22/02/14

Figura di schiena - Introduzione del 2006

Nel frattempo il libro è uscito. Si può acquitare qui:


 

Questa è l'introduzione che avevo scritto per le edizioni Bacacay, del 2006, fatte a mano in poche copie fuori commercio ormai esaurite.


Qualche anno fa, per l’esattezza nella primavera del 1997, dopo aver scritto un breve testo ispirato da un suo quadro, mi sono messo a studiare Vermeer, o quanto meno a guardare con una certa attenzione le sue opere per fortuna non numerose, e, come succede, ho cominciato a vedere.
È stato così che mi è capitato di notare in alcuni quadri del pittore olandese la presenza delle figure di schiena e che l’espressione “figura di schiena” mi si è impressa nella mente, accompagnandomi per qualche giorno. Un bel titolo, mi dicevo: ha a che fare con quello che scrivo, col modo in cui la penso e, credo, sono: bisogna che ci faccia qualcosa. E ho lasciato passare un po’ di tempo per vedere se la voglia restava.

Restava sì, ma era vuota. Allora sono tornato a guardare le figure di Vermeer e ho notato come fossero diverse dalle figure di schiena che si trovano in genere nella pittura classica: sono centrali, protagoniste, e senza il minimo accenno anche ad un solo tratto del volto. Caratteristiche che, per quanto ne sapevo della pittura, non è facile riscontrare altrove.
Ma, a ben pensarci, avevo mai fatto caso prima a figure del genere? Ce ne sono tante? Come sono veramente? Così ho cominciato a consultare cataloghi e monografie, a studiare libri non solo d’arte e a chiedere ai miei amici, pittori e non, se avevano qualche suggerimento da darmi. E naturalmente ho visitato tutti i musei che impegni e portafoglio mi hanno concesso di raggiungere e sono tornato a setacciare quelli che già conoscevo, focalizzando l’attenzione solo sui quadri che contenevano figure di schiena. Ne è venuta fuori poca roba, e di scarso interesse. Per lo più, inoltre, si trattava di arte moderna, che per il momento non mi interessava. Ho dunque proseguito l’indagine per conto mio, senza alcuna intenzione di invadere un territorio che non mi appartiene, se non sentimentalmente, come passione e letture che coltivo da sempre pur non avendole mai affrontate in modo sistematico.
Per cominciare mi sono fissato un campo di pertinenza, escludendo prima le figure che non fossero completamente di schiena, poi i nudi e infine le figurine nelle scene di massa, se non a titolo esemplificativo o prese a gruppi per genere. Alla fine è rimasto ben poco, con un certo sollievo da parte mia, devo confessarlo. Il rischio era che altrettanto poco rimanesse anche da dire quando avrei cominciato a tirare le fila della mia indagine.

Fino al ‘400 non ho trovato quasi niente, poi qualcosina qua e là e sempre di più a partire dal secondo ‘500 e soprattutto nel ‘600. Un po’ mi sono meravigliato di tale scarsità, per quanto forse non avrei dovuto: se un dipinto è fatto per mostrare qualcosa, infatti, perché mettere qualcuno di schiena? Ma si potrebbe fare anche il ragionamento opposto: perché evitare queste figure anche quando la scena dipinta lo permetterebbe, e anzi a volte lo richiederebbe esplicitamente? E quando ci sono, come mai ci sono? Che cosa fanno? Cosa significano? Se ne può delineare una classificazione? Corrispondono a qualche precisa tipologia? E soprattutto: perché mi interessano, dal momento che non ho ambizioni filologiche e meno ancora accademiche?
Spero che quanto segue possa contribuire a rispondere a queste domande, e magari a suscitarne altre anche più stimolanti, tanto più che, parlando di questo progetto ad amici e conoscenti, ho riscontato che, se nasceva da una mia fissazione, la curiosità poteva però estendersi anche ad altri.
La mia indagine è proseguita per alcuni anni, alternando periodi di studio e lavoro esclusivi ad altri in cui mi sono dedicato a progetti diversi e a più urgenti necessità, senza mai dimenticare questo tema, e anzi approfittando di ciò che leggevo per affrontarlo da nuovi punti di vista. Ne è nata una certa mole di frammenti e di spunti di indagine che è andata crescendo nel tempo, tanto che spesso mi trovavo a dubitare che sarei mai riuscito a trarne qualcosa di compiuto. Una prima piccola scelta di tali frammenti è comparsa sul numero 6 della rivista Arca nel 2000 su invito degli amici Lucetta Frisa e Marco Ercolani, che qui ringrazio. Nei due o tre anni successivi mi sono deciso a organizzarli senza alcuna pretesa sistematica, come una specie di canovaccio che ero certo che avrebbe continuato ad accompagnarmi anche in futuro, nella speranza che i lettori potessero aiutarmi a colmare alcune delle numerose lacune, se fossi riuscito a suscitare il loro interesse, mantenendo però la forma divagante e a volte svagata che i frammenti avevano all’inizio. 
Ho fatto ampio riferimento a scritti di eruditi e specialisti, le cui informazioni e idee ho preso quasi sempre per oro colato, anche se spesso le ho poi piegate, o distorte, a fini di cui sono l’unico responsabile. Tuttavia, per non appesantire la lettura, mi sono limitato a esplicitare i riferimenti solo per i testi effettivamente citati, aggiungendo alla fine una scelta bibliografica mirata, che si ferma però, tranne pochissime eccezioni, al 2005, anno dell’ultima revisione del testo che segue.

19/02/14

Nessun fastidio

C'è questa donna accanto a me, probabilmente straniera, piuttosto elegante, ma in modo discreto, giovanile, con un astuccio rosso della Spalding che contiene biro e non so che altro, e che prima ha scritto per un po' su un foglietto, con tanto di titolo a centro pagina, con una scrittura piccola ma chiara, ordinata come in una griglia invisibile, rileggendosi ogni tanto per fare il punto o correggere, e poi interrompendosi per digitare qualcosa sul cellulare, o smartphone o chissà che altro, non so, non ci capisco nulla in merito, e che a un certo momento ha poggiato la testa sulla borsa di pelle nera sul tavolino davanti a lei, non senza essersi prima tirata i capelli di lato, lasciando scoperti l'orecchio e la nuca, capelli scuri, lunghi, con sfumature, più che mèches, rossastre, delicate però, che si notano solo con la giusta angolazione di luce, per provare a dormire, o almeno a riposare, con le gambe accavallate, le unghie dei piedi scarlatte nei sandali neri, e la pelle bruna, o dorata scura, coperta di una leggerissima peluria bionda, voltata dall'altro lato rispetto a me, dandomi le spalle non per disprezzo o per segnare le distanze, come se il gesto di mettersi a dormire aprisse una qualche intimità che andava subito chiusa, un abbandono che nemmeno lo spazio pubblico di un vagone ferroviario, per quanto costoso, in un certo senso giustifica del tutto, quanto meno non per lei, per una donna riservata e certo con una buona educazione come la sua, ma piuttosto con bella disinvoltura, se non addirittura con grazia spontanea, solo perché le era comodo così, o naturale, meglio, e io volevo dirle, in inglese o in francese, non so, o solo farle segno, che se voleva appoggiare la testa alla mia spalla, ecco, piano, niente di più, che magari dormiva meglio, a me non avrebbe dato fastidio, no, non mi avrebbe dato fastidio...

17/02/14

Sguardo indolente


Si rimprovera a volte, ingiustamente, l’incapacità di uno sguardo indolente (non doloroso), carezzevole, perché di solito presta troppa attenzione a ciò che guarda, come a morderlo, a volerlo trangugiare e assimilare tutto. Ma così facendo finisce per non lasciarne sussistere nulla: quanto assimila, si dissolve e il resto è solo ciò che la digestione espelle come inutile e dannoso. È uno sguardo distruttivo. Ciò che contrasta invece con l’eccessiva indulgenza di cui lo rimproverano sua moglie e gli amici.
Indulgenza, condiscendenza, accettazione, abbandono.
(Forse il suo sguardo è così feroce, però, in quanto sa che a dispetto della sua aggressività le cose gli resistono e sopravvivono intatte. È solo un affare suo. Le persone invece possono soffrire. Con loro è meglio l’indulgenza, quindi.)


ps. La foto è di Antonio Mottolese (Mantova, 2007, credo)

15/02/14

Corpo recalcitrante, due zanzare, un gatto, una lumaca, un'anatra e grace over me





Stamattina non cammino: sposto il corpo, lo trascino. Gli arti sono rigidi, pesanti; i movimenti, meccanici; le spalle si curvano in avanti schiacciando il torace contro il plesso solare; la terra trattiene i piedi un istante di troppo prima di concedergli di sollevarsi, e poi li richiama subito all’ordine gravitazionale; gli occhi sono velati da una sottile patina granulosa; anche i pensieri respirano a fatica. Il cielo è sereno, l’aria pulita: più tardi verrà l’afa, ma ora, qui in riva al fiume, si sta bene. L’acqua scorre silenziosa, le foglie sono ferme, i canti degli uccelli risuonano nitidi ma come in uno spazio separato, e i miei passi non producono suono. Due pescatori mi vengono incontro gesticolando muti, ma non al rallentatore. Un gatto cammina con eccessiva prudenza, o solo compassato, come d’uso, nell’erba alta; gira lentamente la testa a guardarmi, ma se ne va senza nemmeno mettermi a fuoco. Non sono abbastanza pericoloso. Non posso dargli torto.
Ogni tanto, in lontananza, oltre il fiume i canali il bosco e il paese, verso l’orizzonte che gli alberi mi nascondono, ma un po’ più in alto, nel cielo appena sopra, a salire, sotto le nubi però, se ci fossero, sento dei tonfi, di quinte o muri che crollano, di soffitti sfondati, e poi rumori cupi ma striati da lunghe note acute, come di pesi che vengono spostati su un terreno accidentato, cassoni o mobili enormi. Impegnato a governare la carne recalcitrante con comandi che restano invischiati in remote circonvoluzioni, accasciati contro il muro del labirinto senza tradursi neppure nel semplice impulso a agire, li registro solo dopo un lungo intervallo. Non li riconosco, non trovo definizioni, non mi vengono in mente scenari plausibili o soddisfacenti almeno per l’immaginazione, ma di rimbalzo cominciano a formarsi le parole per ciò che mi sta attorno: aria, cielo, foglie, uccelli. Risuonano nella testa che ancora ondeggia, ripetendosi come un nastro in loop, ma acquistando qualche fonema e poi sillaba e poi radice e desinenza ad ogni giro, che poi si mescolano e sovrappongono e provano a districarsi alla ricerca di un qualche ordine, che però non trovano. Né il mio passo ci guadagna. Sembra che diventi più veloce, mentre è solo il sangue che scorre un po’ meglio, senza altri effetti, al momento. La mia, di velocità, continua a essere inferiore alle medie solite, almeno del 10-15% a giudicare dal tempo che ho impiegato nel tratto sinora percorso. Può essere che non il tempo, ma lo spazio sia elastico: il dubbio mi è già venuto in passato, quando tenevo un’andatura identica alla norma e il tempo di percorrenza di certi tratti lo cronometravo, sia pure di pochissimo, chiaramente maggiore. Oggi però la dilatazione dello spazio sarebbe eccessiva. Sono io che non vado. Intanto le parole continuano a agglutinarsi in piccoli insiemi e a ripetersi, martellando in testa un ritmo che il corpo invece non sa tenere. Devo fermarmi a prendere un appunto, se no il martellamento non cessa. Può darsi che dopo anche il passo sarà più sostenuto. Che la testa alleggerita alleggerisca il corpo.

Ma è un piccolo calvario: prima di trovare un posto dove potermi fermare a scrivere con un certo agio devo percorrere altri 3 kilometri. Tutte le panchine sono alle mie spalle, i muretti si sono appianati e per terra non mi siedo: ho i bermuda molto chiari. Nuovi. Finalmente arrivo alla cappella con le panche in pietra ai lati della porta. Appena mi accomodo, mentre estraggo il quadernetto dalla tasca posteriore, una zanzara tigre si posa sulla mia coscia sinistra, forse attratta dal candore della stoffa. La schiaccio senza pietà, a rischio di macchiare i bermuda di sangue. Non succede: non si era ancora nutrita evidentemente. O forse era un maschio. Ho qualche problema con l’identità sessuale degli altri, a volte. Degli altri animali. Scrivo tenendo d’occhio le gambe; ogni filo d’erba che mi sfiora i polpacci mi sembra una minaccia, ma vado avanti.  


Arrivato a questo punto, proprio qui, poggio il quadernetto sul piano del sedile per fotografarlo come faccio con quasi tutti i luoghi dove prendo appunti, e vedo sul suo spessore una lumaca che si muove lenta, in verticale. Senza sforzo però: col suo passo.
Scattata la foto scrivo queste ultime righe e mi distraggo: un’altra zanzara tigre ne approfitta per posarsi sulla vena appena sopra la caviglia destra. La spiaccico sporcandomi il dito di sangue. Non so se è mio o di qualcun altro. Fatto sta che poi non c’è gonfiore. Guardo la macchia di sangue per pulirla e dentro, intrappolate, vedo due frammenti della zanzara. Forse le zampette. Prima di notarle non mi dispiaceva di averla schiacciata. Ora che le ho notate e lo sto scrivendo, un po’ sì. Ma poi no. No.


(Quando mi alzo, finito di scrivere, il passo è più spedito, quasi arzillo.)
(Accendo la musica sul cellulare. La prime parole che decifro sono “by the saving grace / that’s over me”.)

 (Dopo qualche minuto, quando, sbucando dai cespugli che costeggiano la strada, imbocco a passo spedito il ponticello dell’Adda vecchia, un’anatra in discesa verso il canneto mi plana pochi centimetri sopra la testa. La vedo dopo. Prima sento solo lo spostamento d’aria, la sua carezza incorporea, i capelli che vibrano.)

10/02/14

Un Corot e un Degas della Fondazione Calouste Gulbenkian, Lisbona (e qualche nodo)



e c'erano un Inverno di Millet e un piccolo paesaggio di Corot, bellissimi che nessuna riproduzione manco lontanamente rende l'idea. E poi quest'altro Corot, bello, che ho capito dove Doisneau ha preso il cane della famosa fotografia: uguali, anche la taglia e il colore. E se non l'ha preso ma solo trovato, è lo stesso. Il nesso, la memoria, c'è in chi guarda. Il tempo va indietro e torna avanti. Funziona così. In me, almeno.

E poi c’era l’autoritratto di Degas mentre saluta con il cappello a cilindro e soprattutto il piccolo, splendido Ritratto di Henri Michel-Lévy nel suo studio, del 1879. Che gran pittore è Degas! Un suo minuscolo desolato autoritratto da vecchio, della collezione di Emil Buehrle se ricordo bene, è uno dei miei preferiti in assoluto. Questo del suo amico Henry è quasi dello stesso livello. Il pittore è appoggiato al muro, o meglio: a una tela appesa al muro, con la testa leggermente reclinata, lo sguardo, si direbbe, torvo, più che concentrato o severo, accentuato dal fatto che metà del viso è in ombra per effetto della direzione della luce, che viene da destra in alto. Indossa una camicia candida che dà maggior risalto alla pelle scura del volto, ha le mani in tasca e le gambe incrociate, in una postura modernissima; non so se era assolutamente inedita in pittura, ma, per quanto limitata sia la mia esperienza, io  non ricordo di averne viste di anteriori uguali. Ai suoi piedi invisibili, seduta sul pavimento, una figura femminile con un lungo abito rosa, un nastro rosso al collo e un cappello giallo che non definirei elegante. Quasi certamente è un manichino; ma mi piace pensare che sia una modella, un manichino pigmalionizzato. La collocazione in basso non so se allude anche alla differenza di condizione (spesso le modelle integravano i guadagni con altre prestazioni, in studio e fuori), ma lo sguardo perso e la postura scomposta lasciano pochi dubbi sulla sua lucidità (perlomeno quella di quel momento) e integrità: interpretazione indotta anche dal fatto che i tratti del suo viso siano molto meno accurati di quelli del pittore. Ma questo, così come una certa impressione dell'articolazione dei volumi corporei pur ammorbiditi dagli abiti, in contrasto con la continuità fluida del corpo del pittore, in particolare l'inclinazione della testa, dal collo come spezzato, che assomiglia a quella del Fantoccio di Goya del 1791-92, che certamente Degas
conosceva (ma anche se così non fosse, non importa: qui pure importa che lo ricordi io), la identificherebbe senza ulteriori dubbi come manichino. Sì; però io continuo guardarla come se fosse la modella. Il suo braccio sinistro, interrotto dalla cornice prima della mano, è piegato in modo da echeggiare in parallelo la postura di una delle figure del quadro sopra di lei: un uomo sdraiato prono con la testa voltata in alto verso due signore con ombrellino (l’esatto contrario di quella del pittore, che peraltro la figurina richiama). L’altro braccio invece termina all’interno di una piega o tasca dell’abito, ma la prima impressione (che rimane più forte anche dopo la correzione di lettura) data dalla grande composita macchia rosa e marrone è quella di una mano assolutamente informe, come una grossa spatola: di qualcosa di incompiuto e che al contempo sembra alludere a uno degli aspetti della tecnica usata nel quadro e in genere del lavoro più tardo di Degas, dal mestiere che condivide con il suo modello (quello vero: l'amico Henri). Questo fattore è messo in ulteriore evidenza dalla grande scatola dei colori, con all’interno una tavolozza e dei pennelli, accentuata dal primissimo piano, e poi dalla firma del pittore più sotto, in basso a sinistra. C’è tutto. Da qualche parte ci dovrei essere anch’io.