10/04/23

Una biografia apocrifa (per Federico De Leonardis)


I

Sua madre amava la musica. Lui amava sua madre. Dunque amava la musica. Ma sua madre non lo amava. E dunque nemmeno la musica lo amava. O forse era lui a non sentirsi amato dalla madre, e dunque a non sentirsi amato dalla musica. O almeno non quanto le amava lui. La madre lo fuggiva, gli sfuggiva, e lui, non sentendosi amato, quanto più tentava di dimostrare il suo amore tanto meno ci riusciva. Allora, non riuscendo a dimostrarlo, se lo teneva dentro.

Se almeno la musica lo avesse amato, forse con essa sarebbe riuscito almeno a dire alla madre il suo amore, ma nemmeno essa si lasciava afferrare. Per afferrarla avrebbe dovuto metterle addosso le mani con forza, ma non osando farlo, e non essendo quindi in grado di far sì che la musica scaturisse da lui, si è ridotto a mangiarla. Pensava così di diventare musica lui stesso; invece quello che gli usciva erano solo brandelli, brandelli del corpo della musica (frammenti del corpo della madre). Ormai fuori di lui, i brandelli li poteva afferrare, ma come resti che ingombravano le mani. Allora è diventato scultore.

Anche della madre gli restavano solo frammenti, immagini che ingombravano gli occhi, fotografie che alludevano a storie che a lui non dicevano niente. Allora ha preso le foto e le ha fatte a pezzi. Ha ridotto in brandelli l’immagine che non corrispondeva al corpo, il corpo che non si adattava all’immagine che lui ne aveva e alle storie che su di esso aveva costruito. Poi ha ricomposto i brandelli in un nuovo corpo che scaturisse dalle storie.

Così ha creato il corpo della madre, è stato più del padre che ne ha solo goduto: è stato il padre della madre. E allora dagli spazi  tra i brandelli, dalle parti mancanti, è scaturito un ritmo: nel vuoto ha trovato spazio la musica.

Ma è una musica che appena sorta svanisce, che si sottrae e che sottraendosi richiede altri vuoti per lasciarsi percepire. Alcuni si muovono ai margine e guardano dentro, vedendo ben poco; molti distolgono gli occhi e con orecchie appuntite cercano altre musiche che possano medicarli turandole fino all’orlo. E se qualcuno si decide a buttarsi, insegue lo svanire traendo quel che manca da sé, una musica sua, o almeno l’eco di un’eco, come un ricordo di cui si sente solo che è svanito: il compagno acustico dell’invisibile. Che  però non è mai quello che aveva fatto scaturire lui. Ma chi può dirlo? E anche se talvolta sembra che gli assomigli, nessuno, ancora, può dirlo.

Per questo lui è spesso arrabbiato, scontento di tutto e di tutti. Pretende che anche gli altri odano l’inudibile che ha sentito lui, e insiste. E, da sé, pretende di riuscire a farlo sentire. Pretesa insensata, che tuttavia è la sua forza, la più grande risorsa. A volte ci mettiamo in ascolto e dagli intervalli scaturisce uno sguardo e nessuna parola.

 


II

Naturalmente invece non amava suo padre, il quale del resto non ci faceva caso: aveva ben altro a cui pensare. Suo padre era distratto (distratto anche dalla madre). Questa distrazione tuttavia, lungi dal fargli piacere, lo disturbava. E questo è naturale: i padri disturbano comunque. Col tempo si ridusse a odiarlo. A volte aveva vergogna di questo odio, a causa della sua banalità. Allora faceva finta di niente. Così finì per assomigliargli.

Qualche incauto glielo faceva notare, a volte. Allora lui lo cancellava dalla sua vita. Alcuni ne furono contenti. Raramente lui se ne dispiaceva e cercava di recuperarli, più tardi, ma con pochi ci riusciva veramente. Quando non ci riusciva era contento lui. Qualsiasi compromesso era di troppo. Era orgoglioso di questa intransigenza, e indubbiamente questa è una dote.  Questa dote lui la chiamava: rigore. Faceva bene ad esserne orgoglioso: non molti ne sono capaci (io per esempio ne sono del tutto sprovvisto).

Non così avvenne con suo padre. Continuarono a lungo a vedersi, anche dopo che il lavoro lo ebbe portato lontano. Visite periodiche, disinteressate ma cordiali, qualche lettera (in realtà diretta alla madre) e poche brevi telefonate. In fondo era suo padre. Quando morì, lui era all’estero. Un vero peccato. Fu tuttavia raggiunto da un inspiegabile dolore, senza dubbio effetto della lontananza. Questo ricordo lo accompagnò a lungo, e ogni tanto ritorna ancora, con rinnovato sgomento. Non è tanto il dolore ad essere inspiegabile, quanto l’inspiegabilità che è dolorosa. Circola invisibile nella sua minuta esistenza e si insedia gigantesca in quello che fa. A volte se ne accorge anche lui e si ribella. Ma questa ribellione lo disturba. Solo i deboli si ribellano. Allora, per cancellarla, dà una forma alla sua ribellione. È comunque un materiale che c’è, dice, e sarebbe da stupidi fingere che non ci sia. Tanto vale servirsene per fare altro, allora. I resti non si eliminano.


Il mondo è pieno di resti; a volte pensa  addirittura che il mondo non sia fatto che di resti, ma poi respinge il pensiero: è troppo facile, e quello che vale per tutto non dice niente su alcunché. Il mondo è pieno di resti, ma si tratta di vedere di chi e di cosa lo sono. Alcuni sono ciarlieri, si nominano e esibiscono in modo sfacciato una storia che pretendono propria; a lui invece interessano quelli meno individuati, resti generici che si depongono in silenzio un po’ ovunque e che vorrebbero sparire ogni volta che qualcuno li nota. Resti che disturbano senza dire una parola e che per questo a volte qualcuno raccoglie, sottraendoli alla vista con altri compagni nei depositi del falso invisibile. Lui allora li raduna sperando di mostrare l’invisibile che essi nascondono come facendogli scudo e di far udire il  sommesso brusio cui fa scudo il loro numeroso silenzio, non come l’eco di una parola che si è persa, ma come una soglia davanti alla quale indugia quella che ancora non ha trovato una voce. Come la voce di un padre che deve ancora venire.

 


 

 

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