30/03/21

Marco Belpoliti, Pianura

Quando scrive, Marco Belpoliti, rispetto a ciò di cui parla, – anche se in ogni cosa è sempre dentro, perché non parla mai, neppure se richiesto, di qualcosa che non ama o non lo interessa, che è poi la stessa cosa, almeno per lui – di solito  fa un passo in fuori, per vedere meglio le connessioni, le differenze, le sfumature, i rimandi, le implicazioni, come un geografo, o come uno studioso-camminatore che si ferma a guardare da una terrazza o da una gobba della campagna, o al massimo da una collinetta; e allora in ogni cosa lui c’è, ma è come se si sottraesse, come se non volesse che si noti nemmeno qualche lembo della sua ombra come ogni tanto i fotografi hanno il vezzo di lasciare intravedere nelle loro immagini, mentre invece, a ben guardare, a non lasciarsi trascinare dalle molte cose che ci racconta e descrive, da tutte quelle illuminazioni e curiosità che ci dona e ci fa scoprire, lui dentro c’è sempre tutto, corpo e ombra, perfettamente mimetizzato, come una farfalla o uno di quegli insetti la cui storia ci racconta in tanti suoi articoli e libri. Nel suo ultimo, bellissimo libro invece, Pianura, appena uscito da Einaudi, a me sembra che Marco il passo lo ha fatto in avanti, dentro la materia e la scrittura, in primo luogo per l’inconsueta scelta, per lui, della narrazione come  carattere primario, perché raccontare racconta sempre anche negli articoli e nei saggi, e della prima persona come voce narrante, che si rivolge a un “tu” che prende la forma, come personaggio, di un amico di lunga data con cui il narratore ha condiviso, e condivide, molte esperienze, ricordi e interessi, oltre che un ampio epistolario di cui il libro finge di entrare a far parte, ma che potrebbe anche essere il lettore, soprattutto uno come me, che ne condivide la nascita e la vita in pianura, se non il luogo di origine preciso, che pure nell’economia del discorso, e della vita, e io lo so benissimo quanto a me, conta tantissimo; e poi perché il racconto parte dal vissuto e dalla memoria, pur senza farne il proprio oggetto principale – perché quello è sempre fuori, ma un fuori visto da dentro; anzi, con dentro il proprio dentro, sparpagliato sulla superficie della pianura e che in essa si riflette... –, forse anche a causa degli anni che passano, che magari non pesano, ma ci sono, e ogni tanto fanno sentire la propria voce, e allora, invece di difendersene e respingerla come sempre, fosse solo per pudore, la si sta ad ascoltare, lasciandosene trascinare (incantare), senza vergognarsi della sua dolcezza. Della sua tenerezza, che secondo me di Pianura è il tono dominante. Assieme all’affabilità e alla confidenza che rivolgersi a un amico consentono e che Marco in questo libro orchestra magistralmente, senza smancerie e viceversa senza le forzature che in questi registri sono sempre dietro l’angolo, traditore.

E questa voce parla di ricordi, e di progetti, di viaggi, incontri, figure famigliari, tanti amici, e tanti maestri, assiduamente frequentati o incontrati poche volte in carne e ossa o mai, ma che hanno lasciato il segno, che vanno a disporsi come nei riquadri della centuriazione romana che scandisce la piana almeno fino al Po, e in certi casi oltre, a disegnarne il paesaggio anche quando non sono più percepibili.

E allo stesso modo, quasi senza darlo a vedere, anche da questo libro viene fuori una vita, la trama larga e forte di una vita che non è solo di chi scrive, ma anche la nostra, di molti se non proprio di tutti, di una generazione nata negli anni ’50 e nella pianura e lungo i suoi fiumi, e un po’, ne sono certo, anche quella di molti altri. Figure memorabili, note e quasi sconosciute, raccontate in ritratti altrettanto memorabili, da Camporesi a Celati, da Berger a Scabia, da Marco Martinelli e Ermanna Montanari a Benemerita Annarella e Giovanni Lindo Ferretti, che vengono a compore, in filigrana, un’autobiografia intellettuale e sentimentale, un autoritratto per interposte persone, attraverso le predilezioni, le consonanze, le forme che la relazione affettiva assume, come un esoscheletro che nasconde e insieme rivela il corpo che vi è racchiuso, o come quei quadri di Arcimboldo che raffigurano persone o mestieri o stagioni attraverso gli oggetti della loro attività o le loro caratteristiche o i loro prodotti ma senza la loro speciosità, o la loro voglia di stupire, perché leggendo li si vede ad uno ad uno e solo alla fine si riesce a intuire, sottile, un tracciato coerente e unitario, appena accennato ma a quel punto evidente e indimenticabile. Se questa autobiografia è tutta “esterna”, con minime concessioni all’interiorità e al privato, è perché tutta esterna è la biografia, proiettata verso il fuori, gli altri, i reciproci rapporti, che poi vengono ripresi all’interno, sezionati e triturati e impastati nelle parole (per usare metafore relative al cibo, che è uno dei motivi ricorrenti del libro), perché è l’interno, sono gli affetti, il legante che li fa essere e durare, per quanto dispersi siano nello spazio e nel tempo. L’andirivieni nella pianura infatti avviene nel tempo oltre che nello spazio, con soste nei luoghi segnati da frequentazioni, letture, immagini, viaggi, studi e memorie personali e famigliari, che il lettore può seguire anche attraverso una mappa disegnata da Belpoliti e riprodotta nei risguardi all’inizio e alla fine del volume, a segnalare che il percorso era già iniziato prima della prima parola e non è terminato dopo l’ultima, che non a caso, anch’essa scritta a mano, disegnata come i tanti disegni che lo costellano: abbozzi, promemoria, scarabocchi..., è “eccetera”.

 

Perché la pianura comincia che è già tempo, è già storia. Nella sua geografia, e non solo nella sua geologia, il passato è presente e visibile. Il libro lo dice espressamente fin dall’inizio, con un capitolo dedicato alla centuriazione ancora oggi riscontabile in larghi tratti soprattutto a sud del Po, e alla sua riscoperta da parte di uno dei personaggi marginali e improbabili che costellano la narrazione e contribuiscono al suo fascino: un soldato e console danese, in questo caso, che fa la sua scoperta in Tunisia e poi cerca e trova tracce e conferme nella nostra pianura. Si nasce in uno spazio già misurato, diviso, lavorato, che contiene nella sua superficie le stratificazioni che ne hanno determinato i lineamenti. L’unico spazio che non cambia è quello che cambia sempre, il cielo, con le sue luci che avvicinano o allontano le cose come lenti, anche se per rendersene conto è necessario un limite, come quello delle montagne che però non sempre sono visibili, perché spesso l’aria stagna, umida, quasi densa certi giorni, diafana, persino opaca anche in assenza di nebbia; il cielo a sua volta cartografato da Ghirri, autore della stupenda foto della sovracoperta, con le sue nubi e velature, ma senza indicazioni né altro indizio che non sia quello della cornice dell’immagine. Pianura è un libro di cartografi scritto da un cartografo. Cartografi di territori reali e immaginari, come il trecentesco monaco visionario Opicino, o di spazi che solo lo sguardo dettagliato di chi vive a contatto del terreno può avere.

 

Nella pianura lo sguardo dall’alto è impossibile, ci si eleva solo di poco, si è sempre raso terra, tra le cose, una di loro. Lo sguardo è sempre orizzontale, l’unica lontananza è l’orizzonte, se non ci sono case o alberi a impedirlo, ma mobile a seconda dell’aria, lontanissimo col sereno. E il cielo, che allora è facile popolare di fantasie. (Per questo è bello, ogni tanto, salire in montagna, o a Bergamo alta, per me, e da lì, se c’è vento a spazzare lo smog, vedere tutta la pianura, dall’alto, e se si è fortunati arrivare con lo sguardo fino all’altro confine, gli Appennini, azzurri. Ma di solito, ci sono i paesi nella caligine, i fumi colorati, qualche macchia di verde residuo, i margini slabbrati della campagna, della visione. Dall’alto, ma, ancora, non da troppo da troppo in alto.)

 

Ma facciamo un passo indietro, a imitazione di quello di Marco, perché anche a noi piace guardare come sono fatte le cose, come si articolano tra di loro e come funzionano: il suo è un farsi indietro abbastanza da poter guardare da fuori, ma non troppo, senza la pretesa di dominarle, a differenza delle presuntuose vedute aeree della scienza. No, Belpoliti di solito fa un passo indietro, o due o tre, quanto basta, per non perdere il contatto, come non lo perde mai dai libri delle sua biblioteca, anch’essa sparsa sul territorio, e dalla sua memoria di essi, le cui tessere sembra che vadano a comporsi da sole nei suoi saggi e articoli e libri, a formare però quello che non è un mosaico ma un affresco, perché le tessere lì dentro si scontornano e trapassano l’una nell’altra fino a fondersi senza soluzioni di continuità, non più singolari, ma insieme. Spiccano, ma come un insieme. Infatti, e questo a me piace molto, non cercano di colpire nella loro singolarità, non vanno a caccia della memorabilità e della citabilità anche quando potrebbero ambirvi. Sono disposte nel continuum della discorsività orizzontale, unite con saldature invisibili, incastrate alla perfezione come gli intarsi magistrali del duomo di Bergamo disegnati da Lorenzo Lotto. Entrano nella rete della mente del lettore senza voler colonizzarla, nemmeno con la malizia capziosa della seduzione, o illuminarla con un eccesso di watt, bensì come luce diffusa, morbida, che accende nuove diramazioni, che mostra o traccia nuovi percorsi, che poi, a posteriori, sembrano, e non erano, già lì, portate da un movimento che le avvolge e le ordina senza fatica, per quanto varia sia la loro natura e distante, per il senso comune, la loro provenienza. Per vedere come questo procedimento funziona, basta prestare attenzione al modo in cui sono costruiti i singoli capitoli, per esempio in “Pispiò” dove la forma, l’andatura e la tonalità del discorso mimano il parlato con le sue divagazioni e i suoi salti, e sono invece il risultato di un meccanismo perfettamente costruito, compatto e unitario proprio laddove si assume sembianze ramificate e dispersive.

 

Parlando di Ghirri, uno dei suoi punti di riferimento, Belpoliti scrive che il suo obiettivo non era di “denotare ancora una volta la trasparenza, ma piuttosto di togliere tutta la trasparenza che c’è tra noi e il mondo, e questo per tornare a vederlo. La nebbia assumerebbe questo compito di condurci alla visione del mondo così come ci appare.” Chi vive nella pianura padana questa esperienza l’ha fatta innumerevoli volte e anche se spesso non vi fa caso, ce l’ha dentro, e la riconosce subito, se solo qualcuno gliela fa notare. Una cosa difficilissima da realizzare in fotografia. Ora che tutti hanno uno smartphone, lo possono sperimentare: anche quando sembra fitta, la nebbia nell’immagine scompare, si sottrae alla vista quasi quanto sottrae alla vista il mondo. Personalmente ho sempre amato la nebbia proprio per questo: che ti accoglie e avvolge, ti nasconde e insieme ti espone all’ignoto, che è anche un pericolo e ti rivela a te stesso; che mentre acceca regala visioni: le cose escono dalla nebbia e ti vengono incontro nella loro singolarità e nella loro diversità, a seconda della sua densità e delle “condizioni di luce” sulla pianura, per citare un altro dei grandi amici e maestri di Marco, Gianni Celati, e a seconda dell’ora del giorno o della sera, del fatto di ricevere il lume naturale o quello artificiale del lampioni o dei fari di un’auto, come piaceva tanto a me, quando tornavo a casa che era già sera e la nebbia era fitta e io prendevo apposta una strada che attraversava la campagna buia, senza una casa e un lampione per chilometri e chilometri, tutta curve e piccoli avvallamenti, che si doveva percorrere lentamente, attento a non uscire di carreggiata e finire in un fosso o contro qualcuno cha sbucava all’improvviso a piedi o in bici, e gli alberi che la costeggiavano, in certi punti, uscivano pian piano, uno alla volta, nerissimi, spogli, meravigliosi, e a volte, quando la nebbia si alzava, era come infilarsi in un lunghissimo tunnel di buio sopra e attorno, e chiarissimo davanti, illuminato per qualche metro dai fari e con le robinie e i sambuchi che ti accoglievano a gruppi, come ad abbracciarti, e il mondo era vivo e ogni cosa sprigionava il suo incanto prima di sparire; o di giorno, quando le gocce acquistano coma una tonalità dorata, che diventa scintillio quando la strada porta verso la montagna e a un certo punto arrivi alla soglia in cui esci verso il fulgore del sereno ma per qualche attimo sei avvolto da una polvere luminosa, accecante come quando si sta per rivelare una divinità, e questa divinità è il mondo; oppure ancora, ed è quella che preferisco, quando si cammina di giorno e tutto è sempre e solo grigio, in sfumature che vanno dal ferrigno al cinereo, e si vede poco o niente eppure si va avanti, quieti e sicuri anche se ci si perde, perché anche se non lo si percepisce, si avverte l’eco del mondo e la sua forma e la sua consistenza e la sua consolazione, nel tempo sospeso, ininfluente, dimenticato. Sensazioni e esperienze che anche Belpoliti conosce e racconta nel suo libro. “Per questo la nebbia, scrive Belpoliti, è lo stato perfetto in cui vedere [lo] spazio [della Pianura]: l’aperto è incommensurabile e la nebbia non lo lascia guardare.” Il mondo non è in agguato, si è solo ritratto, lui pure, un passo indietro dall’evidenza. Dalla sua prepotenza, per delicatezza.

 

E anche per questo gli uomini della pianura hanno sempre un che di fantastico, e di strano, incline all’immaginazione e alla nostalgia, predisposti a quel particolare stato che viene chiamato “magone” (descritto in uno splendido capitolo), che persiste a dispetto di tutta la loro disposizione alla razionalità e alla pratica concretezza del vivere quotidiano, e a volte, a momenti o per lunghe stagioni, li inghiotte. La lunga schiera di scrittori emiliani che dal Boiardo arriva a Delfini e poi a Celati, e a Cavazzoni e Benati e molti altri, di cui Belpoliti parla in questo libro aggiungendosi alla schiera, è lì a dimostrarlo. E immaginazione è “tutto quello che racconto qui. Sono cose vissute, ma nella memoria, col tempo hanno preso una strana forma, come di sogno, a volte”.

 

Anche quando il discorso fila via, foealizzato sulle storie da narrare e le figura da ricordare, lo sguardo e la mente si muovono in continuazione e perlustrano i paraggi e le lontananze, e all’improvviso si insinuano un dettaglio, un’osservazione, una considerazione veloci, ma che lasciano il segno, accendono e velocemente spengono una lucina, perché la lettura ti trascina avanti, la cui traccia ti resta nell’occhio e nella testa ai margini del flusso, per cui spesso te ne accorgi soltanto dopo, quando sei già passato oltre, con un effetto ritardato, così che rallenti e torni indietro a rileggere, per poi riprendere con quell’immagine o la riflessione ben salde, ormai ineludibili, che si irraggiano anche sul seguito e lo illuminano di luce nuova, mostrando aspetti e sfumature che erano rimasti nell’ombra, o invisibili (come quella sulle scale a p. 252).

 

Così, di luogo in luogo, di figura in figura, Belpoliti, come dice lui stesso, chiama a raccolta il passato remoto e recente, gli amici lontani o scomparsi e riesce perfettamente in quello che, in una rara ammissione personale diretta (di solito  espone ciò che è più intimo parlando degli altri o con le loro parole), era l’obbiettivo che aveva in mente scrivendo questo che è il più bello dei suoi libri, “rimettere insieme i pezzi sparsi della [sua] vita”.

 

L’ultima scena è al cimitero dove sono sepolti i genitori. Pianura è un omaggio anche a loro, una memoria discreta e un congedo. Quello che prende forma e viene a consapevolezza quando il narratore si accorge di aver trascurato troppo a lungo e quindi lasciato seccare e isterilire la madre dell’aceto lasciatogli in consegna dal padre, che l’aveva invece curato per tutta la vita, nel bellissimo capitolo intitolato appunto “Aceto”, come vero e proprio taglio del cordone ombelicale, che però il racconto riannoda simbolicamente e appiana nella dolcezza della malinconia.

Le ultime parole del libro, prima dell’“eccetera”, sono “necessità” e “modestia”: un doppio sigillo.

 

 Questo articolo è uscito l'8 marzo 2012 su "Le parole e le cose", che ringrazio di averlo accolto, in particolare nella persona di Italo Testa.

 


 

29/03/21

Intervista a Milo De Angelis (1982)


Il rastrellamento della memoria, cioè La ricerca del verso giusto

 

Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove vive e lavora come psicanalista. Ha pubblicato un libro di poesie, Somiglianze (Guanda 1976), un racconto, La corsa dei mantelli (id. 1979) e un testo teorico, Poesia e destino (Cappelli, 1982). Ha fondato e diretto la rivista Niebo e tradotto libri dal francese, dal latino e dal greco.

 

Di Milo De Angelis sapevo che, tra i poeti affermati dell’ultima generazione, era non solo il più giovane ma anche in assoluto tra i più dotati; che nonostante questo la sua figura e le sue posizioni teoriche e poetiche davano luogo a reazioni radicalmente contrastanti (rigetto o amore e niente tiepidezze); e che aveva sempre rifiutato le interviste, così come disdegnava la recensione e ogni intervento giornalistico, ritenendo il tutto “una semplice questione di sociologia letteraria che era ben lieto di lasciare ad altri”. Così quando ha risposto in modo affermativo alla mia richiesta, scarsamente convinta peraltro, sono rimasto insieme sorpreso e imbarazzato: prevedevo un atteggiamento poco conciliante, e a me non va di litigare.

Invece il nostro incontro è stato molto affabile oltre che interessante, tanto che si è protratto per tre ore, e dubito che potrò riferirlo anche soltanto nelle sue fasi salienti.

Molto affabile dicevo: lui che sviluppava un discorso ricco di immagini, accostamenti e spunti teorici, soppesando ogni parola, anche quelle più polemiche e inattese, e io che continuamente interferivo, equamente diviso tra Pavlov e la mimesi da un lato e le mie idee e curiosità dall’altro; lui che cercava di assecondare le mie iniziali richieste di completezza e sistematicità, e io che amnesico le sabotavo.

 

Che pensi di Somiglianze a sei anni dalla pubblicazione?

Somiglianze riguarda un certo esistenzialismo, non sartriano, ma impersonale e adolescenziale. Sentivo il problema della coscienza infelice come luogo abitabile e al tempo stesso il mio rubare in casa d’altri in nome dell’affitto che pagavo: da una parte c’era l’esigenza di giungere all’estremo limite, al secondo prima della morte: dall’altra c’era la possibilità di allargare indefinitamente questo secondo, di abitarlo.

 

Abitarlo come? Sperimentando che magari è gioioso, come suggerisce la frequenza di questo termine nel testo?

Non proprio. Abitarlo con la certezza di un abuso, fondando nella relazione con l’altrove la via del ritorno. La morte non era sentita in Somiglianze come imminente, ma come qualcosa che avverrà, non si sa quando; e questo non sempre ha dato pressione né a me né alle parole sulla morte. Somiglianze è un libro onesto, nel senso che effettivamente non sono andato oltre i miei limiti, non ho inventato. Ma è anche il rendersi conto della frattura tra essere e dire ragionando intorno a questa frattura, senza che un imperativo imponesse la loro coincidenza.

 

E’ nella direzione di questa coincidenza che è avvenuto il cambiamento?

Sì. Là c’era un’aspirazione mancata all’assolutezza che non coglieva la bellezza del finito; c’era una tensione verso il “fa’ ciò che accade” , il “fac quod accidit”, senza che ci fosse l’altro senso di questa espressione, cioè il “fa” perché accade/accadde. Adesso è diverso; adesso sento che una parola detta, anche se può farmi ignaro o timoroso di fronte ad essa, è detta con voce troppo forte perché possa ribellarmi. Con questo non intendo affermare che Somiglianze sia un libro interloquibile nel lamento, perché c’è un dolore animale allo stato puro, c’è un “io soffro” ma nessun “guaritemi”.

 

Vorresti specificare cosa intendi per “imperativo” e per “destino”?

Scrivendo le poesie di Millimetri (che usciranno tra poco), avvertivo come una dettatura. Il mio sforzo era quello di acuire l’udito per ascoltare quanto mi veniva dettato. Notti, diciamocelo pure, trascorse a cercare il verso, l’unico possibile; ma, una volta trovatolo, non c’era nessuna soddisfazione: quel verso doveva esserci; semmai ero io ad essere giunto in ritardo. Una dettatura senza dettatore, impersonale, che ti dice solo che sei obbligato a pronunciare la verità, al di là del principio di piacere.

 

Niente di più lontano dunque dalle poetiche così diffuse della finzione e della invenzione.

Sentivo, e sento tuttora sempre più lontana da me l’idea stessa di invenzione, tanto che difficilmente riesco a distinguere quella pacchiana di un Manganelli (o di qualunque altro salottiero) dall’invenzione più alta poniamo di un Ariosto. Voglio dire: se uno – negando il tragico – inventa una parola bella, e così via all’infinito; questo – in quanto cancellazione del dogma – mi sembra chiederci: “ciò che non porta con sé la sua fine ha il diritto di iniziare”? Quindi il tentativo è stato quello di rastrellare nella mia memoria un evento ineccepibilmente accaduto; scaturendo dalla cronaca non per mia scelta, l’evento doveva essere quello, non potevo abbellirlo. Millimetri è questa necessità di andare al di là della soddisfazione o della bravura; cioè la verità ti obbliga, “gli ordini non si discutono”. Ora è vero che non sempre afferravo ciò che scrivevo, però afferravo che la spinta a scriverlo era veritiera e che prima o poi qualcuno, io o altri, l’avrebbe capito.

 

L’ordine di scrivere è qualcosa che precede la scrittura o soltanto in essa avviene e si dà a riconoscere?

La dettatura da una parte imponeva che io fossi semplicemente un portavoce, ma dall’altra la dettatura era la poesia stessa; e quindi io in qualche modo la sua responsabilità sensoriale. Spero di non essere stato sordo… L’ordine sussisteva prima di me: trovavo un ordine, una costrizione a dire solo quella parola: non si trattava di trovare un ordine scrivendo, quanto di eseguire un ordine che già mi precedeva, anche se poi si riconosce solo scrivendo. Coesistono questa antecedenza e questa simultaneità.

 

Da queste promesse quale idea di bellezza risulta?

Sento profondamente una nozione di bellezza trascendentale, o forse sarebbe meglio dire oggettiva; su tale distinzione rimando a Poesia e destino.

 

Non c’è spazio per nessun relativismo dunque, né per l’errore?

E’ diverso. Non mi riguarda alcuna forma di relativismo, mentre l’errore ha una forza. (Preferisco gli errori di Keplero ai paradossi di Russel; preferisco – con Fortini – il cupo e potente accecamento di Lukács su Nietzsche alle piccole verità delle avanguardie). La forza dell’errore sta nel suo ripetersi, perché allora diventa destino. Ma se uno vuole correggere il proprio errore, ecco la condanna, la rinascita in senso induistico; perché dire: ho sbagliato, avrei voluto essere ciò che non sono stato, nascere diverso, è una riparazione che instaura un ciclo perpetuo dell’ignoranza della vita.

 

Mi sembra che da tutto il tuo discorso emerga un legame indissolubile tra poesia e etica.

Pensa a un uomo che si incammina verso una meta: qua e là vede distrattamente delle cose; ma le cose hanno visto lui, lo hanno scrutato a fondo. Al ritorno, l’uomo vede quelle cose per la prima volta. Allora l’uomo dice: scriverò soltanto ciò che mi ha già conosciuto. Obbedire a ciò che ti ha conosciuto è un aspetto delle poesie e insieme un atto etico. E’ quanto ho cercato in Millimetri.

 

 

 Pubblicato su Bergamo e Brescia oggi, autunno 1982

18/03/21

Pensiero estremo - Per Lucio Klobas

 

Ho scritto questa nota per un libro di Lucio Klobas che aveva questo titolo. Non ricordo se per l’edizione del 96, con la presentazione di Giuliano Gramigna, o per una ancora precedente. L’ho ritrovata poco fa (aprile 2012) e la metto qui: qualche riga nella storia della mia amicizia più antica e duratura. Con foto d’epoca.

***

Che cos’è un pensiero estremo? È meno quello che si pensa alla fine che quello che pensa la fine; ma ancor di più è quello che, alla fine, pensa tutto; quello che, dopo la fine, pensa tutto dall’inizio alla fine, e lo pensa fino in fondo, portando tutto alle estreme conseguenze.

E cosa vede da lì? Vede tutto chiaramente, con una lucidità spietata (senza pietas e senza pathos), ogni cosa, ogni gesto, ogni azione o sequenza di azioni, e tutte le vede nel loro essere e insieme nelle loro possibilità, nel passare di ogni singola in ogni singola altra, nella loro lotta senza fine che ormai una fine l’ha trovata, nel loro essere insieme se stesse e le altre, quelle che sono e quelle in cui si trasformano o che le annientano, reali e immaginarie, identiche e contraddittorie, ognuna, insieme, se stessa e le altre, ognuna microscopica e enorme.

Come si manifesta un pensiero estremo? In una risata, sonora e innocente, come quella delle comiche finali? Mi piacerebbe crederlo. E invece no. Non ne sono sicuro. E adesso che ci penso meglio, non credo neanche che mi piacerebbe. Il pensiero estremo non è superiore. La risata divina non gli appartiene. Viene prima. Magari di poco, ma prima.

Come si esprime allora? Perché deve esprimersi, se è un pensiero. Magari lo sapessi! Ma se devo fare un’ipotesi, mi viene in mente solo una narrazione. Una narrazione in cui il principio di verosimiglianza, e quello di non contraddizione, le gerarchie di primario e secondario, necessario e superfluo, originario e derivato, sostanziale e accessorio, reale e possibile, concreto e astratto, non sussistono più, se non nel loro incrociarsi, sovrapporsi e congiungersi ad una velocità vertiginosa che trapassa dall’uno all’altro senza permettere che niente si materializzi in un aggancio a cui aggrapparsi né in un brandello su cui posarsi e riposare; eppure, insieme, questa velocità sarebbe statica, fissa, come un approdo definitivo. Ogni cosa è evidente e tutto sfugge: non c’è riassunto, la storia si dissolve nella banalità di un niente. Eppure tutto è stato detto. E così sia.

La vita istruzioni per l’uso (09-08-1984)


Da Rabelais a Gadda, specie nella forma parodica o decisamente comica dell’enumerazione caotica, genealogie elenchi e repertori hanno assunto un ruolo sempre più cospicuo nel romanzo; la loro tradizione però è tanto antica da confondersi con la tradizione stessa coetanea delle origini, si tratti delle genealogie bibliche o del catalogo omerico delle navi o esiodeo delle donne.
da gesto della memoria, classificatorio e ordinatore, a recensione del caos, tale è ormai la loro rilevanza anche estetica che è un luogo comune della critica rifiutare credito al lettore (fermo restando che è libero di fare ciò che più gli aggrada senza rendere conto a nessuno) che incontrandole li salti o provi noia, sia per la sensibilità verso la parola che implicano, sia soprattutto perché alla loro base sta il bisogno primario di nominare, che è sì dividere, delimitare e anche negare le cose, ma è insieme farle vivere, conservarle nel momento stesso della loro cancellazione. Anche nel senso che le cose muoiono e i nomi restano.
Muoiono anche le parole, certo, ma possono sempre essere recuperate, e Georges Perec ha potuto inventare un personaggio che di professione fa l’ammazzaparole, togliendo dai dizionari quelle cadute in disuso, ma la cui passione è riportare in vita quelle che “a lui continuavano a parlare”.
Il personaggio si chiama Cinoc, deformazione di un nome ebreo-polacco (come ebreo-polacco dal nome deformato era Perec), ed è uno delle centinaia che affollano La vita istruzioni per l’uso, l’opera principale di questo scrittore francese morto nel 1982 a 46 anni e tra le più importanti in assoluto e nuove dell’ultimo decennio, ora ben tradotta per Rizzoli da Daniella Selvatico Estense. Perec aveva quello che i giapponesi chiamano mono no aware, il pathos delle cose, il sentimento della loro caducità, specie di quelle (oggetti, persone, gesti e luoghi), che proprio perché costellano la nostra quotidianità cadono fuori dalla nostra percezione pur essendo lo sfondo che la rendono possibile, e ad esse rivolgeva la sua attenzione recensendole con sistematica ostinazione, nominandole in lunghissimi cataloghi per dotarle di quella consistenza che la semplice realtà fisica non basta ad assicurare loro. Nominare diventa così l’atto supremo, quello che rende percepibili le cose e, biblicamente, le porta ad esistere: nominare tutto, perché nulla ne è indegno, e nominare piattamente, senza ulteriori specificazioni o attributi, per cominciare a guardare. A vedere.
“non dire, non scrivere ‘ecc.’. Sforzarsi di esaurire il soggetto, anche se ciò ha un’aria grottesca, o futile, o stupida. Non si è ancora guardato niente”, scriveva infatti Perec in un altro notevole suo libro, Espèces d’espaces. Le due azioni del resto per lui si sovrapponevano: “l’aleph, il luogo borgesiano in cui il mondo intero è simultaneamente visibile, è forse altra cosa da un alfabeto?”.
Tutto però non è possibile nominare: occorre delimitare, e nulla impone un inizio necessario né la via per proseguire; occorre darsi delle regole (tanto più che per Perec senza regole non esiste letteratura, ed è sempre necessario inventarne di nuove una volta cadute quelle istituzionali, allargando così le potenzialità delle scrivere.
Ed ecco la scelta di uno stabile parigino, del quale vengono minuziosamente descritti locali, mobili, oggetti e le generazioni degli abitanti con le loro storie, secondo uno schema che gli scacchisti chiamano “la poligrafia del cavaliere”, così che ogni capitolo corrisponda a uno dei cento vani e contenga tutta una serie preordinata di temi, citazioni, allusioni storiche e geografiche ecc. in permutazioni regolate dal bi-quadrato latino di ordine dieci.
Ma se le regole aiutano a ordinare e delimitare, tutto torna poi a debordare: ogni cosa si apparenta o può apparentarsi a ogni altra, è già o può diventare una storia, e ogni storia richiama, riprende, sviluppa, integra o falsifica le altre, così che nel caseggiato rientra il mondo e le storie dei suoi abitanti comprendono tutte le storie possibili (o almeno tutti i generi di storia possibili avventuroso, psicologico, sentimentale ecc.: non a caso il sottotitolo dell’edizione originale dice Romanzi).
La più importante di queste storie, che agglutina quelle di molti abitanti dello stabile, è quella del ricchissimo Bartlebooth, il quale, sprovvisto di interessi e passioni, decide di dedicare la propria vita a un’opera del tutto arbitraria e che dovrebbe, compiuta, annullarsi completamente: apprende con diligenza per dieci anni l’arte dell’acquarello per la quale non ha nessuna predisposizione, e gira il mondo per i venti successivi a dipingere 500 marine che, trasformate in puzzle unici da un artigiano di nome Winkler, ricostruirà nel ventennio ulteriore per farle infine tornare al luogo d’origine, dove con un procedimento chimico verranno cancellate così che resti solo il foglio bianco, il vuoto iniziale.
Non riuscirà nell’impresa, perché su ogni progetto, per quanto ferreo, incombe sempre il caso, che per Bartlebooth prende la forma sia di una progressiva cecità sia dell’intervento degli uomini. Il vuoto in cui si vive non è mai totale, sempre viene scalfito, invaso da quello degli altri uomini, ed ogni percorso, pur andando dal nulla verso il nulla, è destinato a lasciare dei resti.  Bartlebooth poteva credere che gli uomini si disinteressassero a lui poiché lui non di interessava a loro, o fossero solo degli strumenti perché lui li considerava tali, ma proprio questi intralceranno il suo progetto e lo faranno fallire.
Tanto più che nessun progetto è perfetto, e nel suo egli non aveva calcolato fino in fondo che lui aveva dipinto con indifferenza le marine, ma i puzzle li aveva fatti un altro, non indifferente al proprio lavoro invece, e che ogni gesto “che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui”. Non aveva pensato che nel suo progetto poteva insinuarsi quello di un altro, che di lui si sarebbe vendicato: e difatti Bartlebooth muore davanti a un puzzle a cui manca solo un pezzo, dalla “sagoma quasi perfetta di una X”, mentre quello che “tiene tra le mani, da molto tempo prevedibile nella sua stessa ironia, di una W!, l’iniziale cioè dell’autore del puzzle, Winkler (nonché il titolo di un’opera semiautobiografica di Perec stesso W o il ricordo d’infanzia).
La sua negazione di ogni opera è diventata oggetto dell’opera di altri (Winkler, Perec), il senso che egli rifiutava alla vita lo ha sopraffatto dimostrandosi ancora più assente di quanto egli pensasse, o almeno diversamente assente, e la sua vita non ne ha acquistato altro se non, ironicamente, quello di diventare una metafora in un’opera, che è appunto il resto che ogni tragitto dal nulla al nulla deposita, per chi lo voglia raccogliere.
Una storia che a tutte le altre si intreccia e solo nel loro insieme va considerata: ogni tessera del puzzle infatti, se mostra una cosa, è solo un frammento di altre, diversa a seconda di come è vista e delle combinazioni in cui entra.
Come suggeriscono la citazione iniziale di Klee: “L’occhio segue le vie che nell’opera gli sono state disposte”, il voluminoso apparato delle appendici comprendente la pianta dello stabile, l’indice dei nomi, i riferimenti cronologici e i cenni sintetici delle storie principali, oltre a numerose indicazioni di Perec stesso, noi saremmo indotti a pensare che egli, da autore sapiente e attentissimo, le combinazioni le ha previste tutte invece; ma Perec non ha commesso lo stesso errore del suo personaggio, sapeva che molti altri percorsi può creare il lettore e molte altre storie sono possibili: i vani sono cento, infatti, mentre i capitoli sono novantanove e il titolo dice chiaramente che si tratta di istruzioni per l’uso.
 
Georges Perec, La vita – Istruzioni per l’uso, Rizzoli, 1984, p. 582, £ 28.000
 
Leggi anche: 
Su Il condottiero e altre pubblicazioni su Perec
 

12/03/21

Sottolineare

 


Leggo lentamente, con la matita in mano. Non lo faccio sempre, ma quasi. Alla fine, specie se devo scriverne, torno a rileggere più velocemente il libro facendomi guidare dalle sottolineature. Allora, o quando riprendo il libro magari dopo mesi o anni, vedo quanto siano eterogenee (curiosità, titoli, informazioni utili, frasi in qualche modo significative per capire il libro, o solo suggestive, belle), e come sempre mi accorgo che più che la sua comprensione mi rimandano una specie di mio autoritratto di quando l’ho letto, un’istantanea delle mie priorità del momento, una sezione trasversale della mia anima. Un foglio della mia storia, ma vista di sbieco, passando su una superficie, o guardando uno specchio, in cui è già presente l’immagine di un altro.

Dentro ci sono i foglietti sui quali prendo gli appunti. Raramente prendo nota a margine, perché a volte lo spazio bianco a disposizione mi induce a sviluppare l’appunto, come qui, o addirittura a dargli già una forma. I margini non lo permettono. E io scrivo talmente poco che non voglio che questioni di spazio mi frenino quando mi capita di averne l’occasione.

A volte però rileggendo dopo tanto tempo, mi accorgo che avrei sottolineato le stesse cose, come ho già scritto in un altro appunto. Cosa che non so se interpretare positivamente, per avere individuato già alla prima lettura i punti salienti; o negativamente, come povertà della mia anima (o comprensione, o intelligenza), per non essere evoluta di una virgola in tutto il tempo intercorso.

 

09/03/21

Intervista a Giuseppe Pontiggia su "Il raggio d'ombra" (1983)


Giuseppe Pontiggia è un comasco quarantanovenne che vive a Milano, dove lavora in campo editoriale. Si occupa di letteratura classica e ne scrive per il Corriere della Sera. Ha appena pubblicato quello che a molti è parso il più bel romanzo italiano uscito quest’anno. Il Raggio d’ombra (Mondadori, p.176), che rinnova la favorevole impressione suscitata cinque anni fa con Il giocatore invisibile, la sua terza prova narrativa, che lo aveva imposto a pubblico e critica, dopo che La morte bianca (1959) e L’arte della fuga (1968) erano stati notati quasi solo dagli addetti ai lavori.

Il raggio d’ombra narra una storia protofascista di delazione e tradimento che risucchia, direttamente e non, un gruppo ristretto ma composito di personaggi (un medico apolitico, dei rivoluzionari, un professore che vive solo per i libri) che ne subiscono le conseguenze senza riuscire a venirne a capo nemmeno dopo la morte della spia, a distanza di trent’anni dall’episodio. È un libro sobrio, essenziale e insieme perturbante, campato su una struttura solidissima che ruota attorno a una verità vacante e intessuto di un’arte straordinaria del dialogo, lucidissimo quanto allusivo.

 

Un romanzo: a ulteriore smentita, caso mai ce ne fosse bisogno, che il romanzo non è un genere morto o agonizzante?

Quando si parla di morte del romanzo, in realtà si parla di una morte di un’ipotesi fuorviante di romanzo, anche se questo fraintendimento ha avuto una certa vita. Per esempio, un modello equivoco e parziale di romanzo può essere sostituito dalla sociologia o dalla psicanalisi, ma il romanzo nella sua natura specifica non è assolutamente minacciato da questi linguaggi che appartengono ad altre attività, semmai si libera di attributi che non gli competono. Muore di volta in volta solo l’equivoco del romanzo.

 

In che modo credi che Il raggio d’ombra sfugga a questo equivoco che viene di solito denominato con la sigla, molto probabilmente vuota, di “romanzo tradizionale?”

Il romanziere tradizionale è colui che ad un certo impianto ottocentesco fa concessioni sul piano del linguaggio e del trattamento dei personaggi, concessioni che io non credo di aver fatto. Tutte le parti che ho messo mi interessano profondamente, ma senza nessuna sudditanza a questa struttura ideale alla quale io non credo. Se per esempio esploro i precedenti del medico o faccio una digressione sul professor Perego (nel quale A. Giuliani ha giustamente riconosciuto un mio parziale autoritratto), non lo faccio per informare sul personaggio o per darne l’anagrafe, ma perché questo rientra nel clima di rapporti immaginari che mi premono e perché ha una sua necessità nella trama linguistica e fantastica del romanzo.

 

I tuoi testi sono molto costruiti, seguono un meccanismo narrativo precisissimo, ma di fatto in che modo procedi?

È vero che mentre lavoro tendo a verificare al massimo quel che di volta in volta esce, tuttavia il mio atteggiamento nei confronti dell’opera fondamentalmente è di attesa. Credo infatti, come fa tutta l’avanguardia del ‘900, all’opera come progettazione e scoperta di quello che tu non sai, senza alcuna programmazione, ma solo con un forte senso di attesa, con un senso di sorpresa e di scoperta.

 

Ma concretamente quale è il tuo punto di partenza?

Mi capita regolarmente di partire da un’idea molto semplice che poi mi si complica subito costringendomi ad uno sforzo enorme per portare il tutto alla massima trasparenza. Nel caso di Il giocatore invisibile l’idea di base era che in fondo siamo già tutti morti; per Il raggio d’ombra si può dire che sono partito da questa semplice frase: non si cava un ragno dal buco. Ed effettivamente nessun personaggio ha cavato veramente niente da quel che voleva: la risposta è NO, nessuno è riuscito: hanno cercato in tutti i modi di prendere Losi, fisicamente, psicologicamente e moralmente, ma non ci sono riusciti. Ciò che riflette le mie idee profonde e la mia disperazione in generale, che a ben guardare non riusciamo ad arrivare né a quello che vogliamo né a quello che cerchiamo, anche idealmente.

 

Cosa ne pensi, a proposito, di quella dimensione metafisica (se l’espressione ha un senso) che alcuni attribuiscono ed altri invece negano al tuo romanzo?

Io penso che ci sia, anche se non è in primo piano. In primo piano c’è un’umanità che vive la disperazione, ma l’elemento metafisico-religioso è implicito. Ho sempre avuto interesse per la religione, così come ho molti interessi scientifici, ma ribadisco che delle cose che veramente interessa sapere in fondo non riusciamo, né mai riusciremo, a capire niente. Anche nella cosa più semplice, nel quotidiano, se vuoi veramente andare in profondità, ti trovi sempre di fronte al mistero. Io credo nel percorso di avvicinamento che si compie, ma credo anche nell’impossibilità di arrivare, e mentre alcuni sono giulivi del percorso che fanno, io invece sono terrificato di quello che non posso fare.

 

È un mondo questo tuo, o meglio quello dei tuoi personaggi, in cui il sospetto e la paura vengono a ricoprire un ruolo importante.

Il sospetto è una buona scelta dal punto di vista narrativo perché mette in moto la paura, che ti fa vedere la realtà in maniera apprensiva e drammatica.

Costruisco spesso sulla sorpresa, sulla contraddizione: parto da una cosa che poi si manifesta in una luce diversa, tra continui trasalimenti e angosce: cattive sorprese. Continui disorientamenti, cambiamenti di rotta, precipizi… e il sospetto è uno dei modi per far irrompere questa angoscia in una vita apparentemente tranquilla: in ogni mio romanzo tutti i sospetti si rivelano sempre fondati e ciò che si teme sempre si avvera.

 

Credo però che il personaggio centrale, e non solo tipograficamente, di Perego, sia portatore di una diversa sfumatura in questo tuo discorso.

Il personaggio di Perego illustra bene la mia convinzione che l’istinto narrativo e ciò che nasce durante il lavoro ne sa di più di ogni intenzione o consapevolezza orientante. Mi è uscita, inaspettata, questa digressione e mi è sembrato che avesse un senso, o lo potesse avere.

Parlando a posteriori potrei dirti: da una parte i protagonisti sono dei rivoluzionari che sono sempre alle prese con l’inesplicabile, con l’ineffabile e l’enigma, ma hanno la convinzione di essere dalla parte del reale e la presunzione, o la speranza, di dominare i rapporti concreti, mentre Perego, nella sua biblioteca e col suo culto dei libri, ha la consapevolezza malinconica di vivere una vita immaginaria, un po’ fantastica; ma d’altra parte la sua vita ha anche una sua ricchezza e pienezza, mentre la vita del rivoluzionario, che sembrerebbe calata nella realtà, è un avita allucinatoria. Sia Antonio che Travi infatti hanno l’impressione di essere sdoppiati, di vivere una vita che non è la loro, tanto da vedere a volte nel loro stesso progetto qualcosa di estraneo e di assurdo, anche se ormai non hanno più tempo e possibilità di cambiare.

 

Per finire potresti dire qualcosa sulla scelta del periodo fascista e sull’affermazione del risvolto di copertina, che il romanzo cioè è un’amara allegoria del nostro tempo?

La scelta del periodo dipende dal fatto che la storia vera alla quale mi sono ispirato è uno dei primi episodi di delazione e di fuga di un prigioniero politico durante il fascismo, ma ciò che mi ha colpito in essa sono soprattutto i tre finali, nessuno dei quali chiarificatore. Non ho cercato la ricostruzione d’ambiente o una verosimiglianza in senso stretto, anche se un po’ c’è (come mi hanno confermato dei lettori che quel periodo l’hanno vissuto), perché non mi interessa particolarmente la ricostruzione del passato, che del resto secondo me si può avvicinare meglio attraverso l’immaginario; mentre è vero che il discorso è molto legato all’oggi, non solo per l’odierna frequenza dei coinvolgimenti involontari, ma soprattutto perché credo che in più di un aspetto (la spia che chiede la pensione, ecc.) rifletta bene il totale cinismo dei nostri giorni e l’assurdità quotidiana.

 


Giuseppe Pontiggia, "Nati due volte" (Una lettera privata, ora non più tale, che avevo completamente dimenticato)

                                                        Fara, 31-8-2000

Caro Peppo

Ho letto Nati due volte e ti scrivo subito le mie impressioni, per quel che valgono.

Intanto ti ringrazio di avermelo inviato, e più ancora di averlo scritto. Mi è arrivato l’altro ieri; il pomeriggio ho aperto il pacco con l’idea di dargli una prima scorsa e dopo un po’, quando mia moglie mi ha chiamato per la cena, mi sono accorto di averne letto due terzi; poi, ieri, l’ho finito. Credo basti a dirti quanto mi sia piaciuto (sono uno che, quando legge, non salta una parola).

Nati due volte, più che un romanzo mi è parso una specie di libro sapienziale, dissimulato e indiretto, come deve essere. Non lo dico per svalutarlo come romanzo, ma anzi perché sono convinto che solo diventando anche altro (dalla pura narrazione) il romanzo ha senso, oggi, proprio in quanto romanzo. E viceversa a nessuno che non sia stolto verrebbe oggi in mente di scrivere un libro sapienziale (o morale, se preferisci: nel senso dei moralisti classici che tu conosci così bene) in forma diretta e con tono oggettivo. Per questo hai fatto bene ad adottare la prima persona: non tanto quindi sotto il profilo narrativo (quello avrebbe potuto reggere altrettanto bene con la terza persona) e nemmeno per il doppio gioco finzione-autobiografia (sul quale credo che ritornerò), quanto, appunto, per smorzare (per giocare a smorzare), attraverso la soggettività, limitata di per sé e ancor più soggetta a cauzione da ciò che la narrazione ce ne mostra, l’assertività delle riflessioni (non meno assertiva per essere ironica e per il fatto di prendere nella propria rete anche chi le riflessioni le sviluppa: credo di poterlo dire, dato che anch’io, si parva licet…, soffro talora di una propensione analoga, senza averne l’autorità).

Del resto il libro, più che narrare la storia del figlio, narra quella del padre, ne segue l’evoluzione, l’educazione, di cui il figlio è il vettore non certo unico, ma decisivo. L’handicap, o la disabilità se preferisci, è ciò che permette al padre di comprendere se stesso e il mondo (quel che può), e solo così di ritornare alla persona disabile in un rapporto di sia pur precaria simmetria. Dico simmetria, e non uguaglianza, che non c’è se non attraverso la perfezione dell’amore, che però è discontinuo (per questo da solo non basta).

Il figlio è insieme saggio e imperscrutabile, come gli antichi enigmi: gli si gira attorno, si cerca di interpretarlo, ma comprenderlo trascende le nostre possibilità; deriva forse da questo che di lui si possa dire più ciò che risulta dai rapporti che gli altri hanno con lui che viceversa (sintomatico il caso di Alfredo, che, lo dico con rammarico, dopo le prime reazioni non compare quasi più). Anche degli altri, a parte la splendida figura di Franca, dici poco, o, quanto meno, meno di quello che io avrei voluto: di ciò che il libro stesso lascia intravedere e fa sperare.

Per questo quando dici nell’intervista che hai rilasciato a Repubblica (che ho letto dopo il libro, assieme alla recensione di Giuliani, che non mi è piaciuta granché) che su questo libro non tornerai, io non ti credo: mi auguro che tu ti ricreda cioè, e non tanto perché trovo il libro insoddisfacente com’è, quanto perché, proprio per averne ricevuto molto, ne voglio ancora di più. E questo di più lo vorrei proprio nelle sequenze narrative, in quanto, se è la narrazione che può dire ciò che altrimenti non potrebbe essere comunicato (in più forme trasmesso: penso per esempio allo splendido inizio), è a quelle che dovrai tornare (non potrai fare a meno di tornare, se ho visto bene), per spingerti ancora più avanti, insistendo con ancora maggior decisione sul pedale dell’autobiografia mascherata e deviata, che tanto in questo libro ti ha giovato (che tanto a questo libro, e dunque al lettore, ha giovato): cioè mettendo in campo (rischiando) te stesso ancor più di quanto tu abbia già fatto. Lo so che è facile dirlo dal di fuori; immagino quanto ti sia già costato quello che hai fatto, ma se c’è uno che può fare ancora di più, quello sei tu; e lo sei proprio perché l’hai già fatto, cominciando: che, quanto pare, è il passo più difficile.

A giudicare da quelle che già ci sono (di grande emozione, più forte laddove rattenuta; e direi: perché rattenuta), credo che nuove sezioni narrative, possano giovare alleggerendo anche il rischio che le altre situazioni narrate, e le digressioni, appaiano come “esemplificatrici”, “tipiche”; l’individualizzazione maggiore da esse implicata spazierebbe, senza annacquarle, le digressioni sociologiche o psicologiche, peraltro sempre acutissime: ne guadagnerebbe il lato “mitico” (penso alle vacanze a Creta o alla recita, e non certo per i luoghi e i temi), in virtù della tua capacità di schivare sempre l’aneddoto, proiettandolo in una dimensione allegorica nella sua concretezza, e parabolica, anche in senso geometrico (per quanto concerne i possibili significati).

Spero di non essere stato troppo ingenuo (stupido) e pedante (vacuo). Lo sarei se avessi anche solo pensato di “insegnarti” qualcosa, di suggerirti come io avrei saputo far meglio di te ecc., ma l’evidenza di una tale ridicolaggine mi esonera da qualsiasi scusa preventiva, per quanto questa possa suonarlo a posteriori. Credo che ognuno amerebbe sentire altre storie da Ulisse, e se il Qohélet va bene così com’è, dubito che qualcuno penserebbe allo scompenso strutturale che porterebbe la scoperta di capitoli inediti, che so?, del Chisciotte.

Grazie di nuovo Peppo, e di nuovo tutte le me felicitazioni (l’uso del termine non è casuale).

 Ciao

Luigi