28/08/14

Deleuze e i corpi speciali. (Deleuze è solo una scusa)




 

Perché a colpire è quasi sempre il banale, ciò che si sa già, ma in una combinazione che, in un dato momento, ti fa dire: ma è ovvio!, come ho fatto a non pensarci prima? Beata ingenuità! Per esempio che Deleuze può essere utile ai corpi speciali israeliani, come illustrato da un loro alto ufficiale, per elaborare nuove strategie di penetrazione nel territorio nemico, di perlustrazione, effrazione e attacco.
Se una cosa serve per il bianco, può servire anche per il nero; se un'opera apre il pensiero al filosofo, perché non dovrebbe aprirlo a un militare (purché sia pensante: e ce ne sono)? Poi lui se ne serve per aprire i muri. Squarciarli. Distruggerli. Quelli altrui. E edificarne di nuovi (suoi).
Allora non è la banalità a colpire, ma il riscontro, o meglio: la flagranza della nostra stupidità. Ovvia è la sua evidenza. La verifica della sua presenza in noi, almeno in parte, almeno per un dettaglio, viene superata. E l'assunzione è il suo superamento. E il superamento è l'accettazione. O piuttosto: la consapevolezza, sempre rinnovata perché presto dimenticata,  della sua consustanzialità al nostro stesso essere. Persino al nostro! Soprattutto al nostro.
(E subito si dimentica ancora.)

 

26/08/14

Seduti in panca, o inginocchiate a terra (le donne) - Figura di schiena, Materiali 7





Dopo avermi fatto dono di una recensione molto bella e benevola dell'ebook (http://www.laricerca.loescher.it/index.php/attualita/arte-a-musica/948-sarchi-figura-di-schiena), Alessandra Sarchi mi regala anche questo splendido disegno di Monaco seduto sulla panca, tratto dal Codex Vallardi 2332, XV secolo. Anche se più che un monaco, quello sulla panca è un panneggio puro e semplice, come una sagoma in attesa di un corpo, o il fantasma di un monaco. Un fantasma triste.
Pisanello, il suo autore, è uno dei massimi produttori italiani di figure di schiena della prima metà del '400, tutte di grande valore per qualità e varietà. Alcune le potete vedere qui (http://figuradischiena-luigigrazioli.blogspot.it/2014/08/pisanello.html); un paio le ho commentate nel libro. E' un disegno bellissimo, come lo sono tutti quelli di Pisanello, ed è anche un unicum, a mia conoscenza, di figura di schiena seduta rappresentata isolatamente (è vero che si tratta appunto di un disegno però...).
Questa appartiene al tipo dei repoussoir, per dirla alla francese, cioè quelle figure (o masse di colore) che servono a dare profondità al quadro, messe in primo piano ai lati o al centro della composizione. Sono personaggi o oggetti poco rilevanti per la loro identità ma significativi dal punto di vista compositivo, e anzi tanto meno rilevanti quanto più funzionali alla struttura spaziale dell'immagine.  Le figure di schiena, come è facile intuire, svolgono molto spesso questo compito, anche quando collocate in secondo piano o verso il fondo (vedi tutte quelle figurine che, da Van Eyck in poi, guardano dalle mura, da una finestra o da un ponte o una balaustra).
Messe in primo piano però, hanno anche il ruolo di separare lo spettatore dalla scena rappresentata e al contempo di fungere da suo rappresentante, come una sua proiezione: un essere anonimo con cui identificarsi e condividere le emozioni talvolta travolgenti (come nelle Deposizioni, a partire da quella di Giotto agli Scrovegni).
La figura di schiena seduta su una panca appartiene invece alla tipologia dell'Ultima cena, dove è meno frequente di quanto si potrebbe pensare (a un apostolo è difficile negare almeno un accenno di lineamenti), e in certi casi anche della Pentecoste, e successivamente di altre occasioni conviviali. Qui sotto due esempi ancora del capostipite Giotto


e uno del Museo diocesano di Prato di cui non ricordo l'autore (mi scuso per la qualità della foto)

 Talvolta sono anche, esplicitamente, degli spettatori o ascoltatori, di una lezione, come in questa immagine di Laurentius de Voltolina, 1380, Henricus de Allemania, Liber ethicorum, Kupfertichkabinett, Berlino,


di un giudizio, come in questa bella tavola di Bernardo Martorell, 1435 ca, Giudizio di San Giorgio, al Louvre,


o di una predica come questa Predica di San Bernardino, Museo dell'opera del duomo, Siena, di Sano di Pietro (autore anche di un'altra, simile, sempre ambientata a Siena).

Qui completamente di spalle o con lineamenti quasi impercettibili sono solo le donne; gli uomini, loro, sono tutti dotati di tratti ben delineati, discretamente individuati, anche se dire che siano veri e propri ritratti è forse azzardato. Ma potrebbero esserlo, alcuni almeno. Perché no? Gli uomini ne hanno il sacrosanto diritto.
Per le donne, armarsi, anche qui, di pazienza. (Santa, la pazienza, come il contesto esige, peraltro.)

22/08/14

Imparare è difficile. (Ma insegnare non lo è meno.)





Lo incrocio mentre sta chiudendo il cancello della recinzione che circonda il prato dell'asilo. Appena mi vede capisce che se parla io sto ad ascoltare. E come no? Ce l'ho stampato sulla faccia in tutte le lingue e scritture, inclusa quella a fumetti per gli analfabeti. Ha misurato a occhio la mia angoscia, senza capirci niente (come me, del resto), se non che c'era: cioè l'essenziale, e mi ha rivolto la parola. Avrà settant'anni, o forse meno, ma portati male (o benissimo: nel senso che non gli importa un fico secco di come appare, che ha rinunciato a qualsiasi pretesa di seduzione e a qualsiasi illusione sul proprio corpo, che non vale la pena mettere in ghingheri e già sia ringraziato il cielo che è ancora sano e forte). È piccolo, tarchiato, i muscoli appena spalmati di uno strato di grasso, ma sotto, e si vede, ancora forti, scattanti; indossa vecchie scarpe di cuoioplastica marroni, braghe di tela il cui colore originale, se mai lo hanno avuto, è ora sbiadito in tutta un'enciclopedia di verdegrigi perfettamente abbinabili a ogni tipo di erba, tranne quella appena tagliata, e una canottiera a maniche corte color carne sfumante al cenere, con i tre bottoni sul davanti, uno solo allacciato. Siccome guardo il secchio da muratore appoggiato alla sella della sua bici, pieno di piccoli frutti che forse sono susine selvatiche o forse pomodorini, senza nemmeno salutare (il saluto è implicito: ci siamo guardati senza distogliere subito gli occhi) mi spiega che vengono dall'orto in fondo al prato, che lui cura insieme ai bambini dell'asilo, ora chiuso per vacanze.
Faccio un cenno di assenso con la testa ancora un po' pesante e gli chiedo se ci sono scoiattoli lì, perché tempo fa mi è sembrato di vederne uno. Dice che lì sono pochi ma che ce ne sono in abbondanza altrove, in paese: in particolare al cimitero e immediati dintorni. Ah, ecco! Perché lungo le rive del fiume e nel bosco vicino sono stati quasi debellati (il termine è mio, e lo uso solo qui, scritto: a voce i suoni non mi arriverebbero nemmeno a formarsi), o deportati, dalle guardie del parco. Una deportazione pietosa, come quasi tutte le deportazioni del resto, per il bene di questo o quello, a volte persino dei deportati stessi: per mantenere l'equilibrio originale del sito, dato che quelle bestiacce proliferano senza freni, non avendo avversari né predatori, e non fanno che danni, peggio dei topi. La natura vergine! Pura! Esattamente com'era nel momento x, quello prima che qualcuno arrivasse da fuori a contaminarla. Prima di quando si è deciso di ostacolare ogni cambiamento che non fosse naturale e autoctono. Quindi volpi e faine sì, ma niente scoiattoli grigi, niente nutrie né procioni... E i pesci siluro, i gabbiani delle discariche e i corvi e i piccioni? Beh, quelli ogni tanto una strage ci può stare. Appunto.
(Stamane, all'alba, per esempio, i guardiacaccia hanno punito con centinaia di cartucce l'hybris procreativa dei piccioni. La loro smodata libidine!)
Come i topi, sì!, conferma. Che lui se n'è ritrovata in cantina, non sa come, tutta un tribù, papà mamma e un battaglione di figlioletti. Una cantina che ci potevi operare tanto era pulita e ordinata! Che ci facevano tutti quei topastri? Finché non si è accorto che la tela cerata di un sacco di granturco era rotta o rosicchiata. E mi racconta come ha fatto a sbaragliare l'orda devastatrice... Gli è venuto buono il know-how dei nostri nonnini, dice (ha usato proprio questa espressione). Conoscenze  che vanno perse giorno dopo giorno, purtroppo. Per sempre. A far capire queste cose ai bambini però non si riesce. Nessuno vuole più imparare... e così il know-how dei nonnini, ribadisce, va perso. Eh, è difficile insegnare oggi, dico io. È che non stanno attenti, fa lui; magari ascoltano per un po', ma si stancano subito. E mi spiega come ha fatto a sconfiggere il flagello. Ha disseminato per la cantina (disseminato è mio; cioè, non solo mio...) di pacchetti di carta con dentro non so cosa, come gli aveva insegnato il suo di nonnino subito dopo la guerra, quando stavano ancora tutti nelle cascine e stanze, granai e fienili erano infestati... perché il paese allora non c'era nemmeno: solo la chiesa e qualche cascina... e le tre ville dei signori... appena fatte però, quelle... e i topi li hanno aperti (i pacchetti), hanno mangiato tutto il contenuto, molto appetitoso, e quasi subito hanno cominciato a star male... a lanciare urla... come fischi, acutissimi, impressionanti... e a morire tutti, dal primo all'ultimo. Ad aggredirsi a vicenda, anche... prima i grandi con i piccoli e i piccoli tra loro, e poi i sopravvissuti, a dilaniarsi con una ferocia mai vista... a sbranarsi, mi sembra che abbia detto, senza diffondersi oltre. Non ricordo bene. Non aveva il dono della spiegazione... Forse è per questo che i bambini non lo seguono. O forse ho capito male io. Forse a quel punto mi ero già distratto.