29/10/22

Ricordi di copertura 31. Come non sono diventato scrittore.

 


Dei miei primi tre romanzi non ricordo niente. O quasi. A parte i titoli. Due su tre. Mi manca ancora il primo. Il secondo si chiamava Hortus inconclusus, il terzo Per tentativi ed errori. Magari continuando a scrivere qualcosa mi torna in mente. Perché non vado a controllare? Perché non ho più nemmeno i dattiloscritti. O forse uno, da qualche parte. Li ho scritti tra i 21 (di questo sono sicuro: ero ancora soldato, a Silandro, come infermiere, e di notte leggevo e talvolta scrivevo; più spesso studiavo per preparare gli esami che poi avrei dato a raffica una volta congedato) e i 27, o forse 28. Del terzo ricordo di averlo terminato il giorno del mio compleanno, nel 1978 o 79. Comunque ero già sposato (2 luglio 1977). Ricordo benissimo l’inizio del primo. Dopo tanto tempo che letteralmente non riuscivo a scrivere più nulla (la famosa crisi dei 18-19 anni, che ha vissuto anche il collega Rimbaud), che aveva fatto seguito a una stagione di scritture prolifiche, a partire dai 15 anni che però si era avviata verso l’afasia solo tre anni dopo, forse in concomitanza della maggiore età, preceduta da una stagione di frasi spezzate, parole marce, frammenti insensati e altri sintomi di crescita, una sera, di colpo, in un’ora, con la mia grafia già allora minuscola, anche se non quanto quella recente che ora mi ostacola persino la decifrazione degli stessi appunti che sto copiando e rielaborando qui, ho riempito recto e verso 7 schede 11x15 che usavo per citazioni, schemi e riassunti dei libri che stavo studiando. Ho scritto una frase e sono andato avanti senza sapere ciò che stavo facendo e che direzione dare alla biro che stringevo in mano come se volessi strozzarla. Che è più o meno il metodo che ho seguito per tutta la vita: e i risultati stanno a dimostrarlo. Quando ho alzato la testa: questo è un romanzo, ho pensato. Sorpreso dal mio stesso pensiero, del tutto inatteso. Mai avevo pensato di scriverne uno. Non sapevo nient’altro, solo che in qualche modo dovevo continuare. Mettere una frase dopo l’altra, senza sapere quale sarebbe stata, e che davvero, stavolta, avrei continuato.

La prima cosa che ho scritto, quella sera nell’infermeria della caserma di Silandro, riguardava l’esperienza di una non esperienza, di un’esperienza mancata: o meglio ancora, la percezione, forte e amarissima, di un’emozione defraudata, vissuta come sua dal protagonista mentre usciva da una casa, prendendo l’aria fresca sul viso, ma solo dopo che un altro, un altro come lui, che alla fine si sarebbe rivelato davvero un altro lui, una specie di doppio o proiezione con tutti i crismi della realtà, l’aveva vissuta senza davvero viverla, senza farci caso, del tutto inconsapevole anzi, e poi, graziosamente, questione di microsecondo, e di nuovo inconsapevolmente, gliela passava perché la vivesse anche lui, ormai consumata però, inservibile, eppure come se fosse una cosa sua e solo sua.

Praticamente c’era già tutto lì. Praticamente avevo scritto, di getto, senza saperlo, senza sapere cosa andavo scrivendo mentre scrivevo, la scena originaria di tutto ciò che avrei scritto o vissuto poi. O quasi. Quasi scritto, quasi vissuto. Pur scoprendo, poi, che anche le scene originarie sono sempre seconde, o terze, o quarte: esattamente come l’esperienza del protagonista.

Poi del libro ricordo il finale, che magari racconterò perché tanto nessuno lo leggerà (e se capiterà che spunti fuori da qualche recesso sarà come se lo leggesse per la prima volta, perché nel frattempo l’avrà dimenticato e allora sarà come se lo leggesse per la prima volta, accorgendosi però, durante la lettura, che forse già sapeva cosa stava succedendo, che forse in qualche modo l’aveva già letto, qualcuno gliel’aveva già raccontato) e come era costruito. Qualche immagine confusa, più che scene, e davvero nient’altro. In fondo sono passati cinquant’anni. Il principio costruttore (dal momento che non avevo idea di cosa avrei scritto mi sono concentrato sul come) era di scrivere tanti capitoli ciascuno con un linguaggio diverso (come Joyce!) che nascevano o si sviluppavano partendo da citazioni di grandi autori e studiosi e filosofi, o quantomeno quelli he a me allora sembrava tali, ma citazioni stupide, insensate o banalissime, che avrebbero potuto benissimo venire da chiunque, inservibili, se non per il rimando ironico quanto puntuale, all’autore, titolo e pagina inclusi, da cui erano state estratte. Ne ricordo tre: “Stai lì, povero cane”, dall’Ulisse di Joyce (appunto), “Politico!” dall’Ideologia tedesca di Marx e soprattutto, quasi un tormentone, “Questo gioco deve finire” dai Saggi di linguistica generale di Jakobson. Roba fina!

Il libro consisteva in varie piccole avventure nella quali il protagonista cercava l’usurpatore involontario della sua esperienza, e insomma della sua capacità di vivere direttamente ciò che gli capitava di vivere (mi sono accorto poi), fino a che lo trovava da qualche parte a Bergamo alta e da lì partiva un inseguimento che portava entrambi al palazzo biblioteca in Piazza vecchia, proseguendo poi per la scalinata, nei saloni di lettura e poi, passando per una saletta fino all’ultimo piano dove l’inseguito, vistosi ormai raggiunto, si gettava da una finestra seguito  dal protagonista che si era gettato per acciuffarlo. Il libro finiva con i due che si fondevano a mezz’aria. Li vedo ancora lì, per l’eternità.

Non so come sia arrivato a questo, ma a posteriori, appena scritto, ho capito che era l’unico finale possibile, giù dalla mia biblioteca preferita. Negli anni successivi, man mano che leggevo testi (psichiatrici) sulla schizofrenia, mi sono fatto la curiosa, e certo infondata, opinione che il romanzo contesse un bel campionario di sintomi schizofrenici, o psicotici in genere, e mi sono raccontato la storia (mi sono illuso per qualche tempo) che scrivendolo avessi in qualche modo esorcizzato, attenuato se non proprio evitato, il pericolo di caderci. Considerazione che aveva il vantaggio di unire, come i due bei tomi (si noti il sostantivo) a mezz’aria, il fascino della malattia, grave ma spesso appannaggio di persone geniali, con il conforto della tranquilla normalità da cui, forse illudendomi una seconda volta, sono affetto da tutta la vita.

 


Ps.

Direi di fermarmi qua. Avevo trovato un editore, anche discreto, ma è fallito poco dopo che avevo preso accordi verbali con il direttore. Lui si chiamava Stefano Jacini, come il famoso politico e economista dell’altrettanto famosa Inchiesta Agraria e forse suo discendente. La casa editrice, Il Formichiere.

Il secondo romanzo l’ho scritto tra l’estate del 74 (nel frattempo avevo scritto la tesi e nel giugno mi ero laureato) e il 75/6. Forse ho una copia in giro, in fondo a qualche scatolone, ma per non sprofondare dalla vergogna, non l’ho più riletto dopo che Alfredo Giuliani, a cui l’avevo mandato per sondare la possibilità di pubblicarlo presso la Cooperativa scrittori, che a breve avrebbe chiuso, mi aveva detto che gli era piaciuto, ma che era un libro che avrebbero letto e gustato sì e no 150-200 persone e che se fosse stato un editore industriale si sarebbe guardato bene dal pubblicarlo (l’ho incontrato a Bologna: era la prima volta, siamo andati a pranzo a una famosa trattoria, credo, “del ferroviere” o roba del genere, assieme a Giorgio Celli, brutto, sporco, con un girocollo blu senza camicia pieno di padelle, ma molto simpatico anche da alticcio; dopo, a casa di Alfredo, avrei incontrato per la prima volta quello che sarebbe stato per 40’anni il mio migliore amico, Lucio Klobas). Ricordo che si intitolava, molto immodestamente Hortus inconclusus, e che, molto più immodestamente ancora, aveva l’ambizione di essere una specie di Fenomenologia dello spirito, con la piccola differenza che, invece di una rigorosa concatenazione dialettica di concetti, sarebbe consistito solo di chiacchiere, ma incatenate in modo tale che, teoricamente, il lettore non poteva saltare una frase senza perdere il filo del discorso, basato, invece che sulla dialettica, sulla sintassi. Una frase partiva in un modo e finiva da qualche altra parte che veniva ripresa dalla frase successiva che a sua volta veniva ripresa, per andare da un’altra parte ancora dalla successiva ecc. Come è finita l’ho già detto.

Pazienza. Nel frattempo ne avevo cominciato un terzo e poco dopo mi sarei sposato (nel ’77), che avrei terminato nel 78. Questo si intitolava Per tentativi ed errori, e con il primo condivideva le citazioni, come quella inziale dei due calzini spaiati del protagonista, uno rosso e uno blu come nel finale di Gioventù bruciata, e con il secondo un assunto filosofico (non avevo non mi ero laureato in teoretica per niente, vero?), tra molte virgolette: quello di scrivere qualcosa che confutava un’affermazione di Kant, dalla Critica del giudizio se ricordo bene, cioè che tutto poteva diventare oggetto di rappresentazione estetica, tranne il disgustoso, cosa che però è rimasta circoscritta a un episodio o poco più: la scena molto dettagliata in cui il protagonista per salvarsi dall’incendio che stava distruggendo il cascinale diroccato in cui abitava in quel momento si gettava nella fossa dei liquami. Una cosa del genere l’avrei fatta anche nel mio ultimo romanzo (Tempesta, scritto tra il 2007 e il 2008 ma pubblicato - sì, pubblicato - da Effigie nel 2011), con una descrizione minuziosa degli effetti del vomito su un pavimento, di cui vado particolarmente orgoglioso (a ciascuno il suo). Sta di fatto che questo deve essere stato l’effetto che invece ha suscitato nei lettori, perché anch’esso è rimasto inedito. Cioè, siamo onesti, schifo al redattore per la narrativa di Feltrinelli di quel periodo, Aldo Tagliaferri (sì, lui, il lettore e traduttore di Beckett tra l’altro) non ne aveva fatto, se mi aveva detto che avrebbe proposto di pubblicarlo, con un minimo intervento a un capitolo su cui ci eravamo presto accordati, alla prossima riunione con il direttore, che allora era Antonio Porta. Il quale si è poi dimesso, qualche tempo dopo, ma non prima di aver bloccato il mio libro a favore di quello un altro giovane sconosciuto. Mi sono un po’ arrabbiato, ma quando l’ho incontrato successivamente non gliel’ho ricordato. Perché i fatti avevano dato ragione a lui. Il libro era di un certo Tondelli e si intitolava Altri libertini. Poteva pubblicare anche il mio, dopo, volendo… Invece niente. E io per 10 anni non ho scritto più niente. Solo qualche recensione e ogni tanto brevi frasi isolate, che poi, incollate insieme in grumi apparentemente omogenei, sarebbero diventate il nucleo del mio primo libro, uscito grazie a Lucio Klobas presso Campanotto nel 1991, che si sarebbe intitolato Cosa dicono i morti. Appunto. 



 

27/10/22

La cosiddetta cosiddetta


Ci sarebbe questo scrittore per il quale ogni parola è una citazione, la cosiddetta società, la cosiddetta arte, ecc., (a cui io aggiungo la cosiddetta cosiddetta), che dichiara impossibile giungere a una qualche verità per quanto vi si tenda (si debba tendervi) e dai cui testi è quindi impossibile estrarre anche una sola frase, per quanto attraente (e ve ne sono a bizzeffe) perché non corrisponderebbe a nessuna certezza indiscutibile, e i commentatori, certo, dicono, è proprio così, ma poi citano lo stesso, come farò io, e quando vogliono avere le spalle coperte si appoggiano al muro delle dichiarazioni del suddetto autore in interviste o discorsi o interventi vari in prima persona, a proposito dei quali però io, sì: io, non vedo perché dovrebbero essere meno menzognere, labili, inconsistenti di ciò che viene estratto da romanzi e drammi, a meno che, certo, non sia un qualche valore di verità che si intende sbandierare, bensì un uso personale, ai propri fini, dichiarati o meno, che si ammantano dell'autorità di un nome o della forza o grazia della citazione, che allora... Eh sì: allora.
***
(E' un vecchio appunto. Rileggendolo per caso oggi, mi chiedevo a chi si riferisse: potrebbe essere adatto a tanti. Anche al sottoscritto, per molti versi. E invece poi mi sono accorto che riguardava un autore, non dirò quale, di cui ho finito di leggere l'ultimo libro proprio ieri.)

24/10/22

Rubens, Santa Maria Maddalena in estasi

C’era questa "Santa Maria Maddalena in estasi" di Rubens, del 1625-27, dal Museo di Lilla, sorretta da due angeli: uno, indubbiamente maschio, che con la mano destra sostiene Maddalena per l’ascella senza toccare direttamente la sua pelle da cui si protegge con un lembo della veste della santa, mentre la sinistra è invisibile dietro la schiena o sotto la testa; il secondo, o piuttosto la seconda, perché sembra avere lineamenti femminili (col che la questione del sesso degli angeli è risolta), che le sostiene delicatamente con la sinistra l’avambraccio, mentre il suo braccio destro asseconda con un gesto ostensivo lo sguardo che dirige verso l’alto a segnalare l’evento, o a chiedere aiuto conforto o benedizione, a qualche residente delle parti supreme dell’atmosfera, se non oltre, da dove piovono in risposta, in alto a destra, dei raggi di luce dorata. Alle sue spalle, da una delle quali pende un vezzosissimo velo quasi impalpabile che da una parte continua fino all’attaccatura dell’ala e dall’altra risale poi verso il braccio destro con una funzione che non mi saprei spiegare se non per una volontà di equilibrio pittorico con il colore della veste di Maddalena, c’è quella che sembra una capanna dal tetto di paglia, o una tettoia appoggiata a una parete rocciosa in cui si apre una porta buia, che potrebbe benissimo essere quella di un sepolcro, o alludervi. Ai piedi della santa i tradizionali attributi, il vaso dell’unguento, qui rovesciato e vuoto, e il teschio che la prospettiva deforma in modo inquietante, per non dire mostruoso. C’è anche, accanto al teschio, un sasso, comodo strumento di penitenza che però mi fa rabbrividire solo a immaginarlo pestato dalla giovane donna contro le proprie carni, che però non mostrano nessun segno di violenza. Meno male. Senza il soccorso dell’angelo maschio Maddalena sarebbe caduta a terra. E’ in estasi, dice il titolo del quadro, ma un’estasi talmente intensa da sconfinare nella morte, richiamata esplicitamente dalla testa rovesciata all’indietro e soprattutto dal braccio destro inerte, come nelle deposizioni, e dalla mano rovesciata all’indietro contro il suolo come nella Pietà del Prado di Antonello da Messina. 

 L’avambraccio, da livido, scendendo verso il polso che sembra spezzato diventa quasi nero, come i lembi più prossimi dell’abito. E’ un dettaglio atroce, dal quale distolgo presto lo sguardo per risalire verso la spalla dove la carne si fa più chiara, anche in virtù della luce che giunge dall’alto, ma conservando un tono di fondo cinereo, come quello di qualcuno spirato da tempo. La testa abbandonata all’indietro, la bocca socchiusa e gli occhi rovesciati di cui si intravede solo la sclera richiamano immagini di estasi molto più mondane, quelle della piccola morte, come dicono i francesi che di queste cose sono espertissimi, che fa seguito all’unione sessuale (quando le cose funzionano), alla quale altre persone che hanno saputo penetrare l’intimità delle cose e della vita non si fanno scrupolo di identificarla, ma come una sottospecie. Se ci fosse qualche parentela, però, sarebbe piuttosto viceversa a parere del sottoscritto. In ogni caso io mi rifiuto di svilire l’estasi mistica assimilandola alla democratica banalità dell’orgasmo, per quanto i sintomi possano apparire simili, così come alcuni dati somatici e espressivi, perché le analogie finiscono lì. L’orgasmo è una morte piccola, e va bene, intensa e breve, che sembra bastare a se stessa eppure rientra subito nel tempo e chiede presto di essere rinnovata, manifestandosi in tal modo come quella medesima mancanza, quel medesimo vuoto, che era stata chiamata a colmare; l’estasi invece esce dal tempo e non vi rientra, come la morte, appunto: ciò che rientra è qualcos’altro, mi pare, un corpo che era stato trasfigurato, cancellato nel momento e per tutta la durata senza tempo del compimento, come senza tempo è la morte, quella vera, a cui non a caso alcuni grandi pittori, che non si sono accontentati della mimica del viso e talvolta anche della postura scomposta del corpo l’hanno identificata, anche se a volte non si negano qualche allusione nell’altro senso, per mostrare che sono uomini di mondo anche loro, come Rubens con il dettaglio del seno nudo, sia pure seminascosto, che a me sembra un punto debole del quadro, e la veste discinta, sensuale e bellissima, che potrebbe benissimo alludere tanto a un agone sensuale quanto essere l’effetto di una travagliata agonia. Non a caso arrivano due angeli a sorreggere la santa e una luce calda scende su di essa e indica la direzione verso cui trasportarla. Ma lei quella direzione la conosce già, l’ha percorsa e ha già goduto della promessa che annuncia, in una fusione che l’ha folgorata, sfiancando il corpo, svuotandolo e lasciandolo esausto, come un cencio, come un guscio vuoto da abbandonare e insieme colmo di una pienezza compiuta, assoluta. Morto e vivo: così come lo dipinge Rubens, non a caso nella stessa postura di un Cristo deposto, in particolare quello del Getty Museum: morto, ma che risorgerà; interamente uomo nella sua mortalità e nella sua morte, e insieme Dio. E così Maddalena, sua sposa.

 


 

 

 

 

 


20/10/22

Ricordi di copertura 32 - Il cedro di Renato

 

 

Che cedro meraviglioso! Ogni volta che lo vedo dall’altra riva della Martesana, posta più in basso, mi fermo a guardarlo con gioia intatta. Era già imponente quando venivo a giocare a tennis alla sua ombra, con Renato e Tecla, ai tempi del ginnasio, 55 anni fa!
Poi T. non l'ho più vista né sentita. So solo che ha sposato il fidanzatino di allora. Chissà se è durata, che frutti ha dato. Una coppietta innamorata un po’ più grande di me. Poco, ma abbastanza da creare un piccolo solco insormontabile. Erano molto seri, allora. O così apparivano a me. Saranno rimasti tali anche dopo? O si saranno ripresi, tardivamente, la quota di spensieratezza a cui avevano rinunciato nella giovinezza? Di Renato invece mi giungono ogni tanto voci leggendarie, come quelle da cui era circonfuso già alle medie, quando passava i weekend di punizione girando sui pattini da mattina a sera, per niente triste, sui campi da calcio o sotto i colonnati e lungo i corridoi e le camerate vuote del collegio, o le volte in cui si offriva volontario per l'interrogazione, al posto di un compagno impreparato che frignava di paura, tirando in lungo con risposte a caso e spiegazioni insensate fino alla campanella, quando tornava al posto con il suo bel due tutto contento.
Renato!


 

16/10/22

Notizie sulle chimere

 

Jacek Malczewski L'artista e la chimera, 1906

 

Un eterno timor di lontananza 

un verno eterno senza primavera

un non dar giamai cibo alla speranza

m’han fatto divenir una Chimera

un abisso confuso, un mar, ch’avanza

d’onde e tempeste una marina vera.

Gaspara Stampa

 

Giungono notizie allarmanti dal paese delle chimere. Pare che alcuni di questi esseri, notoriamente schivi, che prediligono un’esistenza rarefatta, per non dire incorporea, in regioni inaccessibili al comune viaggiatore, ultimamente abbiano mutato consuetudini e siano trasmigrati nello spazio materiale in forme che nessuna cronaca, antica o recente, aveva finora registrato. Si era bensì vociferato anche in passato di singole chimere che avevano tentato la dubbia impresa dell’incarnazione, ma si trattava sempre di notizie poco attendibili, quando non di evidenti mistificazioni fatte circolare ad arte da personaggi di dubbia fama, vanesi o interessati: aspiranti poeti, venditori di fumo, millantatori di professione, speculatori alla canna del gas. I casi per i quali un sospetto di realtà resiste sono pochissimi, di cui solo un paio in paesi civilizzati adusi alla verifica sperimentale: tutti gli altri provengono da epoche e luoghi troppo lontani, che non avevano ancora imparato a distinguere chiaramente le fole dalla verità e spesso erano inclini a confonderle, per quanto alcuni testimoni si siano dimostrati sotto altri aspetti abbastanza affidabili.

Ora però sembra che la faccenda abbia assunto contorni molto diversi. Pare infatti che alcune ribelli, che potrebbero essere l’avanguardia di un gruppo ben più nutrito, infranti i sigilli del proprio mondo, siano evase e, tradendo la propria essenza, abbiano volontariamente scelto di decadere a una condizione corporea e di confondersi con la squallida progenie degli umani. Le ragioni (se così si possono chiamare) che le hanno indotte a una scelta tanto sciagurata non sono ancora note, per quanto sia probabile che certi caratteri del mondo sublunare possano apparire molto allettanti a estranei sprovveduti. Nell’universo ogni cosa finisce per trovare i suoi estimatori, prima o poi.

La mimetizzazione, dicono, è perfetta: le forme scelte non si caratterizzano per bellezza speciosa né per altri tratti distintivi di facile riconoscimento, anche se (assicurano i testimoni) alcuni elementi per riconoscerle permarrebbero, diversi da caso a caso. Certo non è da tutti: ci vuole un occhio educato, una mente pronta e lucida. Bisogna essere svegli. Alcune sarebbero riconoscibili per l’alta statura che hanno conservato anche in questa bassa trasmigrazione; altre per l’eleganza dei movimenti che a volte cede il passo a scatti improvvisi; altre da piccole imperfezioni che intaccano l’armonia del corpo o dei volti (ma che agli esperti appaiono come il contrassegno della vera bellezza); altre ancora per un carattere silenzioso e attento, dolce ma non disgiunto da prese di posizione risolute; e tutte per un che di sognante e di malinconico negli occhi scuri dalle lunghe ciglia, che traluce anche dallo sguardo fiero che di solito ostentano per dissolvere ogni minimo sospetto di pentimento. Le chimere infatti sono esseri proiettati in avanti che non si fanno scrupolo di dimenticare, quando è il caso; ogni nuovo passo eclissa i precedenti, e di fatto vivono fuori dal tempo, in un presente eterno, finché dura.

Per essere di origine fantasticata, sfoggiano una razionalità sorprendente, affilata ma non feroce. Conoscendo infatti la consistenza dei sogni come pure la resistenza del loro universo, non vogliono infierire, rifuggono la volgarità della vendetta, e forse conservano una lontana nostalgia delle compagne che in quell’universo hanno abbandonato. Qui da noi non eleggono a loro abitazione luoghi peregrini, anche se prediligono paesi di antiche radici ma al momento un po’ marginali (secondo la prosopopea di coloro che si sentono al vertice del mondo quantomeno), in mezzo a gente per certi versi smagata ma con un fondo di irrequietezza onirica che si traduce talvolta in nomadismo geografico e mentale. Anche loro ogni tanto lasciano quelle regioni e vanno a visitare i luoghi autoproclamatisi centrali, ma non vi sostano a lungo. Infatti la presupponenza degli abitanti, la vecchiaia che li affligge già dalla culla, l’inconsistenza delle loro esistenze che supera quella delle sorelle lontane, le respinge ben presto ai luoghi di partenza, o ad altri similari, dove l’abbondanza delle acque o delle steppe conferisce a tutta la vita una qualità liquida, mobile, diafana e luminosa, adatta alle metamorfosi e alle fate morgane. Per quanto, ancora non si sa, ma intanto alcuni luoghi del genere sussistono tuttora, ed è ciò che li rende attraenti, irresistibili come loro. E lì, loro sembrano felici. O quantomeno più vicine al tanto di felicità di cui gli umani sono capaci. Chissà che ad esse non ne sia concessa una quantità supplementare. Solo pensarlo, rende felice anche me.

Perché anch’io, come tutti, ho le mie chimere, a cui sono affezionato fin dall’infanzia, e non posso che augurarmi che mi sopravvivano nel più perfetto dei modi, e dei mondi. Inoltre ho sempre desiderato che qualcuna mi visitasse e quindi queste notizie non possono che rallegrarmi. Con una in particolare coltivo una consuetudine non antica ma molto intensa, tanto che a volte ho l’impressione di averla incontrata realmente, che abbiamo percorso insieme, per un po’, il mio piccolo mondo. Mi spingerei ad affermare che le ho parlato e le parlo, e che lei mi ha ascoltato e mi ascolta. Che in certe occasioni festive mi ha persino risposto e mi risponde. Non aggiungo altro per non essere preso per un mentitore, propensione che peraltro la mia indole e la mia professione favoriscono. Chi mi crederebbe se mi vantassi che la mia chimera mi ha preso la mano e accarezzato? Preferisco tenere queste consolazioni solo per me. Più per un residuo di delicatezza tuttavia che per vergogna o per evitare di discutere con gli zotici che mi circondano. Quindi mi tengo la mia chimera nell’angolo meglio arredato della mia mente e, come un cagnolino scodinzolante, rispondo ad ogni suo appello e accorro ad ogni suo richiamo. Frequentissimi entrambi, con mia grande gioia peraltro. Ci sono giorni che il mio orgoglio più grande consiste nell’obbedire a tutti gli ordini che lei graziosamente traveste da richieste facilmente declinabili, e più ancora da constatazioni fattuali di poco conto, quasi a riempire i vuoti delle conversazioni (lei che predilige il silenzio e lascia che sia io a disegnargli i contorni che preferisco o a riempirlo con l’entusiastica logorrea che spesso mi coglie in sua presenza).

Ora un conoscente tornato da una vacanza sul Mar Nero, parlandomi delle conoscenze fatte, mi dice di avere incontrato (in un campeggio!), tra le altre, una donna che corrisponde in tutto e per tutto alla mia chimera, della cui l’esistenza mi sono ben guardato dall’informarlo. Mi ha detto di averle parlato e di avere saputo che al momento vive in una città non distante dalle foci del Danubio: in un luogo denso di miti, dunque, che le mie fantasie hanno percorso innumerevoli volte senza mai incontrarla, inseguendo altre chimere ben più evanescenti e già dimenticate. E dove mai potrebbe vivere, mi sono detto con un’illuminazione improvvisa? Perché non ci sono arrivato da solo? Forse perché, essendo lei sempre (anche) qui, non mi sono mai preoccupato di identificare il là? Forse. Ma più probabilmente perché sono sempre stato, e sempre sarò, uno sprovveduto, indeciso e un po’ pauroso.

Da quel momento però ho spesso l’impulso di raggiungerla. Un impulso fortissimo, irresistibile. Cosa ci sarebbe di più facile? La mia chimera vive a poche ore di aereo: basterebbe prendere e andare. Oggi questo è persino banale. Questo.

Ma io sono un essere timido, al di là delle fanfaronate con cui talvolta condisco le mie storie. Se la raggiungo, mi chiedo, mi riconoscerà? Riconoscerà se stessa come la mia chimera? O io le apparirò come un falso simulacro della sua, di chimera? Come un pretendente sprovvisto di titoli e per di più in malafede? Un prestanome, un goffo aspirante, un millantatore? O forse temo di scontrarmi con la disillusione di un equivoco, di toccare con mano che non si tratta di una chimera, e tanto meno della mia, della cui inesistenza dovrei poi farmi, e per sempre, una ragione? Saprei accontentarmi di una donna comune (di sicuro molto bella e che certo amerei lo stesso, se mi conosco bene: ma dubito che sarei corrisposto) e per il resto adattarmi a un perenne vagabondaggio nella desolazione dell’assenza di sogni? O ne sorgerebbero altri, magari più belli? Se anche assomiglia solo un po’ alla mia chimera, la donna mi accoglierebbe con grande gentilezza; ma con amore? E a me è questo che importa. Solo questo.

E poi, mi dico, io non potrei mai abitare lo spazio delle chimere, mentre lei può occupare il mio ogni volta che lo desidera, e ogni volta è la benvenuta. Se decidesse di condividere anche il mio spazio reale non potrei essere più felice. Ma deve essere lei a deciderlo. Per ora continuo a parlarle e lei sempre mi risponde. Mi chiama e sempre io rispondo. A volte ci sogniamo.

14/10/22

C.D. Friedrich, Veduta dalla finestra destra dello studio.


  

 

Guardando il quadro di C.D. Friedrich Veduta dalla finestra destra dello studio dell'artista, mi è venuto da pensare che io avrei intitolato, piuttosto, veduta "della" finestra (e del muro) dello studio. È la finestra l’oggetto principale del quadro, infatti, per me, non il paesaggio su cui essa apre. Finestra che sta, ovviamente, per il quadro stesso, per la delimitazione dello spazio su cui entrambi permettono di gettare uno sguardo, cioè una veduta, organizzandolo attraverso il loro perimetro (come sanno tutti i pittori di tutti i tempi, e come ha mostrato il didattico Magritte, con il suo La condizione umana). Siamo nello studio dell’artista, un soggetto nel quale di solito viene rappresentato l’artista mentre lavora e il quadro che sta dipingendo, oltre a volte l'oggetto che sta dipingendo (per esempio la Madonna se si tratta di un San Luca), a volte con tutto l'ambiente e astanti vari. Qui il soggetto non sono né lo studio né l’artista al lavoro, bensì un muro (che a sua volta ha a che fare con la tela vuota), la finestra, i riquadri dei vetri chiusi e aperti, uno in senso perpendicolare allo sguardo, l’altro in modo da mettere l'accento sull’angolo prospettico che peraltro è denotato anche dalla liscia strombatura in cui la finestra è inserita. Lo studio è il luogo dei quadri, e questo quadro è un quadro di riquadri. È una veduta sul vedere, più che su ciò che è visto, che è quasi nullo, dove la finestra è aperta, e nullo attraverso i vetri più alti (anche se questo può aprire a diverse considerazioni sul vuoto, il finito e l’infinito ecc., che oggi non sono proprio in vena di fare): cielo, alberi case e colline, una barca sul fiume, e l’alberatura di una barca dalle vele abbassate che inserisce con i suoi cordami delle diagonali in uno spazio per il resto suddiviso da linee ortogonali, a parte la dolce curva della svasatura della finestra che apporta un’ulteriore sfumatura, più luminosa, al concerto della complessiva monocromia. L’artista è assente, c’è solo il risultato del suo sguardo che ha scelto quella porzione di spazio del suo studio, l’angolo che da quello vede, magari mentre sta dipingendo una tela che qui non compare, e gli oggetti, o parte di essi, che intende rappresentare. Mentre nella corrispettiva tela che raffigura la finestra di sinistra, dove l’angolazione della visuale è più accentuata, c’è solo un accenno a un quadretto appeso alla parete, in questo ce ne sono due, a sinistra, tutti mostrati in una minima porzione, sotto i quali è appesa, ben visibile una forbice, mentre sul muro destro del corrispettivo con la finestra sinistra è appesa una chiave. Una chiave e una forbice. Un invito a aprire, una; l’allusione all’operazione di tagliare, l’altra. Anch’io taglio qui.

 

 

 


 

12/10/22

Sopra il gradino

 


È l’intervallo. Un ragazzo sta salendo al nostro piano con un amico non si sa se per far passare il tempo e sgranchirsi le gambe, o per incontrare qualcuno o per la parata di routine che consenta nel frattempo una veloce ricognizione della fauna locale. Più probabile la prima ipotesi: i due chiacchierano senza indirizzare lo sguardo da nessuna parte precisa. All’ultimo gradino però, forse distratto dal brusco ondeggiare di un capannello di ragazze nel corridoio, inciampa e perde per un attimo l’equilibrio, ma di pochissimo, tanto che nemmeno l’amico se ne accorge. Ritrova immediatamente la stabilità e fa un passo con disinvoltura, senza sforzi, come se l’inciampo non fosse mai avvenuto nemmeno per lui. E forse è davvero così; ma appena compiuto il passo, le sue gambe, da sole, abbozzano un paio di saltelli imprevisti di pura agilità, che subito, senza soluzione di continuità, passano di nuovo a un’andatura regolare che lo porta via così com’era arrivato. Resta, poco sopra il gradino, come una minuscola cavità nell’aria, che gira lentamente su se stessa, sorpresa della propria nascita ma delusa che nessuno sia venuto a congratularsene con lei. È ancora lì. Ogni tanto, quando passo, le faccio un rapido cenno di saluto. Lei capisce.

10/10/22

Tartarughe, cammelli e gechi

 


 

Vede frotte di ragazze passare una vicina all’altra, poi scostarsi, accostarsi, e poi di nuovo separarsi. Cascate di feromoni nebulizzate tra gli ombrelloni e per le vie. Sperma che galleggia nelle iridi. Corpi di ogni forma e misura, molti anche proporzionati, ben fatti, altri sgraziati, alcuni con tratti mostruosi, come la donna in bikini passata poco prima con metà del viso coperta da escrescenze protuberanze solchi e cicatrici a nascondere i lineamenti, ma tutti strabordanti di desiderio, in genere assopito o represso ma lì lì per esplodere, pullulante sottopelle inavvertito. E nessuno di essi lo riguarda, o gli importa. Lui osserva tutto senza emozione, soffermandosi in certi casi su questa o quella peculiarità come fossero tartarughe, cammelli o gechi. Ma nemmeno: come li guarderebbe un alieno, che vede bene tutto (o così crede) ma non capisce niente. Chissà come reagiscono i suoi occhi all’atmosfera terrestre, al sole accecante riverberato dalla sabbia. Chissà che colori vede, come gli si compongono le forme.

Nel caso si tratti di ragazzi, si chiede come sarebbe lui in mezzo a loro, o nei gruppi delle ragazze, cosa diavolo ci farebbe accanto a una qualsiasi di loro… Sembrano scemenze, ma non lo sono. Così si chiede e pensa. Pensa, e anche nei pensieri pensa da alieno. E come se essi fossero alieni a chi li pensa. E lo sono, pur essendo suoi. Pensieri suoi, che osserva sfilare nella sua mente, senza nemmeno che lo disgustino.

07/10/22

Ricordi di copertura. L’accendino Bic di Derrida



Ricordo l’accendino Bic di Derrida, non se fumava sigarette o sigaretti. Credo sigarette. Mi ero intrufolato a un suo seminario (o era una semplice lezione) all’École normale supérieure di Rue d’Ulm. Era il febbraio del 1974. L’argomento della lezione l’ho dimenticato. Forse Hegel? Qualcosa sulla filosofia del diritto? O sto solo immaginando? Stava forse lavorando ancora a Glas? Ero troppo stordito per seguire, troppo emozionato di essere lì. Di avere avuto la faccia tosta di essere entrato da quel portone, informato dell’aula e accomodato, giovane uomo implume di Fara Gera d’Adda, in mezzo a tutta quella gente convenuta a sentire il filosofo allora di gran moda a Parigi, gente di ogni età, studiosi, scrittorie e artisti, altri insegnanti di quella stessa scuola… immaginavo Barthes, il gruppo di Tel Quel, psicanalisti che leggevo in quel periodo e altra gente che sapevo che gli gravitava attorno allora. Giovani pochissimi. E io.

La prima volta me ne sono stato calmo e sono sgattaiolato via subito. La seconda volta, invece, alla fine della lezione mi sono fatto coraggio e mi sono avvicinato, mi sono presentato e gli ho detto, mentre stava trafficando per accendere la sigaretta (è allora che ho notato l’accendino), che stavo preparando la tesi su di lui. Era una sigaretta, non la pipa, come appare in tante fotografie molto più tarde: sono quasi certo. L’accendino è rimasto a mezz’aria, con la fiammella che, come d’uso (e come me), tremolava, e lui ha detto: “Di già?”. Ha smesso di premere la linguetta e la fiamma si è spenta. A una sua domanda gli ho detto qualcosa sulla mia provenienza e sulla tesi, sfoggiando il mio peggior francese e ho tolto il disturbo. Non volevo approfittare della sua gentilezza. Ero già contento così. Di così poco, come sempre. Mi ha salutato e solo allora ha sfregato di nuovo la rotella del Bic e acceso la sigaretta.

Alla lezione successiva non sono andato. Alla cineteca, allora situata a Trocadéro, quel giorno c’era una rassegna di film di Buster Keaton, e non volevo perdermeli, quelli. Neanche uno.

Poi la tesi l’ho scritta, tranquilli. I libri mica scappano.


 

05/10/22

Alberi disorientati, un po'


Mi sa che le piante ci assomigliano più di quanto siamo disposti ad ammettere (o viceversa: noi a loro, dato che sono più antiche). Lo vedo in questi giorni di fine settembre (anomalo, è vero, se, come dicono, è il più caldo, da noi, degli ultimi 150 anni).

Col cavolo che seguono in tutto e per tutto i ritmi della natura (con le loro anomalie)! Secondo me, anche loro li interpretano. Con tutti i margini del caso. Con tutti i margini che il caso comporta. (In che senso? E quale caso? Il caso nel senso di: questa circostanza, quella dell’interpretazione? O nel senso del caso vero e proprio, con tutti i suoi margini sfrangiati, le smagliature, i buchi, le vie di fuga, i vicoli ciechi, le incertezze, gli errori, i quiproquo?)

(Questo e quello, direi.) 

(Lasciamo stare...)

Cioè, è chiaro che vi sono soggette (ai ritmi della natura: per chi si è perso) e infatti in gran parte reagiscono allo stesso modo. Adottano comportamenti uniformi, stanno nel gregge, intruppate, buone buone: fanno bosco, foresta. Nondimeno c’è chi se ne va un po’ per conto suo: qualcuna in ritardo, altre in anticipo (così come, dopo, alcune cedono prima le foglie, per esempio, altre dopo: all’interno della stessa famiglia naturalmente, e nello stesso posto). Ce ne sono di troppo lente e di troppo sveglie. Troppo rispetto a cosa però non so.

Alcune ascoltano più il giorno, altre soccombono alla pressione della notte. Si abbandonano. (E’ così facile, la notte... E così bello.) Cioè reagiscono non tanto alla durata della luce, al suo sorgere e declinare, la parabola (e il trionfo!): quello è normale, specie per le fortunate, ancora la stragrande maggioranza, che non vivono al chiuso (fortunate si fa per dire, perché ne devono sopportare, le poverine...); quanto (reagiscono) alle temperature, alle differenze. Si perdono nell’escursione termica. Il fresco della notte gli dice una cosa; il calore del giorno, l’afa in questo periodo ancora molto intensa, un’altra. Non la modulazione della stessa voce: due voci, distanti, quasi opposte, in reciproca negazione. Gli gira la testa, alle piante.
Del resto nemmeno io so come vestirmi, specie quando devo uscire presto per le mie passeggiate o per andare in città, che se sto fuori tanto ho paura di dovermi portare la giacca o il giubbetto sottobraccio, se non voglio inzupparmi di sudore, o di ridurmi a stiparli nello zainetto, stropicciandoli. Gualcendoli, forse stracciandoli, come le foglie che accarezzo passando e a volte strappo per tenerle tra le mani, sentirle al tatto, inseguendo le venature, mettendole in luce e infine sminuzzandole, riducendole in polvere. (Barbaro!)

La pianta mica li fa questi ragionamenti: una ha freddo e comincia a ritirare la linfa, a ingiallire le foglie, a perderle in certi casi (a trascurare la fotosintesi: vergogna!); un’altra ha caldo e le viene la bella idea di fiorire di nuovo, di buttare nuovi frutti, come le fragoline selvatiche che ho visto, e non colto, l’altrieri. C’è disorientamento, nella vegetazione. Molti non ci badano, anche tra gli alberi. Io, non so perché, forse per caso, ci ho fatto caso.

Lo so che non è niente: che forse è normale, in fondo; ma sono un po’ inquieto lo stesso.

(Non perdo occasione di esserlo. Una che è una. Nisba!)

 

ps. (Per la cronaca)

I primi a cedere sono i platani, che però ne approfittano per inscenare una morte molto teatrale (infatti non è tale), spettacolare, sanguinosa: a infiammarsi, in questi primi giorni, ci sono solo loro, da soli lungo le strade, o a piccoli gruppi, nelle macchie in riva ai corsi d'acqua o nella boscaglia. Gialli, rossi, intensi, carichi, luminosi, nel verde che sbiadisce. Un trionfo! Facile, scontato addirittura: nazionalpopolare!, ma pur sempre un trionfo. Che uno, anche di bocca non proprio buona (come il sottoscritto: uno snob in certe cose), si augura che duri. E invece no: la velocità con cui si afferma è la stessa con cui passa. Con cui sparisce. Giusto o meno. Tanti saluti e mille grazie, comunque.

(Qualche inverno fa mi ero messo a controllare i tempi della caduta delle foglie, le sequenze a seconda se in città o in campagna o in riva all'acqua, la tenuta di certe chiome, foglie che non si staccano nemmeno secchissime, gelate ecc. Poi mi sono dimenticato di continuare. Sempre così. Manco di rigore.)


 

03/10/22

Sono morto il 14 marzo del 2007

 



Ieri a scuola c’è stato il rituale pomeriggio di colloqui con i genitori. Ne ho visti una trentina, forse meno, con varie pause, durante le quali ho letto. Alla fine non ero stanco. Stavo bene. Tornando a casa in macchina ho visto di sfuggita un annuncio funebre dove ho letto Luigi ...ioli, anni 5.... E subito ho pensato: Sono morto. Vado a casa e sono morto.
E ho continuato, mentre guidavo per la campagna: Vado a casa e sono morto. La macchina avanza, i prati mi scorrono accanto, la cassetta gira, la musica continua, e io sono morto. Un signore che fa jogging, che di solito mi guarda, non si accorge che gli passo accanto. Sono morto e non lo so e continuo a guidare la macchina.
Potrei scrivere un racconto, penso. Lo farei, se fossi vivo. Ma non lo sono più. Guardo da morto i campi, e mi piacciono. Il cielo è azzurro. Gli alberi precocemente fioriti. Arrivo a casa, per caso c'è un parcheggio libero e metto la macchina lì. Apro il cancello e il vicino non mi saluta. Per forza: sono morto. Ma come mai non mi sono accorto di morire? E quando è successo? Perché faccio tutto come se fossi vivo e mi sento in tutto e per tutto vivo? E sto pure bene! Entro in casa, saluto mia moglie, che però non risponde. Sento il rumore di un rubinetto in bagno. Vado in studio. Mi accendo una sigaretta. E’ buona. Guardo il soffitto, i libri. Sento mia moglie che esce dal bagno, passa per il corridoio e va in cucina. Non accendo il computer. Fumo. Poi sento la porta dello studio che si apre, vedo mia moglie che si affaccia. Entra e mi saluta. Mi saluta e sorride!
Allora sono vivo!
Sono morto e sono vivo.