29/10/22

Ricordi di copertura 31. Come non sono diventato scrittore.

 


Dei miei primi tre romanzi non ricordo niente. O quasi. A parte i titoli. Due su tre. Mi manca ancora il primo. Il secondo si chiamava Hortus inconclusus, il terzo Per tentativi ed errori. Magari continuando a scrivere qualcosa mi torna in mente. Perché non vado a controllare? Perché non ho più nemmeno i dattiloscritti. O forse uno, da qualche parte. Li ho scritti tra i 21 (di questo sono sicuro: ero ancora soldato, a Silandro, come infermiere, e di notte leggevo e talvolta scrivevo; più spesso studiavo per preparare gli esami che poi avrei dato a raffica una volta congedato) e i 27, o forse 28. Del terzo ricordo di averlo terminato il giorno del mio compleanno, nel 1978 o 79. Comunque ero già sposato (2 luglio 1977). Ricordo benissimo l’inizio del primo. Dopo tanto tempo che letteralmente non riuscivo a scrivere più nulla (la famosa crisi dei 18-19 anni, che ha vissuto anche il collega Rimbaud), che aveva fatto seguito a una stagione di scritture prolifiche, a partire dai 15 anni che però si era avviata verso l’afasia solo tre anni dopo, forse in concomitanza della maggiore età, preceduta da una stagione di frasi spezzate, parole marce, frammenti insensati e altri sintomi di crescita, una sera, di colpo, in un’ora, con la mia grafia già allora minuscola, anche se non quanto quella recente che ora mi ostacola persino la decifrazione degli stessi appunti che sto copiando e rielaborando qui, ho riempito recto e verso 7 schede 11x15 che usavo per citazioni, schemi e riassunti dei libri che stavo studiando. Ho scritto una frase e sono andato avanti senza sapere ciò che stavo facendo e che direzione dare alla biro che stringevo in mano come se volessi strozzarla. Che è più o meno il metodo che ho seguito per tutta la vita: e i risultati stanno a dimostrarlo. Quando ho alzato la testa: questo è un romanzo, ho pensato. Sorpreso dal mio stesso pensiero, del tutto inatteso. Mai avevo pensato di scriverne uno. Non sapevo nient’altro, solo che in qualche modo dovevo continuare. Mettere una frase dopo l’altra, senza sapere quale sarebbe stata, e che davvero, stavolta, avrei continuato.

La prima cosa che ho scritto, quella sera nell’infermeria della caserma di Silandro, riguardava l’esperienza di una non esperienza, di un’esperienza mancata: o meglio ancora, la percezione, forte e amarissima, di un’emozione defraudata, vissuta come sua dal protagonista mentre usciva da una casa, prendendo l’aria fresca sul viso, ma solo dopo che un altro, un altro come lui, che alla fine si sarebbe rivelato davvero un altro lui, una specie di doppio o proiezione con tutti i crismi della realtà, l’aveva vissuta senza davvero viverla, senza farci caso, del tutto inconsapevole anzi, e poi, graziosamente, questione di microsecondo, e di nuovo inconsapevolmente, gliela passava perché la vivesse anche lui, ormai consumata però, inservibile, eppure come se fosse una cosa sua e solo sua.

Praticamente c’era già tutto lì. Praticamente avevo scritto, di getto, senza saperlo, senza sapere cosa andavo scrivendo mentre scrivevo, la scena originaria di tutto ciò che avrei scritto o vissuto poi. O quasi. Quasi scritto, quasi vissuto. Pur scoprendo, poi, che anche le scene originarie sono sempre seconde, o terze, o quarte: esattamente come l’esperienza del protagonista.

Poi del libro ricordo il finale, che magari racconterò perché tanto nessuno lo leggerà (e se capiterà che spunti fuori da qualche recesso sarà come se lo leggesse per la prima volta, perché nel frattempo l’avrà dimenticato e allora sarà come se lo leggesse per la prima volta, accorgendosi però, durante la lettura, che forse già sapeva cosa stava succedendo, che forse in qualche modo l’aveva già letto, qualcuno gliel’aveva già raccontato) e come era costruito. Qualche immagine confusa, più che scene, e davvero nient’altro. In fondo sono passati cinquant’anni. Il principio costruttore (dal momento che non avevo idea di cosa avrei scritto mi sono concentrato sul come) era di scrivere tanti capitoli ciascuno con un linguaggio diverso (come Joyce!) che nascevano o si sviluppavano partendo da citazioni di grandi autori e studiosi e filosofi, o quantomeno quelli he a me allora sembrava tali, ma citazioni stupide, insensate o banalissime, che avrebbero potuto benissimo venire da chiunque, inservibili, se non per il rimando ironico quanto puntuale, all’autore, titolo e pagina inclusi, da cui erano state estratte. Ne ricordo tre: “Stai lì, povero cane”, dall’Ulisse di Joyce (appunto), “Politico!” dall’Ideologia tedesca di Marx e soprattutto, quasi un tormentone, “Questo gioco deve finire” dai Saggi di linguistica generale di Jakobson. Roba fina!

Il libro consisteva in varie piccole avventure nella quali il protagonista cercava l’usurpatore involontario della sua esperienza, e insomma della sua capacità di vivere direttamente ciò che gli capitava di vivere (mi sono accorto poi), fino a che lo trovava da qualche parte a Bergamo alta e da lì partiva un inseguimento che portava entrambi al palazzo biblioteca in Piazza vecchia, proseguendo poi per la scalinata, nei saloni di lettura e poi, passando per una saletta fino all’ultimo piano dove l’inseguito, vistosi ormai raggiunto, si gettava da una finestra seguito  dal protagonista che si era gettato per acciuffarlo. Il libro finiva con i due che si fondevano a mezz’aria. Li vedo ancora lì, per l’eternità.

Non so come sia arrivato a questo, ma a posteriori, appena scritto, ho capito che era l’unico finale possibile, giù dalla mia biblioteca preferita. Negli anni successivi, man mano che leggevo testi (psichiatrici) sulla schizofrenia, mi sono fatto la curiosa, e certo infondata, opinione che il romanzo contesse un bel campionario di sintomi schizofrenici, o psicotici in genere, e mi sono raccontato la storia (mi sono illuso per qualche tempo) che scrivendolo avessi in qualche modo esorcizzato, attenuato se non proprio evitato, il pericolo di caderci. Considerazione che aveva il vantaggio di unire, come i due bei tomi (si noti il sostantivo) a mezz’aria, il fascino della malattia, grave ma spesso appannaggio di persone geniali, con il conforto della tranquilla normalità da cui, forse illudendomi una seconda volta, sono affetto da tutta la vita.

 


Ps.

Direi di fermarmi qua. Avevo trovato un editore, anche discreto, ma è fallito poco dopo che avevo preso accordi verbali con il direttore. Lui si chiamava Stefano Jacini, come il famoso politico e economista dell’altrettanto famosa Inchiesta Agraria e forse suo discendente. La casa editrice, Il Formichiere.

Il secondo romanzo l’ho scritto tra l’estate del 74 (nel frattempo avevo scritto la tesi e nel giugno mi ero laureato) e il 75/6. Forse ho una copia in giro, in fondo a qualche scatolone, ma per non sprofondare dalla vergogna, non l’ho più riletto dopo che Alfredo Giuliani, a cui l’avevo mandato per sondare la possibilità di pubblicarlo presso la Cooperativa scrittori, che a breve avrebbe chiuso, mi aveva detto che gli era piaciuto, ma che era un libro che avrebbero letto e gustato sì e no 150-200 persone e che se fosse stato un editore industriale si sarebbe guardato bene dal pubblicarlo (l’ho incontrato a Bologna: era la prima volta, siamo andati a pranzo a una famosa trattoria, credo, “del ferroviere” o roba del genere, assieme a Giorgio Celli, brutto, sporco, con un girocollo blu senza camicia pieno di padelle, ma molto simpatico anche da alticcio; dopo, a casa di Alfredo, avrei incontrato per la prima volta quello che sarebbe stato per 40’anni il mio migliore amico, Lucio Klobas). Ricordo che si intitolava, molto immodestamente Hortus inconclusus, e che, molto più immodestamente ancora, aveva l’ambizione di essere una specie di Fenomenologia dello spirito, con la piccola differenza che, invece di una rigorosa concatenazione dialettica di concetti, sarebbe consistito solo di chiacchiere, ma incatenate in modo tale che, teoricamente, il lettore non poteva saltare una frase senza perdere il filo del discorso, basato, invece che sulla dialettica, sulla sintassi. Una frase partiva in un modo e finiva da qualche altra parte che veniva ripresa dalla frase successiva che a sua volta veniva ripresa, per andare da un’altra parte ancora dalla successiva ecc. Come è finita l’ho già detto.

Pazienza. Nel frattempo ne avevo cominciato un terzo e poco dopo mi sarei sposato (nel ’77), che avrei terminato nel 78. Questo si intitolava Per tentativi ed errori, e con il primo condivideva le citazioni, come quella inziale dei due calzini spaiati del protagonista, uno rosso e uno blu come nel finale di Gioventù bruciata, e con il secondo un assunto filosofico (non avevo non mi ero laureato in teoretica per niente, vero?), tra molte virgolette: quello di scrivere qualcosa che confutava un’affermazione di Kant, dalla Critica del giudizio se ricordo bene, cioè che tutto poteva diventare oggetto di rappresentazione estetica, tranne il disgustoso, cosa che però è rimasta circoscritta a un episodio o poco più: la scena molto dettagliata in cui il protagonista per salvarsi dall’incendio che stava distruggendo il cascinale diroccato in cui abitava in quel momento si gettava nella fossa dei liquami. Una cosa del genere l’avrei fatta anche nel mio ultimo romanzo (Tempesta, scritto tra il 2007 e il 2008 ma pubblicato - sì, pubblicato - da Effigie nel 2011), con una descrizione minuziosa degli effetti del vomito su un pavimento, di cui vado particolarmente orgoglioso (a ciascuno il suo). Sta di fatto che questo deve essere stato l’effetto che invece ha suscitato nei lettori, perché anch’esso è rimasto inedito. Cioè, siamo onesti, schifo al redattore per la narrativa di Feltrinelli di quel periodo, Aldo Tagliaferri (sì, lui, il lettore e traduttore di Beckett tra l’altro) non ne aveva fatto, se mi aveva detto che avrebbe proposto di pubblicarlo, con un minimo intervento a un capitolo su cui ci eravamo presto accordati, alla prossima riunione con il direttore, che allora era Antonio Porta. Il quale si è poi dimesso, qualche tempo dopo, ma non prima di aver bloccato il mio libro a favore di quello un altro giovane sconosciuto. Mi sono un po’ arrabbiato, ma quando l’ho incontrato successivamente non gliel’ho ricordato. Perché i fatti avevano dato ragione a lui. Il libro era di un certo Tondelli e si intitolava Altri libertini. Poteva pubblicare anche il mio, dopo, volendo… Invece niente. E io per 10 anni non ho scritto più niente. Solo qualche recensione e ogni tanto brevi frasi isolate, che poi, incollate insieme in grumi apparentemente omogenei, sarebbero diventate il nucleo del mio primo libro, uscito grazie a Lucio Klobas presso Campanotto nel 1991, che si sarebbe intitolato Cosa dicono i morti. Appunto. 



 

Nessun commento:

Posta un commento