
Alberto e Diego Giacometti
nascono a un anno di distanza – ottobre 1901 e novembre 1902 – in un paese dei
Grigioni, Borgonovo di Stampa, nella famiglia di un pittore piuttosto noto,
Giovanni, in una casa frequentata da artisti, tra i quali spicca Giovanni
Segantini. I fratelli crescono insieme avendo libero accesso all’atelier del
padre che li segue con amore e li ritrae spesso assieme agli altri due
fratelli, Ottilia e Bruno. Entrambi naturalmente si provano a imitare il padre,
ma mentre Alberto mostra presto spiccate doti creative, Diego non sembra averne
e si dedica ad altri studi e attività, senza trovare una strada propria, pur
avendo un carattere socievole, un bell’aspetto e doti di affabulatore che
conserverà per tutta la vita. Finché Alberto, che negli anni ’20 si è
trasferito a Parigi, non comincia ad avere un certo successo, che diventa grande
nel ‘29, tanto da indurre a chiedere al fratello di raggiungerlo per aiutarlo
ad affrontare l’enorme mole di lavoro che la nuova situazione comporta. Diego
in un primo momento tentenna, poi lo raggiunge, iniziando così un rapporto
affettivo e artistico che durerà tutta la vita, se si escludono gli anni della
guerra. Il rapporto tra i due è saldissimo, senza infingimenti o frizioni, in
una sorta di reciprocità e affetti esenti da scalfitture. Una specie di
gemellarità, non sempre presente tra fratelli, specie se uno gode di una
posizione socialmente superiore. Tra i due però non è così: Alberto da una
parte è protettivo ma dall’altra mostra di aver bisogno di Diego, di essere
come dimidiato senza di lui. E Diego si rende indispensabile, sempre di più. Come
attestano tutte le testimonianze e i documenti che li riguardano, a partire
dalla corrispondenza tra loro e con i famigliari, una bella scelta della quale viene
presentata nel catalogo della mostra che si sta tenendo presso la Fondazione
Luigi Rovati, a Milano, che non a caso si intitola Diego l’altro Giacometti,
a cura di Casimiro Di Crescenzo, che cura anche la mostra.

Alberto crea, preso nei suoi
rovelli a caccia di una perfezione che sembra sfuggirgli sempre più crudelmente
con l’ombra del fallimento che gli appare incombente nonostante i successi e
l’ammirazione che gli viene tributata, e Diego gli fa da assistente, segue le
fasi della lavorazione delle sue opere, tiene rapporti e fa ordine nelle
attività, sbozza le sculture, le duplica in certi casi… E quando fa qualcosa di
proprio si impegna in generi minori, secondo i criteri dell’epoca, dove però sembra
accomodarsi con agio e soddisfazione, e produce oggetti di design, si direbbe
oggi, e piccole sculture; e se si firma è solo Diego, non Diego Giacometti, o
non si firma affatto. Solo in pochi sono a conoscenza di quello che fa; quasi
solo amici, gente del giro, anche se poi questi amici e questa gente ne hanno
altri, e le creazioni di Diego cominciano ad essere apprezzate e richieste. Ma
lui insiste a non firmarsi, come se si volesse cancellare. Il fratello gli fa i
complimenti per le piccole cose che realizza, ma chissà se non sono complimenti
dettati solo dall’affetto e magari anche con un po’ di degnazione. Non
dovrebbero, perché il fratello è noto per il suo rigore, per l’intransigenza
delle scelte e per le pretese che impone non solo ai suoi modelli (come Diego,
sempre lì a disposizione, pazientissimo, così presente nella mente di Alberto
che questi lo raffigura senza accorgersene anche quando esegue ritratti di
invenzione; o o come il filosofo giapponese Isaku
Yanaihara che ha raccontato le estenuanti sedute di posa, e l’amicizia per
l’artista, nel bellissimo I miei giorni con Giacometti, Giometti&Antonello,
Macerata, 2021)) ma in
primo luogo a se stesso.
Diego arriva alla sua opera con
passi lenti, e in modo indiretto. Dopo i tentativi della giovinezza abbandona
ogni pretesa artistica, ed è solo quando viene chiamato a Parigi da Alberto, vedendolo
disegnare e scolpire e nella sua quotidiana pratica di assistente, che pian
piano acquisisce sicurezza, affinando le capacità esecutive che scopre di
avere, successivamente perfezionate anche con lo studio accademico, e arriva a
creare piccoli oggetti e sculture personali. Intanto prepara i gessi e i
materiali, ritocca gli abbozzi, realizza i calchi per le sculture, esegue le
patinature con sempre maggiore maestria.

Non è un semplice lavoro da
subordinato riscattato dall’affetto, ma una vera collaborazione che Alberto è
il primo a riconoscere; ma è anche, si può immaginare, un apprendistato, un
processo di formazione e di conseguimento di un modo e di un mondo personale
che probabilmente l’assenza di pressione individuale, di quei rovelli infiniti
che opprimono il fratello, agevola e favorisce, portandolo ad formare, quasi senza
accorgersi, un proprio spazio fantastico che attinge all’infanzia, ma si rifà a
modelli antichi, egizi, greci e romani. E etruschi, in particolare: cosa che
rende particolarmente affascinante l’esposizione delle sue opere all’interno
della Fondazione Rovati con la sua magnifica collezione di opere etrusche, con
le quali quelle di Diego si armonizzano con naturalezza, quasi fossero una loro
reviviscenza, moderna sì, ma con un evidente patrimonio genetico comune,
un’aura condivisa.
La mostra si apre la scultura di
una testa di leone, la sua prima opera originale realizzata nel 1931, scolpita nel serpentino, una pietra tipica
della val Bregaglia, come informa Di Crescenzo nel pregevole saggio del
catalogo, che racconta tutta la storia di Diego, prima in relazione a Alberto e
poi seguendo lo sviluppo della sua carriera e delle commesse sempre più
importanti che riceve. Infatti ben presto l’abilità manuale di Diego viene
notata da molti amici e collezionisti di Alberto, che cominciano a chiedergli
aiuti per la realizzazione delle proprie opere, come Georges Braque, e oggetti
di sua mano, tanto che prende un atelier tutto per sé di fronte a quello del
fratello, così che la loro vicinanza venga conservata, se non addirittura
rafforzata, dagli spazi autonomi dove ciascuno può dedicarsi al proprio lavoro,
fermo restando che per lungo tempo quello principale di Diego sarà di supporto
alle realizzazioni del fratello. Tra le quali, negli anni ’30, decisiva anche
per il suo percorso è la collaborazione con l’architetto di interni parigino
Jean-Michel Frank, che commissiona ai due fratelli numerose opere di
arredamento (oggetti, lampadari, ecc.) che costituiranno successivamente
l’attività principale di Diego, anche se per lungo tempo le opere verranno
attribuite solo al fratello. Diego si cura della loro esecuzione materiale, a
volte apportando qualche modifica e forse anche cominciando a creare qualcosa
di suo, senza firmare nulla, come i due grandi lampadari per il salone della casa di moda Lucien
Lelong, primo tra i molti committenti e estimatori di quel mondo e delle élite
che lo frequentano, che saranno sempre tra più costanti appassionati dei lavori
di Diego, anche dopo la scomparsa del fratello nei primi giorni del 1966: da Guerlain a Elsa Schiaparelli e alla viscontessa
di Noailles, prima, alle grandi commesse per la fondazione Maeght di
Saint-Paul-de-Vence e il Museo Picasso di Parigi poi.

Saranno dapprima elementi di
mobili, basi e angoli per sedie, supporti del cristallo di tavoli, applique,
angoliere, che non differiscono dalle sculture che realizza nel contempo, e
sempre più con il passare degli anni. Le forme risentono naturalmente,
all’inizio, del modo di lavorare e trattare la materia del fratello, ma presto
acquisiscono caratteristiche spiccatamente personali, con richiami molto
originali a modelli del remoto passato.
Queste opere gli attirano
l’attenzione di galleristi, che lo inseriscono in prestigiose esposizioni e gli
organizzano anche delle mostre personali, e collezionisti che richiedono le sue
opere.

Sono animali rappresentati con
grazie e naturalezza, motivi vegetali, ma anche oggetti strani, come delle mani
reggitenda o gli straordinari, inquietanti, Oiseaux presenti in mostra,
e poi sedie, i bellissimi tavolini, composizioni fantastiche come lo specchio in
mostra, del 1942, che lo faranno apprezzare come uno dei maggiori designer del
900, con una fortuna tuttora crescente, tanto che le sue quotazioni alle aste
hanno raggiunto valori dell’ordine di milioni di euro. Se Diego fosse a
conoscenza di queste quotazioni, sarebbe il primo a stupirsi. Ma certo sarebbe anche,
giustamente, orgoglioso. Non più solo, o soprattutto, l’amato fratello
dell’immenso Alberto, ma Diego, grande artigiano e artista in proprio, con il suo
mondo e il suo valore ormai da tutti riconosciuto e amato. Però forse lo
stupore e il legittimo orgoglio non lo segnerebbero più di tanto. Perché come
per il fratello, anche se in modo meno ossessivo, e come per tutti gli artisti,
quello che contava era il suo lavoro, le cose che realizzava, il mondo sempre
più vasto e personalissimo, favoloso e leggero, affettuoso, intimo ma con
grandi slanci di fantasia, che andava creando e che abitava come il suo vero mondo,
quello veramente e integralmente suo.
Una versione più breve di questo articolo è uscita su doppiozero in occasione della mostra di Diego Giacometti presso la Fondazione Rovati di Milano