26/06/23

Due delinquentelli degli anni 50 (nella versione del mio informatore A.)


 

Il primo era noto a tutti come "Bègnom" (Beniamino), anche se non era il suo vero nome. Lo chiamavano così perché era l'ultimo di una numerosa prole; da qualcuno era detto anche "il flauto magico di San Vittore", in quanto gay ostentato, con una baldanza che ai tempi non era molto diffusa in provincia. Forse un modo di difendersi attaccando, una prevenzione del ridicolo assunto e amplificato, come richiesto dai pregiudizi dei tempi. Ad autodefinirsi tale era stato lui il primo, peraltro, vantandosi di questa abilità in cui, a suo dire, primeggiava, lui che in tutto il resto era di mezza tacca, in fondo sapendo di esserlo, soprattutto come ladro. Quello invece era il suo primato: la forma specifica che prendeva in lui la ricerca dell'eccellenza. L'impulso umanissimo a trascendersi. Eh...!

La sua specialità erano i furti nelle abitazioni, anche in pieno giorno, come a sfidare il mondo, o per dimostrare chissà che a se stesso, poi correva al bar e rovesciava la refurtiva sul bigliardo dicendo: "ardì ché, cusa ó truàt 'n dè ca la cà là!" (guardate cosa ho trovato in quella casa!). E magari la casa era di un parente o conoscente di uno dei frequentatori del bar, o di un conoscente di conoscenti, perché il suo raggio d'azione non era ampio. Fin dove poteva arrivare in bici, più o meno. In Lambretta, nei periodi fausti.

Amico di tutti, buontempone, si sentiva parte integrante della comunità in tutto e per tutto, senza riserve. Entrava e usciva di gattabuia, e tornava sempre in paese come reduce da una trasferta all'estero, da una tournée trionfale, e si precipitava subito al 'suo' bar, dove gli amici nel frattempo si diradavano, perché spostati altrove, oppure relegati in casa, da tristi padri di famiglia (come è il destino sempiterno dei padri di famiglia, secondo le sue parole). Mentre lui seguitava sulla sua strada, imperterrito, senza imparare mai niente. Forse non ne aveva bisogno. Forse gli piaceva così: un po' fuori, a svaligiare appartamenti e vantarsi al bar; un po' dentro, a suonare il piffero. Il padre faceva il ciclista in un cortile di T. Aveva un'ottima clientela e un lavoro che era cresciuto quando poi aveva allargato le riparazioni ai motorini. Si era persino preso un garzone, per un certo periodo, perché il figlio si era sempre rifiutato di dargli una mano. Era un lavoro sporco e disgustoso , e lui non voleva rovinarsi le dita. Le sue dita preziose: e rideva.

 

Un altro come lui, ma non del suo stesso giro, uno che se la tirava di più, almeno in apparenza, era Diego, figlio di un vecchietto sciancato che andava con il carrettino davanti alle scuole a vendere dolcetti e caramelle, amatissimo dai bambini e rispettato dai genitori. Un brav'uomo: povero e dignitoso, secondo prassi. Persino generoso, per quel che poteva. Anche il figlio era generoso, eccetto con i genitori, dai quali esigeva e basta, senza portare mai in casa neanche una lira. E guai a farglielo notare!, perché allora sfoderava il suo repertorio di contumelie, che rimbombavano nella cassa vuota del cortile, inseguite dalle repliche dei genitori, pure sostenute, ma molto più fievoli al confronto. Apprezzamenti e epiteti di gran tradizione, che ancora resistono alle mode. In pubblico invece era socievole e sbruffone, come certi personaggi della commedia all'italiana degli anni 50 e primi 60 che forse erano il suo modello, andava in giro tutto elegante, su macchinoni che cambiava spesso, e nessuno sapeva quello che faceva. Una volta ha salvato il mio amico A., allora adolescente, che era caduto col suo primo motorino in una scarpata e era rimasto con la gamba sinistra impigliata nella filo spinato alla sua base, con varie punte di ferro arrugginito conficcate a fondo nel polpaccio e nella coscia, incapace di fare il benché minimo movimento senza peggiorare la situazione. Non c'era nessuno nei paraggi: Diego lo aveva visto da lontano e, riconosciutolo come il bambino che per un po' aveva abitato nel suo cortile, era sceso, vestito da gagà com'era, in mezzo alla sterpaglia, gli aveva tolto delicatamente tutte le punte dalle ferite, lo aveva preso in braccio e portato al pronto soccorso, aspettando che fosse medicato, fatta l'antitetanica e cuciti i punti, per poi restituirlo ai genitori. Nell'attesa aveva pulito i sedili dal sangue che nonostante le precauzioni li aveva macchiati, usando la camicia, a sua volta in parte insanguinata oltre che sporca di erba e terra, e se n'era messa una pulita, che forse aveva in macchina di scorta. Dicono che tenesse nel bagagliaio una grossa valigia piena di abiti e oggetti personali, per ogni evenienza. Leggende. Poi, forse aiutato da qualcuno, era tornato a recuperare la moto e aveva riportato a casa di A. anche quella. Si vedeva ancora in giro fino a una ventina di anni fa. Pare che fosse andato a abitare in qualche paesino della zona. Sposato magari. Anche se non era il tipo. Aveva sempre quelle giacche eleganti, i capelli lucidi, tirati all'indietro, con qualche onda, quando tardava a passare dal barbiere. Chissà che fine ha fatto. Magari è morto e tutti pensano che era solo uno sbruffone disgraziato.



10/06/23

Acqua ferma (mentre scrivevo, lo tsunami: 11 marzo 2011, quindi)


Anche l'acqua ferma ha i suoi vantaggi. Quella del canale oggi, per esempio. Senza la distrazione della corrente con le sue increspature e i piccoli gorghi, senza l'incanto della luce che brilla e si muove, balzano all'occhio altre cose. Dall'incanto del movimento a quello dell'immobilità. Incanto o imbambolamento, dipende. Balza all'occhio, più ancora dei riflessi delle sponde capovolte che pure sono più netti e hanno i contorni disegnati con precisione, la superficie in quanto tale, come superficie specchiante e insieme piano di sostegno, spazio su cui si distribuisce e dà testimonianza tutto ciò che galleggia. Il pelo dell'acqua. La pelle. Se poi l'acqua non è troppo torbida, si scorge meglio anche il fondo, con la vita elementare che si radica e si agita da quelle parti misteriose. (Il fondo è misterioso per definizione. Anche se poi...) (Diversi sono gli abissi; ma pure loro, a starci per un po'...)

Oggi l'acqua del canale è abbastanza bassa da essere trasparente lungo la riva, mentre al centro, e da lontano, appare come una membrana verdenera, un po' opaca. Il cielo è coperto, la luce debole, uniforme. Sulla superficie stagnano foglie, rametti e tutto un brulicare di minuzie che la rendono qua e là come ruvida, mentre lungo i bordi, incagliati in piccole rientranze, tra i rami degli arbusti o gli steli di erbe alte, galleggiano corpi più voluminosi, bottiglie, assicelle, frammenti di sacchetti e lattine, portati dagli ultimi sussulti della corrente prima che si spegnesse, in una visuale sincronica, ora, ma con inscritte tracce temporali decifrabili anche senza eccessi di immaginazione.

Nei punti più bassi e ciottolosi, gli insetti depositano le loro larve e molti pesci le uova, al riparo dai predatori, che però la sanno lunga e una buona parte se la pappano lo stesso. Appena sopra la superficie, altri insetti e la mirabile congerie dell'invisibile che riesco solo a immaginare (ovviamente) danzano la loro vita fulminea e eterna. Esattamente come noi. Come me.

 

Mentre rileggevo queste banalità con il deplorevole proposito di continuare, ho saputo del terremoto in Giappone e ho visto i video dello tsunami e, più tardi, dell'esplosione della centrale nucleare.

 

Il giorno prima avevo preso un appunto dedicato allo sguardo perso. Diceva così:

"Viene il momento in cui, senza che te ne accorga, ti trovi stampato in faccia questo sguardo perso, che diventa il tuo sguardo definitivo, soggiacente a tutti gli altri che potrai avere, velato a volte, o ben nascosto, ma sempre presente, irredimibile.

(L'ho appena visto sul signor M., fermo davanti al cancello di casa sua, incurvato in avanti, la bocca appena aperta, che non guardava niente e forse vedeva tutto.)"

 

Guardando i video anche il mio è venuto a galla. Esploso insieme alla centrale.

 

(E da noi i delinquenti vogliono farne!)

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



02/06/23

26 novembre 2011, tra le 8,30 e le 10

 


Passeggiata lungo il fiume, tra le 8,30 e le 10, con la brina che poi si scioglie pian piano e la nebbia che muta colore e acquista profondità e lucentezza, rosa e d'oro, come la polvere di Giove nei quadri con Danae, più il sole si alza. Sopra gli alberi un azzurro purissimo. Sull'acqua vapori cangianti (non avrei mai creduto di usare questa parola: chiedo scusa a me stesso), poi una fascia compatta, sospesa, con le chiome degli alberi più alti che fanno capolino, sopra, in lontananza. Uccelli sui fili, una ciclista bionda che mi sorpassa e dopo cento metri frena, si guarda attorno (ma non me; o forse sì: mi sbircia come faccio io) e gira la bici, per affrontare di nuovo la salitella. Gli alberi. Ogni cosa separata. Distinta e insieme. La luce radente e poi soffusa. Il cielo. Quasi quasi mi dispiace crepare.