspetti meno categorizzabili di un presente violento, caotico e incomprensibile. Tanto più che stiamo “vivendo in un istante perpetuo” come dice Ballard nell’intervista a Moiso citata: “la percezione del presente si è ampliata”, in esso “sono inclusi pezzi del passato e pezzi del futuro”, ma il futuro è sparito dall’orizzonte, chiusi in un mondo in cui “il cambiamento più grande è stato [proprio] la morte del futuro”.
È ciò che accade al narratore di Ballardismo applicato, che ricalca in parte il suo autore, l’australiano Simon Sellars, e il suo curriculum esistenziale e artistico, sfociato soprattutto nel sito “Ballardian”, che è una miniera per chi si interessa dello scrittore inglese e costituisce anche un incunabolo di questo libro di difficile catalogazione. Anche se “romanzo”, denominazione così accogliente e malleabile a seconda dei tempi, va comunque benissimo per questo apparente coacervo (ma congegnato con grande accuratezza) che accoglie un bildungsroman non proprio esemplare e riuscito, avventure on the road, cronache di vario tipo, appunti di lettura, citazioni pure o con commenti alquanto spregiudicati (e interessanti), riassunti di saggi romanzi racconti e film, articoli di attualità, mitologie urbane, pubblicità, musica, programmi televisivi, descrizioni di luoghi e costumi esotici, periferie, gruppi umani, comportamenti in genere piuttosto aggressivi di gentaglia di singolare ospitalità, come peraltro dimostrano le leggi sull’immigrazione di quella tanto, e tanto stranamente, appetita nazione, e le relative applicazioni contenitive che non solo non hanno nulla da invidiare alle nostre, ma da cui potremmo addirittura, ballardianamente, imparare. Il peggio è facilissimo da imitare.
Oggetto di letture giovanili compulsive del narratore, e poi di studi universitari e di un master mai portato a termine, Ballard è il filo conduttore, anche quando non appare, di tutto il volume, come un virus o una sostanza che genera visioni nel più ampio spettro del termine, incluse quelle di alieni e di spettri veri e propri, a quanto pare importati in Australia dagli inglesi e che poi lì hanno trovato un humus molto fertile, forse per incroci con il mondo sognato degli autoctoni, che peraltro i figli di Albione hanno sempre schifato e massacrato, e che da questo libro sono assenti.


Il protagonista è un “adulto problematico e spiantato” … “totalmente incapace di ricevere amore. … un orologio spento, un pesce morto”, come gli dice prima di lasciarlo un’amica che resterà per tutto il libro il suo maggiore rimpianto (gli spiantati sensibili, sensibili quanto a sé intendo, ne hanno parecchi). Ha spiccate tendenze all’autodistruzione, a volte consapevoli ma non per questo seriamente contrastate. Non manca di talento e intelligenza, ma tutta la sua vita è costellata di fallimenti, pressoché sempre e in ogni settore. Ne deriva una paranoia a tutto campo, alimentata, e più ancora alimentatrice, dalle visioni che una personalità già disturbata di suo è incline a produrre, a maggior ragione se accompagnata da una pluralistica e assidua scelta di sostanze solide e liquide particolarmente efficaci, a cui a un certo punto vanno anche ad aggiungersi le pasticche prescritte dagli psichiatri, e largamente disponibili sul mercato (quelle con la colomba impressa che appare anche sulla copertina), che dovrebbero invece ridurre, o quantomeno contenere, la sua variegata psicopatologia.



Spinto dalla propria inquietudine e dagli studi ballardiani, il protagonista intraprende viaggi nella sua patria e fuori alla ricerca non sa nemmeno lui di che cosa, a dispetto di tutte le teorie che può costruirci sopra.
Viaggi in cui ha modo di vivere molte esperienze di cui però non viene a capo, da avvistamenti UFO, incluso un presunto sequestro, alla persecuzione da parte di orde di ragazzini in ogni posto in cui si reca per convegni o per scrivere delle guide “Rough Planet”, di cui per un certo periodo vive e che sono un’occasione per dispiegare su tutto il pianeta la rete delle sue ossessioni. Ogni cosa trova il suo riscontro, e la sua illuminazione, in un passaggio, un’allusione, una citazione, un’implicazione delle opere di Ballard, si tratti di tendenze sociali, di mass-media, e persino di architettura, come quando usa Super-Cannes e Il condominio per leggere il quartiere creato da Piet Blom a Rotterdam, con analisi in più di un caso originali che molto contribuiscono alla bellezza e ricchezza del libro. Certo bisogna passare sopra, a volte, a qualche sovraccarico stilistico, a metafore e immagini forzate che a forza di tirarle si sfilacciano e magari si rompono, a qualche cliché dell’immaginario della science-fiction e dell’emarginazione ecc. (“muri disintegrati … che collassavano gli uni sugli altri provocando un’esplosione di antimateria che faceva franare le strutture dello spaziotempo”: cose così…). Eppure bisogna accettare queste forzature senza troppa puzza al naso, perché fanno parte da un lato dei momenti di schietto delirio, che come è noto gli stereotipi si nutrono, e sono riflessi degli automatismi che l’universo ballardiano sempre incombente scatena dall’altro, tra il critico, l’allucinatorio e il mimetico. Non tutto è delirio di interpretazione, in ogni caso. A parte che il delirio ha una sua bellezza e ricchezza (e potenza, per quanto non sia consigliabile su larga scala).
La realtà mostra il suo aspetto nascosto, l’inedito e l’incomprensibile trovano un senso, per quanto spesso perturbante. Niente di significativo del recente passato, del presente, come anche del futuro prossimo (reale o inverato a posteriori) resta inevaso. Niente tranne ciò che quelle stesse illuminazioni nascondono, reso invisibile dal loro grande bagliore o cancellato dall’ombra che producono. La realtà, più che essere spiegata dall’interpretazione, conferma la pre-visione. L’opera di Ballard, insomma, offre al narratore, come un oroscopo minuzioso e crudele, una visuale su ciò che gli e ci spetta a breve termine, poco consolante, anche nei suoi protagonisti non disgiunta da forza e coerenza.


“Ci saranno delle improvvise esplosioni di eventi politici, o culturali, epidemie, o forse serial killer, o qualsiasi cosa che squarcerà la superficie di tutta questa periferia. Ci sarà questa strana combinazione di noia e frenesia”, rivolte della classe media, nuove forme di fascismo, dice ancora Ballard nell’intervista citata.
E la violenza è una delle cifre anche del libro di Sellars. Il protagonista infatti incontra sempre gente incazzata, specie in Australia, dove i geni originari dei padri fondatori, delinquenti di prima scelta, sembrano essersi rafforzati anziché rammolliti nel tempo, come di solito avviene con la presunta civilizzazione; ubriachi, drogati, bikers in cerca di rissa (ovviamente), automobilisti che investono ciclisti senza ragione, per disprezzo e divertimento, attori e uomini pubblici che invitano a farlo, a liberarsi di questi insetti su due ruote, e ragazzi che li prendono in parola, gente ostile senza ragioni, aggressiva a tutto tondo e propensa alla brutalità, anche se viene il sospetto che a volte sia lui stesso a estrarre il peggio dagli altri non curandosi di celare o attenuare il peggio di sé, provocandoli con il suo comportamento o le sue parole, ovvero con il suo semplice lì dov’è e essere quel che è, che a volte basta e avanza. Comunque sia L’Australia che viene descritta appare come un posto orrendo abitato da gente orrenda. Non è il solo luogo che sfoggia queste commendevoli qualità, ma supera gli altri di gran lunga. E ci sono dei poveracci che fanno di tutto per emigrarvi! Detriti, masserizie e rifiuti gettati ovunque, dove capita capita, edifici abbandonati, terreni vaghi che si espandono sempre di più tra capannoni fabbriche e grandi magazzini cadenti, dove l’unico spazio vivibile per la maggior parte della gente sono gli abitacoli di macchine, truck, pick-up, camion e autotreni corazzati, l’unica casa la rete stradale o le piste che si perdono nello spazio aperto, “territorio di suprema, mitologica violenza” dove l’eroe ideale è Mad Max. Sono gli spazi di confine che Ballard chiamava “Edgelands”: “scarti del centro”, dice Philip, un amico (si fa per dire), del protagonista, “che trasforma in deiezione tutto ciò che non riesce a comprendere, tutto ciò che vede come una minaccia”; “luoghi in cui il futuro è sempre sul punto di accadere”, minaccioso, deprimente e euforico di volta in volta, o allo stesso tempo, quasi sempre pericoloso, “una giungla di interfacce” che sono però ciò che interessa e attrae, e si direbbe calamita, il narratore.
I personaggi che questi incontra sono strani (come Philip), e ancor più strani, o orribili, se all’apparenza “normali” (come gli accademici e gli stessi specialisti di Ballard che a mummia accademica lo hanno ridotto, come a neutralizzarne la visionarietà provocatoria e più reale del reale, vera di una verità ancora a venire); o oppure solo strambi e curiosi, come il giapponese telepatico capace di convocare a sé gli Ufo, che sembra pure capirlo e dargli persino consigli ragionevoli (a meno che non sia uno dei suoi allucinati doppelgänger): tutti però che, in modo conforme alla personalità che il narratore traccia di se stesso, incidono solo per quanto sanno inserirsi nel suo mondo altrettanto balengo e confermarlo. È lui infatti il fulcro e l’orizzonte di tutta la narrazione, gli altri personaggi hanno pochissimo spazio, sono figurine più che figure. Persino quella della donna amata, Catherine, che lo scrittore non nega al suo protagonista (l’amore non si nega a nessuno, tanto meno al lettore, meglio se infelice, effetto dell’inconcludenza), e compare solo in pochi passaggi, il più lungo dei quali è un sogno. Cosa che fa pensare, al di là della sua prevedibilità. Si tratta di un procedimento meditato però, un mostrare la figura indispensabile a ogni storia per poi sottrarla al lettore e alla storia stessa e usarla solo per qualificare il narratore e porlo davanti alla propria scempiaggine e inanità a dispetto della sua innegabile intelligenzia, o forse a causa di essa; per marcare con maggior forza le “esperienze di distacco” che costellano le sue relazioni con luoghi, cose e soprattutto persone, e ne costituiscono una delle ricorrenze principali assieme alla regola ballardiana del rovesciamento di ogni cosa nel suo contrario, del “bianco [che] diventa nero”. Che però raramente si rovescia a sua volta diventando di nuovo bianco. Il bianco è ciò che esiste, è sorgivo, in divenire; il nero definitivo.

Tutto viene visto, e in parte anche raccontato, con i sensi alterati, da punti di vista depressi o sovreccitati, siano droghe, psicofarmaci, alcol, o solo memorie e letture. Anche la sua vita sembra muoversi sempre in spazi marginali, mappati in modo incerto, dove ciò che accade magari non è lì, ma solo limitrofo, a venire; dove il sonno succede e lascia spazio all’allucinazione, la stanchezza alla paura, l’agitazione all’allarme e questo alla paranoia. E nondimeno l’effetto è spesso, per lui, solo la noia pura e semplice. I contorni [sono] labili e sfuggenti”, la “mente [è] stremata dal dolore”, preda di uno stato “apocalittico e spaventato, perennemente all’erta”, che se non è “euforico” è depresso, che è lo stesso. La normalità (se mai esiste da qualche parte), la calma, la lucidità, non si dice la serenità e il benessere, non hanno nessun ruolo, sembrano, loro sì, un racconto di fantascienza.

In un’intervista Ballard ha detto che il suo eroe tipico “si ritrova a raccogliere una sorta di crisi esterna” e radicale, che passa per catastrofi e situazioni estreme in genere, che egli accetta e assume invece di fuggirle, ma “questa crisi gli consent[e] di scoprire la sua vera identità”, cosa che invece in Sellars non avviene: anzi, nel suo libro è tutto un precipitare del protagonista nella confusione di piani e di luoghi, letterario e psicologico, di finzione e di realtà, fino alla dissoluzione e alla perdita dell’identità, all’autoannientamento. Quando qualcuno cerca di fermarlo, per lui è un sollievo. La prova che ci si preoccupa, sia pure professionalmente (psichiatri) o con altre mire (tutor, amici), di lui; ma non serve a niente. La libido (auto)destruendi permane e, dopo una pausa, riprende e si aggrava. “Come se la [sua] mente avesse deviato verso una fascinazione che un tempo aveva l’aspetto dell’orrore”. Non c’è guarigione. E tanto meno redenzione. Peraltro nemmeno cercata.
Che poi tutto ciò sia la premessa di una rinascita diversa, una palingenesi necessaria in questi tempi (pre)apocalittici, non è detto e nemmeno suggerito. A meno che questa premessa, o la sua preparazione, non sia, per l’autore, il suo stesso libro. La storia che egli racconta infatti, il fatto stesso di raccontarla, e che a farlo sia un narratore intento a ricostruisce la propria biografia, con tutte quelle scorie che nella raccolta differenziata sono destinate al secco apparentemente non riciclabile, pronte per l’inceneritore, non potrebbe essere proprio la prova che essa sia in qualche misura avvenuta? Senza ripescare il santino consunto della scrittura che salva e redime, un segno di cambiamento lo è di sicuro. L’organizzazione di un materiale caotico in uno spazio concluso e ben delimitato (un libro), costituisce già un’esperienza, per quanto non bell’e confezionata in tante piccole dosi pronte all’uso per ogni occasione, bensì in un insieme da risistemare e applicare alle circostanze dalla vita e della mente di ogni lettore, in modo inedito e magari spiazzante, come fa Sellars con Ballard, e come dovrebbe fare ogni lettore con ogni libro che valga qualcosa, come appunto quello di cui termino qui di parlare.



02/07/20

Ted Chiang, Respiro



Alcuni pensano che, come il noir lo sarebbe del romanzo politico e sociale, la fantascienza è uno degli ultimi rifugi della metafisica. O quantomeno della speculazione. “Il miglior terreno di coltura per le riflessioni eterodosse”, secondo le parole di Franco La Polla ovvero, per usarne altre di Valerio Evangelisti, letteratura che spesso si traduce in "metafora politica unita a metafora di una condizione esistenziale". Non a caso per essa, e altri generi affini (fantasy, horror, ecc.), è stata coniata la categoria di “speculative fiction”, che personalmente mi piace molto, quantomeno come definizione. Meno invece come categoria “ombrello” che racchiude praticamente tutto quanto non appartenga alla fantomatica narrativa realista o quasi, forse anche la mia carta d’identità.
Uno dei rappresentanti più significativi delle ultime generazioni è senza dubbio Ted Chiang, americano di padre cinese, classe 1967, di professione programmatore informatico, autore di una manciata di racconti scritti in 25 anni e raccolti in soli due libri, ma tutti di grande livello e risonanza e finalisti o vincitori dei più significativi premi del settore. Chiang è balzato alla notorietà anche fuori dalla cerchia degli amanti della sci-fi da quando il racconto che dà il titolo alla sua prima raccolta, Storie della tua vita (2002), ha fornito a Denis Villeneuve la base per il suo film Arrival. Da pochi mesi è in circolazione anche la seconda raccolta, Respiro, che è stato recentemente annoverato dal New York Times tra i cinque libri di narrativa migliori del 2019.

La produzione scarna dipende dal fatto che Chiang scrive solo quando vuole, cioè solo quando ha un’idea buona e originale, che può nascere da occasioni concrete anche banali, ma abbia in sé un nucleo forte, che la consuetudine impedisce di vedere e che quindi di solito non si cerca di indagare, o si indaga secondo parametri inadeguati alla novità che essa può celare sotto le vesti della routine, sociale o tecnologica, del già acquisito e archiviato. Chiang, in appendice ad ogni libro, e certo come elemento essenziale quanto i racconti veri e propri, per ciascuno di essi scrive una breve nota che informa sulle sue premesse personali e sulle notizie, letture o idee che hanno fatto da innesco alla loro stesura e talvolta anche su aspetti della realizzazione. Non si tratta di spiegazioni, quindi è inutile cercare chiavi interpretative dei punti di meno facile accesso (la scrittura è sempre chiarissima e senza fumisterie o vaghezze), o dichiarazioni di poetica o rivelazioni di metodi di lavoro: sono invece narrazioni di alcune premesse delle narrazioni, della loro urgenza e necessità per chi le ha scritte. Cioè, nel loro insieme, un racconto a parte: il racconto della nascita dei racconti.
Né d’altra parte la narrazione dell’occasione riduce i racconti a illustrazioni di una tesi e nemmeno a verifiche di ipotesi predefinite: essi sono invece costruzioni narrative di ipotesi che solo nelle storie narrate diventano tali e trovano la loro formulazione, dando luogo e vita alle loro indagini e sperimentazioni speculative, che narrative sono in tutto e per tutto, e tali restano in ogni caso.

Gli argomenti dei racconti sono molto vari, ma con temi ricorrenti, per sorprendenti siano le pieghe narrative che poi prendono. Alcuni sembrano costituire come il sottofondo, se non la base di partenza degli altri. Come per esempio il 2° e il 3° racconto di Storie della tua vita, “Capire” e Divisione per zero”, che hanno per oggetto il problema del senso che, se fosse compreso nella sua totalità, come nel primo, non lascerebbe altro spazio per nient’altro ribaltandosi così nel suo contrario: completa saturazione che si traduce nell’assenza di qualsiasi senso, come peraltro avviene nel nostro mondo saturo di ogni cosa, dalle merci alle informazioni vere e false (come se il senso non fosse differenziale, e quindi incolmabile e infinito, e proprio questo impedisse la sua estinzione); mentre nell’altro la dimostrazione che il fondamento di ciò che si riteneva il paradigma della certezza, la matematica, è in realtà una contraddizione, si ripercuoterebbe su tutto ciò che certo non è, privando, di nuovo, di qualsiasi valore l’insieme, dissolvendolo, e con esso la vita tutta. “Tutto quello che facciamo [diventa] irrilevante”, anche se poi, dice alla fine del suo discorso l’archeologa-teologa di “Omphalos”, uno pei pezzi forti di Respiro, “in quanto esseri umani siamo [comunque] in grado di dare un senso alle nostre vite. … Anche se noi esseri umani non siamo la risposta a un perché, io continuerò a cercare una risposta al come”.
In essi c’è già anche un altro dei temi ricorrenti dello scrittore statunitense, quello dell’empatia, e fa la sua comparsa quello del linguaggio, che diventerà centrale nell’opera successiva, a cominciare dal racconto eponimo del primo libro e poi, diffusamente, in Respiro.



Altri due temi portanti, e ovviamente connessi tra di loro, sono quelli del tempo e del libero arbitrio in rapporto al fatto che il futuro, per quanto impossibile da conoscere a priori, è implicito, come esito necessario e quindi non libero, nella necessità che ogni azione porti ineluttabilmente verso qualcosa. Idea che si incarna con grande efficacia nella diversa logica temporale degli alieni di “Storie della tua vita”, per i quali il futuro ancora non avvenuto eppure già attuale determina il passato e il presente ancora in fieri. Secondo una diversa prospettiva, ma in modo simile, nel breve e folgorante “Cosa ci si aspetta da noi” il futuro anticipa il presente, come accade con l’Oracolo, un oggetto ludico che è composto solo di un pulsante e di un led che si illumina sempre prima che si riesca a toccarlo, per subito spegnersi non appena si sospende il gesto: il gioco consiste nel tentare di premerlo prima, cioè nel ripristinare una causalità e una successione temporale lineare “normali”, che però a nessuno riesce mai, a dispetto di ogni strategia o decisione, che quindi non contano nulla. Anche la possibilità indagata nel lungo, notevole racconto finale di questo libro, “L’angoscia è la vertigine della libertà” , di intervenire nelle vite alternative che si biforcano a partire dal Prisma, uno schermo con due luci che danno il via ad altrettante possibili vite a partire solo dal momento in cui viene accesso, sembra aprire spazi di libertà, e insieme di irresponsabilità poiché induce alcuni a credere che questo “annull[i] il peso morale delle loro azioni” e a cedere a quello che Poe chiamava il “Genio della perversione”, cioè a compiere delle azioni anche sbagliatissime solo perché è possibile farlo; cosa che però non impedisce che le azioni restino imprigionate in un rigido determinismo.
Infatti i futuri alternativi messi in comunicazione dal Prisma sono entrambi perfettamente coerenti e indipendenti, ma a loro volta determinati, tanto che persino il contatto tra i rispettivi sé delle diverse linee temporali non riesce a modificare il corso degli eventi, dal momento che se anche uno viene modificato, quello che deriva dal mancato incontro procede seguendo il suo corso, così come segue il suo corso quello determinato dall’incontro e dall’intervento. E così avviene anche per il passato, nonostante il portale che consente di accedervi del primo racconto, “Il mercante e il portale dell’alchimista”, che sembra una variazione delle Mille e una notte in chiave borgesiana.
E allora che ne è del libero arbitrio, a cui aspirano persino i digienti, cioè gli enti digitali capaci di imparare e evolversi del magnifico “Il ciclo di vita degli oggetti Software”?
“Voglio sapere se le mie decisioni contano qualcosa!”, esclama una donna durante una delle sedute del gruppo dei prismadipendenti nell’ultimo racconto. “Sono certa che le nostre decisioni abbiano un peso”, le risponde Dana, la psicologa che fa da guida e supporto al gruppo. “Comportarsi correttamente è comunque sempre preferibile, perché i futuri possibili saranno popolati da una versione migliore di noi stessi”.
A un simile comportamento dovrebbe indurre anche la protesi oculare di “La verità del fatto, la verità della sensazione”, che trasforma in “cyborg cognitivo” chi se l’è fatta applicare permettendogli di registrare ogni cosa veda o gli accada e facilitando l’accesso a ogni momento del passato in qualsiasi circostanza, in particolare nelle dispute sulla “vera” versione di un fatto o sulle parole effettivamente dette. Il rischio però è di portare nelle relazioni, soprattutto nelle più strette come quella tra padre e figlia nel racconto, una “mentalità da segnapunti”, mentre invece tutto dovrebbe reggersi sul “perdona e dimentica”; tanto che il protagonista finisce per chiedersi se non ci sia “una linea oltre la quale il perseguimento della verità cessa di essere un bene intrinseco” e rischia invece di “essere dannoso”.

Domande che ci riguardano, anche se le storie si svolgono in un tempo che può andare da un passato che assomiglia molto a quello storico, come nello steampunk; oppure in un presente per qualche minimo aspetto alternativo; o in un futuro prossimo che potrebbe essere l’effetto o il seguito quasi immediato del nostro, determinato da qualcosa che già esiste, ma come elemento inavvertito che inaugura una serie imprevedibile ma plausibilissima di conseguenze. Anche laddove sono presenti il meraviglioso e lo straordinario vengono infatti narrati come qualcosa di normale, all’interno di un mondo con regole proprie, poco o nulla differenti dalle nostre, che gli conferiscono realtà e verità, e cioè piena evidenza. Lo straniamento che ne risulta è leggero, l’effetto sorpresa dura un attimo; poi la sospensione dell’incredulità viene accettata senza fatica e ci adattiamo alla nuova realtà senza manco rendercene conto.

Invece di dare alle vicende narrate pieghe sorprendenti e spettacolari infatti (conflitti, cataclismi, distopie, comportamenti estremi), Chiang opera sempre un abbassamento e le porta al livello della quotidianità che ciascuno dei mondi creati comporta, la più banale possibile. I problemi sono quelli che si presenterebbero ogni giorno a qualsiasi individuo in relazione al suo ruolo sociale e alla sua professione, di solito piuttosto comune. L’avventura è quella intellettuale, della conoscenza e del rigore della verifica delle ipotesi prese in esame, non disgiunta dalla componente emotiva e sentimentale, cioè umana, non marcata ma diffusa. Una routine con i suoi accidenti e pochissimi stravolgimenti, se non quelli derivanti dall’evoluzione plausibile, in cambiamento continuo, per quanto spesso lento e quasi mai catastrofico. Questo rende più accettabili anche i mondi più lontani dal nostro odierno, anche se nella maggior parte dei racconti tanto lontani non lo sono, con problemi di sopravvivenza e soprattutto con implicazioni cognitive e morali che, astratte dal loro contesto, non faticherebbero ad adattarsi al nostro, e quindi a a interrogarlo, e talvolta a illuminarlo.

Il ritmo della narrazione è lento, meditato, analitico: non c’è nessuna fretta di far accadere qualcosa: prima vanno percorse tutte le diramazioni e implicazioni del problema o della situazione presentati; solo dopo si può passare ad altro, che non è necessariamente un evento o un’azione che serva a portare avanti la trama, ma può essere lo stesso problema o la stessa situazione sviluppati secondo un’altra prospettiva logica. L’azione, la modificazione, non sono tanto dei personaggi o dei fatti, quanto del pensiero.
Il tono prevalente non è di angoscia, speranza, preoccupazione, delusione, disincanto, allarme, denuncia, incubo, profezia ecc.; l’esposizione è chiara, lucida, poco emotiva, non dico anaffettiva o distante, perché il cuore del problema è forte e intenso, non evasivo, e forse proprio per questo il narratore cerca di evitare di caricare emotivamente e espressivamente il proprio dettato, se non disseminandolo a volte di sottilissima ironia, quasi impercettibile, e quindi di ottima qualità, e di un umorismo che il regime non di rado paradossale del contesto tende a velare ancora di più, ma che appunto per questo è più pungente e efficace.
Ad alcuni questo tenore espressivo poco mosso, se non proprio uniforme, è parso una limitazione, una forma di piattezza: un’assenza di stile, insomma; io credo invece che non solo sia voluto, ma costituisca una delle principali componenti del grande fascino di tutto ciò che Chiang scrive, la necessaria compensazione dell’enfasi che l’eccezionalità delle situazioni narrate può facilmente indurre, e il modo migliore per stimolare la nostra empatia e farle accedere alla nostra esperienza.

Nel coro spesso scomposto e teatrale dei catastrofismi e della corsa al pessimismo più estremista, per quanto in buona misura suffragato dalla realtà, la voce di Ted Chiang (che pure fa dire a un suo personaggio: “a preoccuparmi quanto l’ipotesi di una disfatta della tecnologia, è il suo successo”) si segnala per la sua pacatezza, per l’apertura a possibilità non ottimistiche o di buonismo volontaristico e vacuo, ma semplicemente verso ciò che è pensabile ma non ancora pensato, o pensato in modo parziale, subito abbandonato in quanto non suscettibile di condurre a soluzioni immediate o a breve termine efficaci, miracolose. Già questo, forse, è un gesto umanistico importante, che incorpora un principio di speranza essenziale, non ostentato né però soffocato. D’altronde anche solo prendere una penna in mano e scrivere, non importa cosa, fossero pure anatemi, è un gesto ottimista. Lo sanno bene i profeti di sventura. Se no la penna resta dov’è. Come dovrebbe restare la bocca di tanti: chiusa.


Nota di lettura
Storie della tua vita è stato tradotto prima, mela traduzione di Giovanni Lusso per Stampa alternativa, nel 2008 (e. or. 2002), e poi, in quella di Christian Pastore, da Frassinelli, nel 2016. Agli stessi editore e traduttore si deve anche Respiro, di quest’anno. Alcuni dei racconti inclusi in questo libro erano già usciti in antologie di Urania e riviste come Robot, e uno, il romanzo breve Il ciclo di vita degli oggetti-software, vincitore dei Premio Hugo e Locus nel 2011, era stato pubblicato nello stesso anno in un volumetto autonomo da Delos Books, con la traduzione di Francesco Lato, nella collana Odissea Fantascienza ricca di romanzi brevi di notevole valore.
La frase di Franco La Polla si trova in uno dei saggi di Filosofia della fantascienza, a cura di Andrea Tortoreto, edito da Mimesis nella collana “Il caffè dei filosofi”, dove sono numerosi i libri dedicato all’analisi filosofica di opere di fantascienza letteraria e cinematografica: tra gli ultimi l’interessante AA. VV., Immaginari alterati. La citazione di Evangelisti l’ho tratta dal forum Rock Temple. Di “Storie della mia vita” e Arrival hanno scritto su doppiozero Giulia Iannuzzi e Nunzio La Fauci e Sergio Di Lino.


01/07/20

Ricordi di copertura 12 (A Marco su suo articolo sui 25 aprile di Calvino, 21-04-2020)





Molto bello il tuo articolo, Marco, grazie di averlo scritto.
Sai una cosa? Leggendolo mi è tornato in mente che certe citazioni, anche molto importanti, come quelle di Levi sulla memoria, io non riuscirei mai a usarle, per quanto valore di verità e pensiero gli attribuisca. In te, e pochi altri, mi sembrano giuste, “naturali”, utili, mentre per me è come se una barriera, un interdetto, mi impedisse di usarle. E’ sempre stato così. Il mio primo libro, ovviamente inedito, scritto tra i 21 e i 22 anni, te l’ho già detto di sicuro, e di cui ora non so nemmeno se ho in giro una copia dattiloscritta, era tutto basato su citazioni, ma spiazzate, svuotate, sciocchissime, come se fossero inedite, con il riferimento ironico del grande nome o titolo, correttissimo, e insieme inventate da me in quel momento, tanto erano inverosimili. E qualcosa del genere mi succede anche ora, con tante espressioni che non userei mai, che magari ci sono in ciò che scrivo, ma come omesse, la cui eco risuona per chi la sa percepire, ma in assenza. Un bell’impedimento, ma tant’è. Basta che ogni tanto ci sia dell’altro, che fa spazio anche alla loro cancellazione.

Buona giornata
A questo pomeriggio