28/04/23

La fine del mondo

 

 

E’ un dato di fatto che prima o poi il mondo finirà. Se qualcosa c’è, ha avuto un inizio; se ha avuto un inizio, avrà una fine; eccetera. Poco importa se la fine sarà un nuovo inizio, o qualcosa di diverso: non è un problema del nostro mondo, e tantomeno mio. Ora ci sono degli imbecilli che assicurano che loro sanno quando il mondo finirà. Non sono i primi che dicono di saperlo, ma anche qui poco importa. Gli altri sono stati dimenticati o sono entrati a far parte della storia (di una delle tante: credenze, folklore, mentalità, cronaca varia... sempre dell’imbecillità insomma). Lo sanno di preciso; o all’incirca: sanno l’anno. E questa è una consolazione: c’è un termine, ma è vago. Da qui in poi, volendo, si può vivere i prossimi anni come se fossero gli ultimi, e, di più, ogni giorno dell’ultimo anno come se fosse l’ultimo giorno. Magari ne vien fuori qualcosa di buono. O quantomeno di decente (meglio non esagerare). Di solito gli imbecilli hanno torto, e anche questa è una consolazione (non per loro, che essendo imbecilli non se ne rendono conto), ma per la legge dei grandi numeri (e quella di Murphy, se quel tale si chiamava così: per una qualche legge insomma), prima o poi su qualcosa avranno ragione anche loro. Quando, sempre per la stessa legge, gli imbecilli si accorgono di sbagliare, non cambiano idea, dicono che c’è stato un errore. L’errore è irrilevante (il mondo continua), bisogna solo rifare i calcoli con maggior precisione. La certezza resta. La certezza è la forza degli imbecilli. Ammettiamo che la volta che gli capita di avere ragione sia questa: in fondo non sarebbe male. Di conseguenze negative non ce ne sarebbero. Dopo la fine che conseguenze vuoi che ci siano? E anche loro finalmente, per un attimo, sarebbero contenti e gli imbecilli sarebbero tutti gli altri. Come sempre del resto.

 

20/04/23

Cinico


So che gli uomini sono come sono, dice, eppure continuo a non accettarlo: non li giudico per come sono ma li considero per come potrebbero essere. La constatazione della verità di fatto non si traduce, — e non me ne compiaccio pur con tutti i problemi che ne derivano —, nella premessa maggiore di un sillogismo, o di un teorema, la cui logica conclusione sarebbe un adeguato comportamento anche da parte mia, cioè un adeguamento alla realtà (la rassegnazione insomma), con tutti i suoi corollari compensatori, dei quali il principale sarebbe il pragmatismo, con tutto il miserevole (miserabile) cinismo che ne deriva. A volte, a parole, confessa, anch’io adotto l’atteggiamento del cinico, addirittura esasperandolo, — ma già la sua esasperazione è una forma di non-accettazione, perché portandolo alle estreme conseguenze se ne evidenziano le implicazioni paradossali —, ma in pratica non lo so adottare, nella duplice accezione di non essere in grado di farlo (capacità, forza) e di non volerlo fare. Considero questa debolezza la mia forza, conclude, quel poco di forza che ho.

 


 Le immagini sono di Enzo Fabbrucci

19/04/23

Azione!

Come gli altri esseri viventi, si trova spesso nella necessità di fare qualcosa e, dovendo farla, di solito cerca di agire per il meglio, talvolta riuscendoci, rispetto alle finalità che si era prefissato. Ma poiché queste finalità altro non sono che delle semplificazioni necessarie all'agire, una volta portato a compimento qualcosa, gran parte del tempo restante lo passa a cercare di riparare o di difendersi dagli effetti che l'azione ha causato, propagandosi oltre la semplicità in ogni direzione, ovvero dimenticandoli per poter fare altro, finché la forza del loro ritorno in massa non finisce per soverchiarlo obbligandolo a correre ai ripari. Ma a questo punto le prospettive di riuscita sono ormai nulle, perlomeno in rapporto agli intenti di partenza, se li ritiene ancora validi, e per la verità anche se strada facendo si sono a loro volta modificati. Di qui il senso diffuso di fallimento che accompagna come un'ombra qualsiasi cosa decida di fare, correlato necessario della presupposizione di onnipotenza che l'agire comporta per il fatto stesso di proporsi finalità, il cui stesso riaggiustamento contribuisce a celare la semplificazione che all'agire aveva permesso di mettersi in moto. Forse avrebbe potuto evitarlo, - immagina a volte in preda alla debolezza -, se di fatto ogni azione che ha deciso di compiere non fosse stata già in partenza un effetto di altre la cui origine non può ricordare perché non dipende da lui, così come non dipendeva, del resto, nemmeno da chi l'ha innescata, intrappolato nella stessa catena. Argomento classico dello sgravio di responsabilità che lo getta in una prostrazione se possibile maggiore, cioè a dire in un senso di aggravio di responsabilità. E' un fesso. E d'altra parte cosa si pretende da lui? Che la smetta di fare alcunché? Ma siamo seri! Uno: non risolverebbe niente, stante tutto quello che già ha fatto (che non è poco, gli vien da pensare con inopinato orgoglio); e due: dovrebbe rinunciare a vivere, con una nuova azione eccetera eccetera. Tanto più che, a ben guardare, ogni volta che decide di dar corpo a un nuovo progetto, si sente davvero bene. Benedetta onnipotenza! Sarà pure fallace, pensa, ma che dire dell'imp...? Brutto bastardo!

 

 (2000 circa. Anche prima.)

 


17/04/23

Unghie


La portiera del treno si chiude con uno scatto mentre salgo di corsa gli ultimi gradini del sottopassaggio. Il capostazione allarga le braccia rispondendo al mio sguardo mentre il treno si avvia. Il prossimo, già in attesa su un altro binario, parte tra mezz’ora. Lo raggiungo, ma prima di entrare mi siedo su una panchina a fumare una sigaretta. Prendo il libro dalla tasca e lo apro senza leggerlo. All’unico finestrino occupato del vagone, proprio davanti a me, c’è un signore dalla barba bianca che legge un libro tenendolo di traverso, impedendomi così di identificarlo. Comincio a leggere anch’io nel momento in cui lui alza la testa nella mia direzione e cerca di identificare il mio, che allora poso sulla coscia accavallata per impedirglielo.

Finita la sigaretta cerco un altro vagone, a sua volta deserto. Leggo e ogni tanto, alla fine di un paragrafo, mi fermo a respirare e getto un’occhiata ai passeggeri arrivati nel frattempo o alla campagna fuori dal finestrino. Il sedile arancione di fronte a me è libero. Nello spazio che separa il poggiatesta dallo schienale scorgo una striscia di corpo maschile elegantemente vestito: distinguo parti di una giubba di tela blu impermeabilizzata con zip d’acciaio che copre una giacca di frescolana pure blu, lembi di una camicia azzurra e di una cravatta blu a minuscoli pois bianchi e un fermacravatta d’argento o, più probabilmente, d’oro bianco. Mentre completo l’inventario spuntano un ginocchio ricoperto dallo stesso tessuto della giacca e due mani. Tre dita della destra tengono un tagliaunghie che comincia a lavorare sulle unghie della sinistra. Solo che le unghie non ci sono: vedo solo delle lamine più larghe che alte che spuntano dalla pelle dell’ultima falange e subito si arrestano. Oltre comincia una pelle rugosa e, si direbbe, dura, dello stesso colore biancastro delle dita, che peraltro condividono anche le lamine, a parte una leggerissima sfumatura perlata che forse non è che un riflesso della loro lucentezza, peraltro scarsa, sfuggente, a sua volta forse più immaginata, vale a dire desiderata, che reale. Trovata perché cercata. Cercata perché presupposta. Presupposta perché desiderata. Il tagliaunghie lavora su quest’ombra sottile, riduce con puntiglio i bordi di qualcosa che non c’è, cancella i margini del perimetro che dovrebbe contenerla livellando lo scalino dell’incavo fino a creare una continuità che mi appare mostruosa. Poi le mani scompaiono e con esse lo strumento che tuttavia continua il suo lavoro di delicata demolizione su di me. Stacco gli occhi dalla fessura, ma con la coda continuo a tenerla sotto controllo. Non riesco a muovere altro, di me. Anche se la mia posizione col tempo diventa scomoda, non mi sposto: ciò che intendo evitare, soprattutto, è di vedere la sua faccia. Ne ho come paura. Infine riesco a chinare il capo e fisso il pavimento di linoleum. Spero che scenda prima di me. Il treno rallenta; si ferma; riparte. Lui resta al suo posto. E se scendesse alla mia stazione e si alzasse passandomi davanti? Resisterei a non alzare lo sguardo o vincerebbe il fascino? Mi alzo in anticipo e, alla cieca, mi dirigo verso l’uscita alle mie spalle. Resto lì un po’ a leggere con la faccia verso la parete. Nel caso scenda alla mia fermata prego che vada all’altra uscita, più vicina. Che mi lasci in pace. Penso a cosa sarei capace di fare se mi toccasse o mi guardasse. Quando il treno si arresta scendo in fretta e mi dirigo verso una panchina, davanti alla quale mi fermo, furioso, come a leggere le scritte che la ricoprono. La gente mi scorre ai lati. Mi sposterò di qui solo quando la stazione si sarà svuotata.

13/04/23

Uno spazio mi attraversa


Invece di attraversare uno spazio, uno spazio mi attraversa. Attraverso uno spazio che mi attraversa. Non lo spazio: uno spazio. Questo.

Invece di sentirmi dentro uno spazio, uno spazio si fa sentire dentro di me. Non è la percezione di uno spazio, né il suo concetto. Non è a priori, né ciò che resta se tolgo tutte le immagini e le cose, né ciò che queste le contiene rendendole, per me, immagini. È uno spazio che le cose e le immagini formano e fanno apparire nella sua evidenza di spazio o che, viceversa (ma non è lo stesso: è un’altra occasione), l’assenza di immagini e di cose, invece di renderlo astratto, rende più materiale. Corposo. Voluminoso. Sporgente e tagliente.

Quando attraverso questo spazio che mi attraversa, questo spazio si fa spazio dentro di me tagliandomi. Mentre mi taglia, nel separarmi, mi unisce. Divento unito per effetto del suo recidermi. Prima non lo ero.

Prima ero un abbozzo confuso di occhio incorporeo, che aveva la tendenza a separarsi dal suo corpo, a dimenticarsi di esso proiettandosi fuori, raccogliendo ciò che vedeva e recidendolo dal resto e da sé nel vederlo. Ora questo spazio invisibile riporta l’occhio al suo corpo recidendolo da sé e riportando ciò che vede a ciò che è: non matrice ma effetto dell’invisibile. Di un invisibile che manda in frantumi il visibile riportandolo a se stesso e che si impone come corporeo attraverso la violenza incruenta con cui attraversa il mio stesso corpo riportandolo, reciso, a se stesso.

È l’invisibile che emoziona, riportandolo al corpo, il mio occhio, mostrandosi come la condizione sensibile del mostrarsi delle cose e delle immagini e dello stesso vedere, non come il suo, e il loro, aldilà o come la fantasia di nascondimento che verrebbe oltrepassato (attraversato, reciso e ricongiunto come fantasia).

 

Questo spazio, l’invisibile di questo spazio, è un concetto non nel suo separarsi, abbandonandolo, dal sensibile, ma solo in quanto è sensibile, non avendo nessun bisogno, e nessuna possibilità, di recidersi da esso, abbandonandolo a se stesso. È l’invisibile che invade la retina emozionandola, come una membrana tesa fino al limite del suo strappo, sulla quale allora il visibile diventa tale nell’unico linguaggio, l’immagine, che gli pertiene ma non gli appartiene.

Si tende, ma invece di diventare più leggero in ogni suo punto, si addensa e appesantisce, tanto che niente riesce più a tenerlo assieme. Proprio per la sua densità e pesantezza, allora, si piega, si torce, si spezza e va in frantumi, fino a dissolversi.

La sua dissoluzione tuttavia non è né una sparizione totale né un allontanarsi che lascia dietro sé tracce e resti come semplice memoria del suo esserci stato: è invece il suo continuare a esserci, totale, in questi resti, che talvolta aggettano isolati, talaltra si dispongono a mucchi o sparpagliati come un tappeto irto e segmentato. Un tappeto di preghiera intrasportabile, che invece di essere avvolto, avvolge; che invece di cancellarsi per servire, si impone per farsi servire, ma così che, nel servirlo, uno serve se stesso; invece di farsi dimenticare per altro, si presenta come altro impedendo di dimenticarlo, così che uno, in questo altro, si ricorda di sé, stupito della dimenticanza.

 

Fara, sabato 13-11-99 dalle 16,20 alle 16,40.

Scritto per un mostra di Federico De Leonardis alla Galleria Belvedere di Milano


 

10/04/23

Una biografia apocrifa (per Federico De Leonardis)


I

Sua madre amava la musica. Lui amava sua madre. Dunque amava la musica. Ma sua madre non lo amava. E dunque nemmeno la musica lo amava. O forse era lui a non sentirsi amato dalla madre, e dunque a non sentirsi amato dalla musica. O almeno non quanto le amava lui. La madre lo fuggiva, gli sfuggiva, e lui, non sentendosi amato, quanto più tentava di dimostrare il suo amore tanto meno ci riusciva. Allora, non riuscendo a dimostrarlo, se lo teneva dentro.

Se almeno la musica lo avesse amato, forse con essa sarebbe riuscito almeno a dire alla madre il suo amore, ma nemmeno essa si lasciava afferrare. Per afferrarla avrebbe dovuto metterle addosso le mani con forza, ma non osando farlo, e non essendo quindi in grado di far sì che la musica scaturisse da lui, si è ridotto a mangiarla. Pensava così di diventare musica lui stesso; invece quello che gli usciva erano solo brandelli, brandelli del corpo della musica (frammenti del corpo della madre). Ormai fuori di lui, i brandelli li poteva afferrare, ma come resti che ingombravano le mani. Allora è diventato scultore.

Anche della madre gli restavano solo frammenti, immagini che ingombravano gli occhi, fotografie che alludevano a storie che a lui non dicevano niente. Allora ha preso le foto e le ha fatte a pezzi. Ha ridotto in brandelli l’immagine che non corrispondeva al corpo, il corpo che non si adattava all’immagine che lui ne aveva e alle storie che su di esso aveva costruito. Poi ha ricomposto i brandelli in un nuovo corpo che scaturisse dalle storie.

Così ha creato il corpo della madre, è stato più del padre che ne ha solo goduto: è stato il padre della madre. E allora dagli spazi  tra i brandelli, dalle parti mancanti, è scaturito un ritmo: nel vuoto ha trovato spazio la musica.

Ma è una musica che appena sorta svanisce, che si sottrae e che sottraendosi richiede altri vuoti per lasciarsi percepire. Alcuni si muovono ai margine e guardano dentro, vedendo ben poco; molti distolgono gli occhi e con orecchie appuntite cercano altre musiche che possano medicarli turandole fino all’orlo. E se qualcuno si decide a buttarsi, insegue lo svanire traendo quel che manca da sé, una musica sua, o almeno l’eco di un’eco, come un ricordo di cui si sente solo che è svanito: il compagno acustico dell’invisibile. Che  però non è mai quello che aveva fatto scaturire lui. Ma chi può dirlo? E anche se talvolta sembra che gli assomigli, nessuno, ancora, può dirlo.

Per questo lui è spesso arrabbiato, scontento di tutto e di tutti. Pretende che anche gli altri odano l’inudibile che ha sentito lui, e insiste. E, da sé, pretende di riuscire a farlo sentire. Pretesa insensata, che tuttavia è la sua forza, la più grande risorsa. A volte ci mettiamo in ascolto e dagli intervalli scaturisce uno sguardo e nessuna parola.

 


II

Naturalmente invece non amava suo padre, il quale del resto non ci faceva caso: aveva ben altro a cui pensare. Suo padre era distratto (distratto anche dalla madre). Questa distrazione tuttavia, lungi dal fargli piacere, lo disturbava. E questo è naturale: i padri disturbano comunque. Col tempo si ridusse a odiarlo. A volte aveva vergogna di questo odio, a causa della sua banalità. Allora faceva finta di niente. Così finì per assomigliargli.

Qualche incauto glielo faceva notare, a volte. Allora lui lo cancellava dalla sua vita. Alcuni ne furono contenti. Raramente lui se ne dispiaceva e cercava di recuperarli, più tardi, ma con pochi ci riusciva veramente. Quando non ci riusciva era contento lui. Qualsiasi compromesso era di troppo. Era orgoglioso di questa intransigenza, e indubbiamente questa è una dote.  Questa dote lui la chiamava: rigore. Faceva bene ad esserne orgoglioso: non molti ne sono capaci (io per esempio ne sono del tutto sprovvisto).

Non così avvenne con suo padre. Continuarono a lungo a vedersi, anche dopo che il lavoro lo ebbe portato lontano. Visite periodiche, disinteressate ma cordiali, qualche lettera (in realtà diretta alla madre) e poche brevi telefonate. In fondo era suo padre. Quando morì, lui era all’estero. Un vero peccato. Fu tuttavia raggiunto da un inspiegabile dolore, senza dubbio effetto della lontananza. Questo ricordo lo accompagnò a lungo, e ogni tanto ritorna ancora, con rinnovato sgomento. Non è tanto il dolore ad essere inspiegabile, quanto l’inspiegabilità che è dolorosa. Circola invisibile nella sua minuta esistenza e si insedia gigantesca in quello che fa. A volte se ne accorge anche lui e si ribella. Ma questa ribellione lo disturba. Solo i deboli si ribellano. Allora, per cancellarla, dà una forma alla sua ribellione. È comunque un materiale che c’è, dice, e sarebbe da stupidi fingere che non ci sia. Tanto vale servirsene per fare altro, allora. I resti non si eliminano.


Il mondo è pieno di resti; a volte pensa  addirittura che il mondo non sia fatto che di resti, ma poi respinge il pensiero: è troppo facile, e quello che vale per tutto non dice niente su alcunché. Il mondo è pieno di resti, ma si tratta di vedere di chi e di cosa lo sono. Alcuni sono ciarlieri, si nominano e esibiscono in modo sfacciato una storia che pretendono propria; a lui invece interessano quelli meno individuati, resti generici che si depongono in silenzio un po’ ovunque e che vorrebbero sparire ogni volta che qualcuno li nota. Resti che disturbano senza dire una parola e che per questo a volte qualcuno raccoglie, sottraendoli alla vista con altri compagni nei depositi del falso invisibile. Lui allora li raduna sperando di mostrare l’invisibile che essi nascondono come facendogli scudo e di far udire il  sommesso brusio cui fa scudo il loro numeroso silenzio, non come l’eco di una parola che si è persa, ma come una soglia davanti alla quale indugia quella che ancora non ha trovato una voce. Come la voce di un padre che deve ancora venire.

 


 

 

06/04/23

Osnago, il 29 agosto 1998

 


Due parole dette a Osnago il 29 agosto 1998 a casa di Alberto Casiraghi per Enzo Fabbrucci, Aurelio Andrighetto e Mariella Bettineschi Mariella Bettineschi. Le metto qui come segno di amicizia che perdura.
***
Mi chiedevo stamattina che cosa hanno in comune i tre amici che oggi avrebbero fatto qui qualcosa che ancora ignoro, e l’unica risposta che mi è venuta in mente è che sono tutti e tre esperti di visione e di visioni.
Enzo è il nostro speleologo della notte e del buio, che trasforma in cose viste, in luce, i domìni del sonno e dell’insonnia, le regioni oscure della mente e della ragione, le paure e le ossessioni che in qualche modo scheggiano la superficie liscia del nostro vivere corazzato, facendone, da pietre d’inciampo, pietre angolari di un mondo che ci comprende e, reso percepibile da ogni senso, si lascia comprendere, cancellando i confini del nostro in un respiro più ampio e profondo che scuote dal di dentro anima e corpo.
 

Aurelio, che ha trasformato la fotofobia che lo affligge in ossessione per la luce, è il nostro scienziato luminoso, consulente della luce (con doppio genitivo, perché sospetto che anche la luce stessa, oltre a noi tutti, si rivolga a lui in certi casi quando vuole sapere qualcosa su di sé) che tuttavia produce oggetti nel buio e che della luce indaga soprattutto il lato in ombra e i margini, là dove essa si assenta o, viceversa, là dove, confusamente, qualcosa viene alla luce. La luce che viene alla luce.
Per giungere a questo, entrambi non disdegnano congiunzioni morganatiche, per necessità (dicono) ma traendone evidente piacere, col mito e con la scienza, negli spazi controversi dove è il primo a “spiegare” la seconda, o a esserne “generato” nel punto in cui ad essa la parola viene meno.
Anche Mariella “mastica” visioni, proprie e altrui, e le secerne (uso questo verbo ghiandolare per sottolineare la totale corporeità del suo sguardo e del suo agire) in serie di effetti luminosi, attimi sfuocati che si stampano come lampi sulla pellicola e incidono nella mente di chi li accoglie un’emozione alonata, incerta a prima vista come le cose che rappresentano ma, come esse, con lunghe scie intensissime. A uno sembra di levitarci dentro, ma poi si trova cicatrici sul versante interno della pelle.
Per questo a tutt’e tre sono grato, ma dal momento che, per deficienze strutturali a cui mi sono ormai rassegnato, non sono in grado di restituir loro quanto sarebbe giusto, mi limito a volergli bene, sperando che questo basti.