05/12/21

5,9 per cento


 

Scopro sul Corriere che il 5,9 per cento degli italiani, 3 milioni più o meno, è certo che il covid non esiste. La stessa percentuale di quelli che sono certi che in realtà la terra è piatta. Presumo che il 5,9 per cento dei lettori del Corriere, e dei notiziari e dei social online siano sicuri che questi numeri sono errati. Non per uno sbaglio di calcolo, ma per una precisa volontà di ingannare per fini oscuri. Il 5,9 per cento di questo 5,9 per cento è certo che invece i fini siano chiari. Lampanti. E che il 94,1 per cento sia un allocco, stupido o, peggio ancora, connivente. Una stragrande maggioranza di stupidi e/o delinquenti che opprime una minoranza di illuminati. E grazie al cielo che esistono, a tener accesa la fiaccola della verità.

03/12/21

Un fulmineo montaggio della nostra vita (PPP) - Una lettera

Come ti accennavo al telefono, caro M., ho più di un dubbio sulla lettura teleologica a posteriori della vita di un uomo a partire dalla sua morte. Detto in sintesi e con approssimazione: l’espressione (fulminea) di Pasolini “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita” è certo di grande effetto. Ma proprio per questo conviene dubitarne, almeno un po’. Il tipo di interpretazione che essa incarna è solo una lettura, un racconto e un’immagine, che se ne fanno i sopravvissuti per cercare un senso. Lo cercano, e quindi lo trovano. Davanti alla cosa più insensata, o più aliena dal senso per essere più corretti, meglio un senso qualsiasi che niente, e ancor di più se il senso è “bello”, efficace, soddisfacente anche esteticamente. Dalla fine si ricostruisce una storia e questa storia, in quanto storia, acquisisce e trasmette un senso. E questo senso si trasforma, sempre a posteriori, in destino. Una bella luce, fosse pure nera, verso cui tutto corre e concorre, trovando un suo valore. Bene. Siamo tutti contenti.

Se non che non mi risulta che la vita per chi la vive, finché è vivo, e finché chi la osserva ha rispetto dell’ampio margine di incompiuto e di mistero che in essa è presente, sia un romanzo o un film o una favola. Nel romanzo la lettura teleologica degli eventi narrati non è arbitraria, per quanto ovviamente nemmeno esaustiva; tutto tende alla fine, è costruito in vista di quella che sarà la conclusione, e quando questa arriva, quando l’autore decide di chiudere, anche quando la scopre scrivendo all’ultimo momento, tutto si dispone a partire da essa: se infatti non va, la cambia; e se non va qualcosa nella narrazione precedente, cambia o adatta o cancella quello.

Nella vita invece la morte può essere di ogni tipo e le cose fatte e vissute e sentite non acquistano valore e significato per causa sua, se non raramente. Se finisco sotto un’auto, o mi cade una tegola sulla testa, o mi viene un tumore o un ictus, o ho una malattia congenita o una che arriva per qualsiasi accidente che mi ha incrociato perché ero lì in quel momento, ma poteva anche passarmi di lato o solo sfiorarmi, ecc., tutto quello che ho fatto e vissuto acquistano o cambiano di segno a casa sua? Ma per favore! E che tristezza per tutto ciò che ognuno ha vissuto giorno dopo giorno! Ci piace vedere il destino. Se funesto meglio ancora, purché riguardi qualcun altro. Ma il fatto è che il destino lo disegna uno sguardo esterno, a cosa fatte. Anche per colui che decide di suicidarsi. Lui immagina con il suo gesto di darsi un destino. E anche un senso, di qualsiasi segno sia. Ma si illude. Alla fine sarà solo morto. Niente. E degli altri, magari qualcuno cadrà nella trappola cercandogliene uno, cioè più d’uno, perché cambierà a seconda della direzione dello sguardo e delle idee del guardante. Per tutti gli altri resterà quello che sarà e che già è: niente. Il suicida avrà dato un senso al gesto che sta progettando, all’idea che ha maturato magari senza accorgersene e che comunque ha in quel momento della vita a cui sta per porre fine, e quindi ne trarrà, si spera, un po’ di beneficio e di sollievo, ma il gesto da solo cambierà poco, a voler essere generosi. Di fatto niente. Poi ci saranno i biglietti scritti poco prima, tragici, ma di fatto solo letteratura. Biglietti che rispondono ad altri biglietti, come quelli di Esenin e Majakovskij, o per differenziarsi o rigettare tutti i biglietti noti e immaginati (o come quello di Pavese, o quello di Agota Kristof ma più probabilmente della protagonista di un suo racconto, non ricordo bene, ma già il dubbio tradisce qualcosa …dovrei cercare la frase esatta, qualcosa come: in culo a tutti, o vi sputo in bocca a tutti), letteratura, appunto. Ma anche quando saranno la negazione di tutto, non saranno nient’altro, al massimo, che un gesto generoso, verso se stessi e chi lo leggerà, che offre il fantasma di un senso, una consolazione. Il lampo fuggevole di un’illuminazione. Come la frase di Pasolini. Letteratura, appunto.

Fermo restando che quando guardiamo ogni vita, o solo abbozziamo un riassunto, o tratteggiamo la sintesi più scheletrica, da vivi, altro che letteratura non facciamo. Né possiamo fare. E meno male!

 

(Mi è venuto così, di getto. Non l’ho nemmeno riletto. Ma non credo che siano solo farneticazioni. Preferirei lo fossero, ma non lo credo.)

 

 

23/11/21

Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij

 

Giovanni è un tipografo di mezza età che dopo il licenziamento dalla grande azienda in cui lavorava, ha aperto una piccola attività in proprio per poter continuare il lavoro che costituisce la passione della sua vita. È un uomo mansueto, tanto gentile da avvertirlo come una debolezza, sposato con Giulia, una donna intelligente e ancora molto bella, che non ha mai capito come avesse potuto scegliere e amare intensamente proprio lui. La coppia vive in grande armonia e tranquillità in una villetta suburbana, con un piccolo giardino che lei cura amorevolmente, finché un giorno “il male [entra] nella loro casa”. Giulia si ammala gravemente e la malattia, anche se viene apparentemente superata, lascia dei segni nel loro rapporto che però entrambi, delicatamente, cercano di nascondere all’altro. Fino a che un giorno Giulia sparisce senza motivo né spiegazioni, dopo che la notte prima avevano fatto l’amore con grande tenerezza. Allora per quell’uomo in fondo semplice che è Giovanni (ammesso che un essere umano possa essere semplice), comincia un periodo di disorientamento totale, che lui cerca di controllare perseverando nella sua routine. Un giorno, per occupare il tempo e tener vivo il ricordo, decide di scegliere a caso uno dei libri della moglie, grande lettrice al contrario di lui che ha sempre e solo letto le pagine che doveva comporre badando unicamente alla corretta forma linguistica e tipografica, e di copiarlo tutto, per farne un libro unico, bellissimo, curato in ogni dettaglio, per quando lei tornerà. Mentre lo ricopia con sempre maggiore partecipazione, gli sembra di trovare nelle sue pagine una specie di premonizione di ciò che sta vivendo. Il libro è Anna Karenina, che come è noto ha uno degli esordi più famosi di tutta la storia della letteratura (”Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice invece è infelice a modo suo”), che a mio parere è stata una delle molle che hanno indotto Claudio Piersanti a scrivere questa storia, per verificare quanta verità la sentenza contiene. A colpire Giovanni però non è la protagonista, che non assomiglia per nulla alla moglie scomparsa, quanto la figura di Vronskij, il seduttore di Anna, che si insinua nel suo mondo mentale come incarnazione di tutto ciò che lui non è, bello brillante e affascinante, e che può aver allontanato da lui la donna che continua ad amare più che mai.


Pian piano Giovanni quasi senza accorgersene sovrappone ciò che gli capita a ciò che trascrive (come lo scrittore ha presente ciò che ha letto quando scrive, fosse pure nella forma dell’oblio): trova nel libro di Tolstoj, in filigrana, alcune delle situazioni che sta vivendo e gli strumenti per cercare di capire, naturalmente in modo illusorio e arbitrario. Perché ciò che vive è effetto più di ciò che immagina, che di ciò che sa; e lui immagina sul filo non della realtà, ma di ciò che è scritto. Vronskij diventa la chiave per provare a interpretare prima ciò che immagina accada alla moglie, poi quello che accade dentro di lui, e infine cosa a tutto questo è sotteso, come destino. Dallo statuto di personaggio passa a quello di strumento ermeneutico, assurge a simbolo polivalente, a categoria, e quasi a entelechia. È la personificazione della minaccia, dell’inquietudine, dell’elemento senza coscienza morale che incombe, stravolge e porta alla distruzione. Alla fine troverà il suo vero nome, che non rivelo per la ferrea legge antispoiler. (La morte, detto in camera caritatis.)

Quel maledetto Vronskij, che racconta questa vicenda, è un libro struggente, senza contenere un solo passaggio sentimentale. Si tratta del resto di una caratteristica di Piersanti, che non si ritrae davanti ai temi forti, e anzi li va a cercare, e li affronta, sempre, insieme con adesione e distacco. Li prende sul serio, cioè, e proprio per questo se ne discosta per guardarli in faccia, con forza pacata, che però non ha nulla della distanza cinica, che semmai è presente solo nelle parole di alcuni personaggi. La voce narrante è impersonale, onnisciente, anche se prevale in buona parte del libro (dei libri di Piersanti) una specie di focalizzazione interna a uno o due dei protagonisti, di cui vengono seguiti moti d’animo e pensieri con una specie di discorso indiretto semilibero, se mi è concessa l’approssimazione: cioè libero nelle associazioni dei pensieri di personaggi, ma filtrato da una prosa asciutta, cadenzata in un ritmo di grande presa proprio in quanto piano, misurato nel tono, ma non freddo né mai sopra le righe nemmeno nei momenti più aspri, che evita sistematicamente la tentazione di sussulti vistosi e la ricerca di detti memorabili, nel senso letterale di questo termine. Vertici che non mancano, ma che nella lettura passano inavvertiti e arrivano a segno solo dopo, con un sottile quanto incisivo effetto di ritorno. Lo stile, in questo libro più che in altri, pur severo, è soffuso di tenerezza, oggettivo e al contempo partecipe; la sofferenza, i dubbi e le trepidazioni di Giovanni hanno la sua voce, che però giunge a noi smorzata, raccontata dall’esterno in virtù non solo della prospettiva “oggettiva” adottata da Piersanti, ma ancor più dal fatto di non essere disgiunta, come gli altri sentimenti del resto, dalla minuzia discreta della narrazione degli eventi quotidiani e dei gesti e dei luoghi. La scelta della terza persona, apparentemente tradizionale, che incornicia e dà il tono alla parziale focalizzazione interna laconica come la personalità del protagonista, è funzionale a questa resa. Perfetta, senza sbavature, senza una parola superflua, come avviene in quello che secondo me resta il capolavoro di Piersanti, Luisa e il silenzio

Anche la sintassi contribuisce all’arginamento del sentimentalismo che l’argomento del libro potrebbe favorire, e del lirismo che pure è presente, quasi reticente ma intenso, specie quando lo sguardo si dirige sulla natura. Il ritmo è scandito da frasi brevi, ma non elementari se non nel senso di essenziali; la scarsità di concatenazioni e di subordinate anziché sintomo di piattezza o ricerca forzata di linearità, è l’effetto primario di uno stile ellittico e direi concentrato, dove il tasso di taciuto (di silenzio) si arricchisce di tutte le relazioni possibili. Il risultato è una scrittura piana, ma tutt’altro che semplice. La lettura richiede una certa lentezza: impossibile pattinare da una frase all’altra, correre a ciò che succede, perché ciò che succede non è tanto, e in mezzo c’è tutto. Invece di un flusso il lettore si trova di fronte a un susseguirsi di monadi, ciascuna conclusa e perfetta, che spetta a lui mettere in relazione, ma in modo autonomo, richiesto, e quasi imposto, dal ritmo stesso della narrazione, pacato e implacabile, che nella elementarità della sintassi semplice e perlopiù paratattica trova l’impulso, anziché l’ostacolo. Come se la punteggiatura avesse una sua temporalità continua, diversa da quella pausata o anche sincopata che a volte la brevità produce, un suo armonico respiro privo di sbalzi e cadute.

L’assenza di commenti, e di ogni dimensione meta- tipica di tanta narrativa modernista e contemporanea, non esclude, per esempio, la possibilità di una lettura in tal senso almeno per alcuni aspetti della figura del protagonista. Infatti è difficile non leggere nella professione di tipografo del protagonista, così ossessionato dalla correttezza dei testi e dalla perfezione dell’impaginazione un’immagine dello scrittore, non per forza autobiografica. E nel suo licenziamento a causa delle innovazioni tecnologiche, così come nel suo declassamento fino all’abbandono della piccola bottega tipografica artigianale un‘allusione alla perdita di ruolo e di significato dello scrittore. E ancora nel quasi religioso, monacale, lavoro di copiatura di uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale l’allusione più che quella esplicita alla devozione per la bellezza che ogni attività artistica comporta, a quella alla memoria e al confronto con le opere del passato per cui l’agire artistico passa pur senza farne diretto oggetto di riflessione all’interno dell’opera. Giovanni si limita a copiare, Piersanti si confronta. E scrive la storia di un matrimonio per quanto possibile felice. Cosa dichiarata noiosa da Tolstoj, con la sua sentenza diventata cliché universale, come peraltro meritano il suo sensazionalismo e la sete di applausi implicita. (Certo che colpire colpisce, però!)

Piersanti invece con questo libro sembra voler smentire Tolstoj. Quella che racconta è la storia di una coppia felice, una coppia piccolo borghese, presa nella sua medietà e mediocrità (nell’eccezionalità che in ogni medietà si cela e che a nessuno viene in mente di cercare), senza nessuna inflessione di ironia, da cui del resto Piersanti si guarda bene in tutte le sue opere, per quanto crudeli possano essere le storie che racconta: gli ideali di fusione che la coppia di sposi persegue e nel complesso raggiunge, la creazione di un piccolo mondo chiuso, a sé (amore, casa, famiglia, lavoro, svaghi, ambizioni, con poche amicizie fedeli e di lunga data), autosufficiente (persino la lontananza della figlia che ormai vive all’estero è vissuta senza patemi: così è, così stanno le cose...), non hanno nulla di meschino, sono ciò che hanno deciso insieme di perseguire e che fanno di tutto per raggiungere, in modo quieto, nonostante amarezze anche intense, come il licenziamento di Giovanni da un lavoro in cui aveva riposto tutte le sue ambizioni e la malattia di Giulia. Giovanni e Giulia sono la coppia scissa di Aristofane che ha avuto la fortuna di incontrarsi e non ha nessuna intenzione di lasciarsi più dividere, che trova modo di vivere questa fusione pur mantenendo ciascuno la propria personalità, fino all’arrivo di quello che Giovanni chiamerà Vronskij, e più ancora dopo, superata la separazione: le prove che ne scaturiscono, e la sua minaccia sempre incipiente e che prima o poi tornerà (ma non è detto che dovrà essere una catastrofe a cui passivamente soccombere), quando le sue metamorfosi a partire da quella iniziale della gelosia riveleranno il suo vero volto di morte con la paura che essa comporta, alla fine verranno riconosciute e affrontate, non insieme, perché infine ognuno deve affrontarle da solo, ma uno accanto all’altra, ciascuno sapendo e accettando la presenza dell’altro.

C’è sempre un Vronskij che mina la felicità. A cominciare dal Vronskij insito nell’idea stessa di felicità. Non esiste la famiglia felice, soltanto un osservatore superficiale ne vede qualcuna, e la vede perché vuole vederla, per invidia, per sarcasmo, o per darsi un’illusione, e un obiettivo. Ogni famiglia è infelice, in diverso grado. Per fortuna esiste l’oblio. La cancellazione, la tolleranza, la pazienza. E pure l’amore: la nebulosa di cose che questa parola contiene, e che quindi è opportuno evitare. (Evitare di nominare, beninteso...)

Soltanto i romanzieri dell’800, e i loro eredi odierni, fanno ancora queste distinzioni. Non si occupano di quelle che a loro sembrano famiglie felici perché appunto le trovano monotone, cioè senza niente di particolarmente attraente da raccontare, e pertanto, più o meno apertamente, le disprezzano. Non c’è luogo, in esse, per le emozioni forti, che bramerebbero i lettori, o loro stessi che non sanno scrivere altro. Ma ogni giorno è un susseguirsi di colpi di scena. Ogni giorno c’è il dolore; e la morte all’orizzonte. Ogni giorno qualcosa manca, affanna, preoccupa, si incrina e minaccia di spezzarsi e difatti si spezza, anche nelle relazioni cosiddette felici. Anche senza fare troppe scenate o clamore. Senza altro rumore che non sia quello avvertito da colui o coloro per i quali quella cosa, minima o grande, si spezza, da colui e coloro che sono incrinati e spezzati.

C’è la sofferenza, che spesso resta inespressa e a volte si nasconde per volerla risparmiare all'altro, che invece soffre di non poterla condividere e si sente escluso proprio laddove vorrebbe poter far sentire la propria presenza, intervenire, alleviare se non curare. Non tutto può essere detto, eppure è proprio questo silenzio a essere più doloroso. A escludere la comunanza, l'intimità da cui pure era nato. E chi così esclude, al pari di chi è escluso, come Giulia e Giovanni, soffre di questa esclusione e non sa come venirne a capo, e in tal modo approfondisce tanto l’esclusione che il dolore. Allora cerca nel silenzio qualche possibile spiegazione, ma nessuna è all’altezza né di chi tace e se ne è andato, né di chi non fa che pensarci e vuole un senso per l’abbandono. Tanto più che, come Piersanti scriveva già nel precedente, potente, La forza di gravità, “non ti abbandona mai uno soltanto, a un certo punto ti abbandonano tutti”. Ma poi “[d]opo l’abbandono viene la forza”.  A volte, quanto meno. Perché anche qui risiede la possibilità, se non di una salvezza, almeno di una diversa, nuova, e forse più matura, condivisione, senza parole, dopo che le poche indispensabili saranno state dette, ancora inquieta, ma per l’altro, non per sé, quasi serena, accettata. Piersanti racconta questa storia. Il suo libro è bellissimo.


 

 

 

 

 

17/11/21

Il sogno di mio nonno Mario

 

Mentre passeggio in questa città sconosciuta capito davanti al cimitero. Il cancello è spalancato. Sulla sinistra vedo arrivare un gruppetto tra cui distinguo un paio di visi noti. Appena oltre l’ingresso c’è una struttura in legno che sembra quelle delle impiccagioni di alcuni disegni di Pisanello o di Annibale Carracci, con una pedana bassa però. Dall’asta trasversale pendono due grossi fagotti biancoazzurri che quando mi avvicino si rivelano due pecore appese a testa in giù da cui colano rivoli di sangue. Erano tre in origine, ora sono sicuro di averle già viste, anche se non lì, chissà dove, ma la terza non so che fine ha fatto. L’avranno venduta, penso. Seppellita no di sicuro. Mentre sto osservando il suo posto vuoto, il gancio da cui pendeva, sento una voce che mi saluta. E’ mio nonno Mario. Ha sui cinquant’anni, tutti i suoi bei capelli neri ondulati, come i miei da giovane (sono il nipote che più gli assomiglia) e la sua bella faccia sorridente. E’ vestito con stretti pantaloni neri, camicia a quadri e un leggero pullover scuro girocollo e si muove con disinvoltura, ma con un che di pesante. Penso che sia venuto a vedere la sua estumulazione e quella della nonna, che devono avvenire proprio in questi giorni, forse giusto oggi, perché il contratto cinquantennale dei loculi è scaduto, e non ci trovo niente di strano. Lo so che è morto, ma adesso è qui con me, vivo, e senza pensarci mi affianco a lui, tranquillo, quando, invece di raggiungere i loculi, usciamo dal cimitero e ci dirigiamo verso l’abitato. La città straniera, anche se mai vista prima, ha un’aria familiare. Dopo un centinaio di metri vedo che il nonno è tornato sui suoi passi e mi dice, ma perché andiamo a piedi che ho qui la mia macchina? Si è infatti fermato accanto a una lunga limousine, o forse un coupé di lusso, di colore grigio, non metallizzato, ma un grigio caldo, un grigio panna se una tonalità del genere esistesse, e vedo che vi entra dopo averne sbloccato le porte con il telecomando che aveva in tasca. Ora che ci penso assomiglia agli ultimi modelli di carro funebre, ma non lo è: è una macchina di lusso, snella e dalle linee morbide, eleganti. Quando mi avvicino per salire anch’io, mi accorgo che dentro, al volante e che si apprestava a scendere dalla portiera semiaperta, c’è una giovane signora dai capelli lisci e chiari, benvestita, con una collana sottile e un braccialetto coordinato, che osserva allibita mio nonno, che la guarda allibito a sua volta. Hanno un identico telecomando con la stessa lunghezza d’onda. Dopo un istante, senza dire niente, mio nonno scende e proseguiamo a piedi su un bel marciapiede, largo e ben lastricato finché arriviamo nelle vicinanze di un grande hotel, tipo Plaza, ma più moderno, con un imponente ingresso vetrato, sull’altro lato della strada, che si direbbe la nostra meta. Di fronte, dove siamo noi, c’è la pensilina della fermata degli autobus, dove sono stipati molti morti che si guardano attorno in silenzio, impazienti e smarriti. Noi attraversiamo la strada e entriamo nell’hotel. Io mi addentro subito in una grande sala che si apre dopo la hall, convinto che mio nonno mi segua. Invece lui prende un corridoio sulla sinistra come se volesse raggiungere gli ascensori per salire ai piani alti, dove Angela mi aspetta nella nostra camera e accanto ci sono quelle di alcuni conoscenti. Lo chiamo e gli dico di aspettarmi, ma non lo vedo più. Allora ritorno al salone per chiamare in camera e lo vedo accomodato in modo alquanto informale in una poltrona accanto al bancone del bar. Deve essere entrato da una porta laterale che comunica con il corridoio, di solito chiusa. Una porta di servizio. Più che accomodato, il nonno è quasi sdraiato, con le gambe allungate leggermente piegate a sinistra, e il resto del corpo, ora avvolto in un cappotto morbido e leggero chiuso da una cintura dello stesso tessuto, ripiegato su se stesso, quasi accartocciato, con la testa messa un po’ di traverso e il cappello scivolato sul viso. Sembra addormentato. Mi avvicino per vedere e sistemargli almeno il cappello. Lo sollevo e vedo che non è più mio nonno. Cioè è ancora lui e non lo è più. E’ Lucio. Mi sveglio.

 

*****

 Lucio è un carissimo amico del quale, per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare, da anni non so più niente, nemmeno se è ancora vivo. Un dolore che non passa.

15/11/21

Qualcosa su mio fratello (Ugo Mulas, di Elio Grazioli)

Non ho mai scritto niente sul lavoro di mio fratello Elio per una forma di pudore che certamente egli condivide, ma che non per questo è meno sciocca. Ma tant'è: siamo fatti così, un po' storti. Io di sicuro. Colmo ora la lacuna approfittando dello spazio di questo blog, che in qualche modo si configura come "privato": nel senso che è mio, per quanto chiunque possa accedervi e lasciare una traccia se lo desidera, e che lo frequentano solo pochi amici, con i quali il pudore, almeno un po', può essere lasciato in disparte. Altrimenti a cosa serve la comunicazione affettiva che passa sotto il nome di amicizia? Se è vero che con gli amici a volte non c'è nemmeno bisogno di parlare, lo è ancor di più che è bello poterlo fare quando lo si vuole. Tra l'altro io fatico a concepire una comunicazione che non sia affettiva. Confessione che verrà forse buona più avanti. Non si viaggia mai su una sola corsia.

E così va anche il libro di Elio su Ugo Mulas: quella che si presenta come una monografia di tipo quasi introduttivo, per studenti universitari, che segue passo passo il percorso artistico di Mulas, è in realtà molto di più. Elio ha fatto proprie alcune delle caratteristiche del modo di procedere di Mulas, discreto, gentile, quasi nascondendosi, o eclissandosi, dietro l'oggetto (per Mulas la macchina), per poi compiere una vasta riflessione sulla fotografia e sul suo rapporto con la storia della fotografia e delle arti contemporanee. Non sto a seguire tutto il tracciato nelle sue molteplici diramazioni. Voglio mettere in evidenza uno degli aspetti fondamentali, quello della riflessione sul proprio operare come sorta di autoritratto indiretto. Riflessione che è interna al lavoro, ma si accompagna anche di dichiarazioni esplicite e si elabora nel rapporto continuo con l'opera di altri, non necessariamente della stessa professione (pittori, scultori e poeti soprattutto). E' una riflessione che passa quindi necessariamente per altro, e per altri: che ne sono il mezzo, e il tramite, lo specchio e lo schermo, sapendo che non ci si può centrare su se stessi se non passando per infinite deviazioni, ri-flessioni. Che non è un sotterfugio per subordinare la realtà alle proprie debolezze o al proprio narcisismo (che è un'altra forma di debolezza, costitutiva e indispensabile però), ma un modo di confrontarsi con la realtà sapendo che di fatto non la si può nemmeno vedere se non si tiene in considerazione il nostro ruolo per costituirla. La macchina fotografica, l'operazione del fotografare, l'azione della foto-grafia, della luce e della materia sui cui viene fissata, sono sempre stati un'ottima occasione per operare queste deviazioni e ritorni, proprio nella misura in cui gran parte del lavoro stesso è completamente indipendente dal fotografo. L'aspetto "meta", come è noto, è fondamentale per ogni operazione artistica, e non solo nel 900, anche se a partire dal secolo scorso è stato reso vieppiù centrale e esplicito, con risultati artistici non sempre entusiasmanti, bisogna dirlo. Il contributo originale di Mulas, che il libro analizza benissimo nelle sue differenti implicazioni, consiste nelle forme in cui egli lo lega alla propria vita, l'atteggiamento che comporta nei confronti del mondo, degli altri e di se stesso. Non si tratta quindi di mettere a fuoco i mezzi del mestiere, i trucchi e le potenzialità dello specifico strumento e linguaggio, che costituiscono in apparenza il fulcro di due delle sue opere più importanti (La fotografia e Verifiche) ma un mettersi in gioco senza darlo a vedere, di tipo insieme etico e artistico. Se vuoi che l'obiettivo sia obbiettivo, devi sapere che ruolo giochi tu dietro di esso, e prima e dopo. Altrimenti, è risaputo, si finisce per mettersi, e farsi ritrovare, laddove meno si vorrebbe o sarebbe il caso. Elio sviluppa questa tematica lungo tutto il libro ma in particolare quando, nel prendere in esame ad una ad una le Verifiche  sviluppando in modo molto sottile non solo i complessi rapporti con pittori e fotografi e la capacità della fotografia di essere critica d'arte in un dialogo che interroga e si lascia interrogare a partire dall'eterogeneità di un linguaggio che vuole in primo luogo capire se stesso (e il proprio rapporto con il mondo e con colui che lo usa), insiste anche sulla bellezza delle immagini, specie laddove sembra che non siano che indagini delle potenzialità e dei limiti della tecnica e dello strumento o riscontri "oggettivi" delle procedure.

Una bellezza che rileva dell'arte a Mulas contemporanea e fa segno verso vie di superamento di certe sue impasse (di quella concettuale soprattutto), in modo discreto ma sicuro, non cercando una differenza radicale, ma tramite la presa in conto di alcune delle scene primarie dell'arte contemporanea stessa (Duchamp, Warhol su tutti), e soprattutto della storia del suo proprio ambito, la fotografia (Fox Talbot).

Non sono elementi che risultano così evidenti nell'insieme del lavoro molto ampio e diversificato di Mulas, e il pregio del libro di Elio è di averne invece dipanato i fili, tessendone la storia in modo quasi impercettibile ma coinvolgente. Pur con la matita in mano, ho infatti letto questo libro lasciandomi prendere come con un romanzo. Trovo che esso abbia qualcosa di un romanzo non nel senso della ricerca di effetti narrativi vistosi o dell'adozione di qualche forma di biografia romanzata, ma nelle forme che vi prende il tempo. Il tempo della biografia e delle differenti attività, certo, che Elio ricostruisce con scrupolo e chiarezza, ma intrecciato al tempo della storia dell'arte e civile, a quello teleologico che attraverso gli esiti finali (soprattutto di Verifiche) permette di dipanare i fili di cui dicevo, e insieme quello dell'interiorità di Mulas, della sua fedeltà alle proprie, di scene primarie (la prima macchina fotografica in prestito, il desiderio di cogliere gli effetti della luce di un fiammifero che si accende ecc.; l'attenzione non a momenti speciali, ma ogni momento della vita ecc.). E' un tempo che va avanti e torna indietro modificato e arricchito, che si nutre di incontri e scoperte personali e di eventi storici colti nel loro farsi, e percorre, e insieme traccia, strade che vengono abbandonate e poi riprese incrociandole da altre direzioni che proiettano nuove luci e che trovano infine il loro punto di composizione ma non di chiusura. Non ci fosse la morte. Ma ciò che la morte ha interrotto per Mulas, ha lasciato aperto per chi viene dopo, se sa guardare e imparare.

Ha scritto Walter Benjamin nel saggio Lo scrittore come produttore che “uno scrittore che non istruisce gli altri scrittori non istruisce nessuno”: vale per ogni produttore. Va aggiunto ovviamente che si tratta di una didattica che, anche quando si traduce in tecnica, non può che passare per l'effetto estetico. E' esattamente quello che Elio ha portato alla luce (per quanto facile, uso la metafora di proposito) nell'opera di Mulas, senza dimenticare le gradazioni che essa prende quando si traduce in ombra o filtra attraverso il fumo. Ma è anche quello che mi ha insegnato il libro stesso di Elio, con l'identico pudore che egli riscontra nel lavoro e nella personalità di Mulas, ma anche con la sua stessa decisione di affrontare fino in fondo le cose che condivide con lui. E' lo stesso pudore che io ho messo tra parentesi qui, una volta tanto. Sono contento di averlo fatto per rendere omaggio a mio fratello. Credo che il migliore omaggio sia mostrare di avere imparato qualcosa. O almeno tentare. Se poi ci sono magagne, sono tutte del discente, ça va sans dire. Ma avere tentato, a volte basta. A me, quantomeno.


 



06/11/21

Sul mio interessantissimo rapporto con il tu e il lei


 

Uno dei segni più certi che la mia età avanza (leggi: che sto invecchiando) è che una volta davo del lei a quasi tutti: estranei, ovviamente, e chiunque avesse anche solo un giorno più di me; dare del tu a questi ultimi mi ripugnava quasi, come una cosa contronatura (pensavo ce ne fossero allora... qualcuna anche adesso per la verità) e quindi evitavo di farlo. Era per rispetto, più che per distanza. Anche perché la distanza, se può segnare tutte le sfumature della differenza, e della diffidenza, è essa pure una forma di rispetto.

Ora con gli estranei parto ancora con il lei, anche quando tutti attorno usano il tu, ma presto o tardi mi adatto a passare alla seconda persona, sempre con qualche resistenza, come se in questa presunta confidenza qualcosa si incrinasse. Il tu lo do abbastanza spontaneamente alle persone molto più giovani, che ormai sono tante (ecco il marchio della vecchiaia), ma anche qui, prima che mi diventino familiari, se mai lo diventeranno, sempre con un sottile disagio, che mi sforzo di vincere perché sono certo che, se usassi il lei, sarebbero loro a restarci male, dato che usano il tu
in modo così apparentemente spontaneo: anche con i più anziani, come me, che invece lo accolgo con quella sfumatura di disagio che dovrebbero provare loro.

 

E qui non dovrebbe mancare un sorriso di imbarazzo.  😊 Eccolo

 

 

ps. La foto di Léaud bambino c'entra poco, l'ho messa solo perché mi piace

02/11/21

Così facciamo. (Cristo sale sulla scala appoggiata alla croce)


Il condannato sale sulla scala quasi senza esservi costretto, di sua spontanea volontà, come immagino pochi condannati hanno fatto prima e dopo di lui, alcuni per darsi un contegno di coraggio e dignità, come un buon viatico per l'oltre, per la memoria se non per un'altra vita; mentre quasi tutti si oppongono, gridano la loro disperazione, non risparmiano il dolore a chi esegue, accompagna e assiste, a ricordare la loro mala fede, la violenza che stanno esercitando in nome di una qualsiasi giustizia che in quanto uccide già si nega, è già ingiusta. Un uomo, in bilico sul braccio della croce stende la mano per aiutarlo a salire, mentre un suo compare, su una scala lì accanto, è già pronto con i chiodi e sembra che uno lo stia già battendo contro il legno, come a fare una prova, impaziente; un terzo, in basso sotto la scala su cui è salito quello che sta afferrando il braccio del condannato, sta tendendo anche a lui un martello, mentre un altro ancora, lì accanto, tiene un secchio con altri chiodi, di spalle, come una figura repoussoir che separa dalla scena il devoto spettatore e insieme lo rappresenta in essa, perché è il fedele che porta gli strumenti del supplizio; poi ci sono quelli che assistono esprimendo il proprio dolore, come l'uomo in rosa, forse Giuseppe d'Arimatea, o con espressione seria, pensosa, come il sacerdote sulla destra, forse un santo raffigurato nella pala di cui questo quadretto minuscolo costituisce una delle predelle, o con lo sguardo spaventato, che non ha il coraggio di fissare direttamente la scena e lo volge attorno, verso l'esterno, verso di noi, che siamo prima uno e poi l'altro personaggio della scena, e infine tutti assieme, soprattutto quello che sale alla croce, verso la condanna a cui non può sottrarsi, o non vuole, perché vuole darle un compimento, e un senso, assumerla su di sé come l'esito cercato del proprio percorso, e non l'inesorabile conclusione che non poteva non giungere una volta trovatosi per strada e il percorso iniziato.

 

Giovanni Baronzio, documentato a Rimini tra il 1343 e il 1362, Storie della Passione di Cristo e Giudizio Universale. (Pannello o predella)


23/10/21

Brueghel: e la nave va. La caduta di Icaro

Sulla Caduta di Icaro di Brueghel la parola definitiva l’ha detta W. H. Auden nella poesia Muséé des Beaux-Arts (1938). Io vorrei proporre qui un’aggiunta, spero non superflua. Le parole definitive non chiudono i discorsi; li aprono, piuttosto, come sapeva anche W. C. Williams che infatti ha scritto venti anni dopo (nel 1960) Landscape with the Fall of Icarus. È la meraviglia delle parole, che continuano dopo la fine. Vanno avanti, come navi sull’oceano mare, spinte dai venti della perfezione. O del disastro.

È del bellissimo vascello a mezz’altezza sulla destra, e delle altre navi, che vorrei dire qualcosa. Il quadro è noto: sulla sinistra in primissimo piano un contadino sta arando la terra; accanto sulla tela, ma lontano per la prospettiva, ci sono un gregge e il suo pastore con lo sguardo rivolto in alto, dove non c’è niente, ma potrebbe esserci Dedalo, che compare in un’altra copia del quadro del Musée des Beaux-Arts di Bruxelles che è qui in esame (e che potrebbe essere a sua volta una copia: ma qui non importa).

Sotto, di spalle, piccolo, c’è un pescatore accanto a un cespuglio su cui è posata una pernice (simbolo della cupidigia e del guadagno illecito, secondo san Girolamo, ma anche della Lussuria, che però non si capisce come possa entrarci qui), sopra la pernice due gambe che stanno sprofondando nell’acqua e sopra ancora il vascello che si dirige verso il mare aperto, oppure verso il porto della città azzurrorosata che si vede sullo sfondo nel quale sta entrando un altro vascello simile a questo, mentre nelle vicinanze sono disseminate altre imbarcazioni, e forse un terzo vascello che ha fatto pensare ad alcuni alle tre caravelle di Colombo. Le interpretazioni si sprecano: tutte molto interessanti, anche le più fantasiose (almeno per me), ma io non le seguirò.

La veduta è dall’alto, forse simile a quella che aveva Icaro prima di cadere dal cielo, e permette di allargare lo sguardo verso isole, promontori e città lontane, in un paesaggio meraviglioso illuminato dal sole che sta sorgendo dal mare. Il ragazzo sta sprofondando nell’acqua, solo le gambe sono ancora visibili, ma nessuno vi ha fatto caso, tutti sono impegnati nelle loro attività, il suo “non era un fallimento rilevante” (“it was not an important failure”). Tutti sono indifferenti, anche la natura: “il sole splendeva / Come doveva sulle bianche gambe che sparivano nella verde / Acqua; e il lussuoso delicato bastimento che doveva aver visto / Qualcosa di sorprendente, un ragazzo che cadeva dal cielo, / Doveva andare in qualche posto e seguitò con calma a veleggiare” (Trad. di Agostino Lombardo)

Il “lussuoso delicato bastimento” prosegue tranquillo il suo viaggio. I marinai (se ne vedono almeno 6) sono intenti alle loro mansioni, uno sta pulendo il ponte di coperta, un altro sia arrampica sulle sartie, un terzo scioglie una vela per approfittare del vento favorevole… Nessuno ha uno sguardo per il ragazzo caduto dal cielo, nemmeno chi aveva la visuale libera.

La rotta è certa, il mare calmo, il cielo sereno, il timoniere saldo al suo posto e una dolce brezza gonfia le vele. Nessuna tempesta è all’orizzonte. Ormai il porto è in vista, forse uno di quelli fluviali dei grandi estuari del nord che si vedono nei primitivi fiamminghi, o uno di quelli che il pittore ha visto nel suo viaggio in Italia, nello specifico quello di Napoli, da lui dipinto in un altro quadro.

Di navi non ce ne sono molte negli antichi maestri, solo alcune, piccolissime, nello sfondo della Madonna Rolin di Van Eyck e nel San Luca di Van der Weyden. Qualcuna in più nei paesaggi di Patinier. Più numerose in Brueghel e nella sua bottega, in particolare ad opera del figlio, e più ancora nelle stampe che nei quadri. L’epoca d’oro delle tempeste e delle battaglie navali deve ancora venire, ma Brueghel già l’annuncia.


Il vascello se ne va sul mare per ora calmo spinto dalla la ricerca di guadagno, non di avventura o conoscenza, che semmai sarà un portato secondario, e comunque sempre utile per nuovi guadagni. Rotte, prodotti, mappe, coste, uomini, frutti, spezie, opportunità, consuetudini e meraviglie. È la cupidigia il motore, non la spinta verso l’ideale o il desiderio di esperire, di superarsi, di sfidare il rischio che diventa mortale quando si allontana (si distoglie) troppo dalla concretezza del suolo, come ha fatto Icaro. Anche chi si muove per desiderio di guadagno però va incontro a pericoli mortali: il mare è grande, smisurato, senza confini, potentissimo di vita ma anche di morte, ingovernabile. Nel suo fondo l’ignoto prolifera, la morte è sempre in agguato, come sa l’annegato che si intravede tra i cespugli accanto al pastore. Non c’è difesa. Chi lo affronta è in sua balìa, benevola o malevola che sia. Della sorte. Del destino.

Si tratta però di una contrapposizione semplicistica, come lo è ogni moralismo. Chi affronta i viaggi è conscio dei rischi che corre e delle fatiche che lo attendono, li affronta a viso aperto, raduna tutte le proprie capacità, coraggio e sopportazione ecc. Estende lui pure i limiti della conoscenza, del mondo; in quanto affronta l’ignoto, la sua è comunque un’avventura intellettuale e spirituale: ha capito la profondità, la complessità, l’inesauribilità della superficie marina, e i suoi tranelli, i rischi, anche mortali. La nave è lussuosa, sembra andare placida e sicura, ma è solo un’impressione, un dato momentaneo, basta niente perché gli alberi si spezzino, le vele vadano in brandelli, nelle fiancate si aprano falle, la chiglia si infranga su fondali imprevisti... (cfr. Esperanza Guillén, Naufragi: immagini romantiche della disperazione).

Per quanto sia comune nella pittura di quello e di tutti i tempi, io preferisco non leggere nel quadro nessun intento moralistico prevalente, e forse nemmeno una contraddizione tra Icaro che cade e la nave che gli passa accanto ignorandolo. Sono mossi entrambi da impulsi simili. Uno nell’aria, l’altra sull’acqua, mentre il contadino e il pastore percorrono e ridisegnano la terra. La tracotanza di Icaro è forse solo insufficienza di tecnologia. È meraviglioso che possa volare, ma le sue povere ali, incollate con la cera, più di tanto non potevano salire. Giusto quello che serviva per evadere dal labirinto. E d’altra parte è veramente difficile frenare l’ebbrezza del primo volo. La volontà di scoprire il mondo dall’alto, di infrangere limiti, di salire verso il sole, ubriaco di luce. Anche la nave lo fa. Quella di Brueghel inganna, perché, come dice Auden, è snella, elegante. Ma anch’essa affronta l’ignoto. Una tempesta è sempre dietro l’angolo, o una bonaccia, o venti contrari che costringono a prolungare il viaggio fino ai limiti della sete e della fame, e forse pirati, popoli ostili, all’approdo. La sua non è una crociera di diporto.

Nessuno andava per mare volentieri in passato; andare al largo era sempre un azzardo; attraversare mari e oceani era da folli: era sempre un grande azzardo che faceva paura. Oppure uno prende il mare per fuggire, per scampare un altro pericolo maggiore (certo), o per far perdere le sue tracce, come Dedalo e Icaro, appunto.

Il viaggio come avventura è un mito recente, romantico (W. H. Auden, Gl’irati flutti); prima si viaggiava per necessità, o per guadagno, avidità, ambizione. Gli Argonauti, e in genere gli eroi greci, a compiere le loro imprese sono costretti, da un’autorità esteriore, non da una spinta interiore, e tutti non vedono l’ora di tornare a casa. Della navigazione quello che interessa è il porto.

L’Ulisse di Dante deve convincere i marinai a seguirlo con la sua arte sottile, e la sua ultima impresa, pur nata sotto la dichiarata bandiera della virtù e della conoscenza, è l’ennesimo dei suoi inganni che lo hanno condotto all’Inferno. L’offerta di conoscenza (come quella del serpente nell’Eden, la cacciata dal quale è secondo alcuni il significato del quadro), nasce da una menzogna. La ricerca della verità è basata sulla menzogna. Ma senza menzogna nessuna verità, di conseguenza. Se non ci fosse stata menzogna non ci sarebbe verità. La verità sarebbe impensabile e impensata. (Come peraltro resta comunque, probabilmente.) Intanto si prende il mare. E la nave va.




15/10/21

Moritz


E allora Moritz mi ha detto: Non avendo io nessuna facilità, e anzi essendo oppresso dall’incapacità, e forse dall’impotenza assoluta, di confidarmi con gli altri, qualsiasi altro, nessuno escluso, e di lasciarmi andare in un modo che qualsiasi persona almeno ogni tanto deve trovare o inventare se vuole conservare una minima sanità di mente e non lasciare che ogni cosa si depositi dentro, o ovunque trovi l’opportunità di insinuarsi e insediarsi, nei meandri più dannosi del corpo e della mente, per marcirvi e incancrenirsi, - o forse solo non avendo mai fatto uno sforzo in questa direzione o trovato circostanze favorevoli, magari per una qualche paura atavica, per un terrore innato se mai fossi riuscito a decidermi a provarci -, ho cercato per tempo, quasi automaticamente, in modo del tutto spontaneo, naturale, fin da ragazzino, per quel che ricordo con chiarezza, di compensare questa mia carenza, o reticenza o chiusura, e il vuoto da essa scavato, un vuoto a ben vedere profondissimo, sconfinato, con la predisposizione, che si è tramutata velocemente in una capacità, e addirittura in un’arte oserei dire, di ascoltare le confidenze degli altri, e di attirarle pur senza fare nessun per passo per sollecitarle, e di accoglierle senza che i confidenti si sentissero minacciati, in posizione subordinata e quindi di pericolo, da questa che è in fondo è una debolezza irrimediabile, anche se forse, contemporaneamente, è la forza più grande, il più grande coraggio e rifugio, la più luminosa risorsa, così che molti, per anni e anni, per decenni, hanno trovato naturale, presto o tardi, e alcuni fin da subito, la prima volta che ci siamo incontrati, parlarmi di sé a quel che si dice cuore aperto, che come è noto però sanguina sempre, è quasi sempre mortale, e raccontarmi le loro cose più intime, le loro pene più inconfessabili, dolorose e immarginabili, che però almeno la parola prova a lenire, se non proprio a cicatrizzare e guarire, e anche, cosa incredibile persino a pensarsi, le loro gioie più profonde e più vere, non quelle di facciata o di rappresentanza sociale, proprio le loro vere, segretissime felicità. Ma ora, da anni e anni, non è più così, le occasioni di incontrare questi famosi altri si sono diradate né io le ho più ricercate, come certo ricercate non le avevo mai, perché erano loro, quegli altri, a cercarmi, e quindi ora da una parte io, a volte, mi sento come un recipiente vuoto, pateticamente inutile (a tanta bassezza sono giunto!), e dall’altra come una cantina, una sentina, intasata di ogni sozzura, di tutte le innumerevoli cianfrusaglie dell’esistenza, delle scorie di tutti i giorni e giorni e giorni e giorni in cui nessuna parola mi è stata rivolta per davvero, né io l’ho rivolta, nessun dono mi è stato fatto, nessun ascolto mi ha conferito un po’ di vita perché confidarsi con me lo dava a qualcun altro rendendolo così possibile anche per me, ponendomi in tal modo in una posizione subordinata pur sembrando di superiorità, reso indifeso dalla mia forza, nell’unica fragilità che sia mai stato disposto ad accettare, e anzi ad accogliere con gioia, senza che questo, ancora, mi abbia mai convinto, o solo predisposto, indotto con moto naturale ad aprirmi, a dire veramente qualcosa di me, a quell’apertura che da parte mia non so definire diversamente che ripugnante…
E si è guardato intorno come smarrito e insieme furioso, posando infine gli occhi su di me con odio, anche se solo per un attimo, che è passato senza che poi sorridesse però, come è solito fare, lui e tanti in queste situazioni, senza quell’accenno di sorriso che è come una richiesta di accondiscendenza, una confessione definitiva di sconfitta.
Al che io ho fatto finta di non aver visto niente e gli ho detto: Sì, continua, ti ascolto.
 

 

14/10/21

Nel sottopassaggio

 


Ero solo in questo lunghissimo sottopassaggio, quando ho sentito dei passi alle mie spalle, tacchi femminili che presto mi hanno raggiunto e sorpassato e quasi subito hanno preso un ritmo più veloce e quindi di corsa mentre lei, avvolta in un leggero cappotto scuro di lana  strettissimo in vita, si voltava terrorizzata verso di me gridando aiuto fino a sgolarsi, al che io ho rallentato la mia andatura, e poi mi sono voltato e, senza potermi frenare, ho preso a correre in direzione opposta, in silenzio, a perdifiato.

12/10/21

Fankafkisti per la prima volta a Praga

Non appena si sparse la voce che due dei più accaniti e noiosi fankafkisti del pianeta (io e il mio amico Lucio, ma lui più di me) erano giunti per la prima volta a Praga, le autorità cittadine convocarono con urgenza un consiglio comunale, alla presenza del prefetto e del capo delle milizie urbane, per correre ai ripari, nel tentativo di limitare i danni che gli sciagurati avrebbero potuto combinare con le loro chiacchiere appestanti e i loro imprevedibili movimenti sulle tracce vere e presunte del grande scrittore, perseguite in modo certamente scomposto e rumoroso, come la loro nomea lasciava presagire. Fermo restando che bloccarli, arrestarli o espellerli avrebbe creato problemi diplomatici e riflessi nocivi sul flusso turistico che il grande scrittore aveva innescato a sua insaputa (ne sarebbe morto ancora prima del tempo) e che al momento costituiva una delle entrate più cospicue della traballante economia locale, si trattava di allestire qualche stratagemma per distrarli, spostare i loro interessi verso altre fonti di attrazione e contenere la loro nocività a livelli minimi e scarsamente attinenti alle ragioni della loro venuta, rinviata da tanti anni da essere ormai improcrastinabile. Oltre a fankafkisti conclamati, i due, ormai uomini di mezza età già instradati verso la terza, erano anche innocui morti di fame proclivi al commento estetico e a prolungate e maliziose, quando non acide, considerazioni sull’essenza del genere umano, in particolare femminile, ragion per cui le autorità non trovarono niente di meglio, con una mossa che avrebbe giovato anche al turismo non letterario, di convocare nella grande sala del castello cittadino tutte le belle ragazze e giovani signore della città e del circondario, per poi dislocarle strategicamente, come se nulla fosse, lungo i viali, le strade, le piazze e le stradine più legate al pellegrinaggio lungo l’infinita e labirintica via crucis legata all’autore della “Tana”, e ai crocicchi più frequentati nonché a certe stazioni nodali della metropolitana o nei pressi di musei e di note birrerie, e poi succedesse quello che poteva succedere, o anche no (meglio). I due infatti, dopo un breve periodo sconfortante, quantomeno per le autorità che sorvegliavano discretamente da lungi, in cui avevano proseguito, impavidi, a strologare sul più e sul meno, e praticamente su tutto, chiusi nella bolla della loro mitologia, cominciarono pian piano a notare con la coda dell’occhio qualche bellissima giovane ai tavolini dei bar, o alle fermate dei bus; altre si accorsero di incrociarne sui marciapiedi, o nei negozi, oltre le vetrine, commesse o clienti che fossero, e altre ancora che venivano a bere un caffè o a comprare dei dolci nei bar e nelle pasticcerie dove ogni tanto facevano una sosta loro, o alle biglietterie dei luoghi di interesse storico e culturale, o nelle librerie dove, anche se non capivano un’acca del ceco e del tedesco, non resistevano a entrare per sfogliare libri e almanacchi manco a dirli tutti dedicati a Kafka, con qualche eccezione per altri scrittori praghesi, Meyrink, Kubin, Holan, Hrabal, Kundera, Havel, Hašek, Orten ecc, come santini di altari laterali. Per modo che i due cominciarono a porsi domande sulla genetica cecoslovacca (la nazione non si era ancora divisa) e slava in genere e sulle peculiarità individuali dei fenotipi incrociati con crescente, disinteressata, eidetica ammirazione. Una così alta concentrazione di belle signore e signorine, dalle figure snelle e slanciate, perfette nelle forme e nei lineamenti, con quel pizzico di esotico che non guasta mai, gli occhi chiari o scurissimi, tutti splendidi, la pelle di seta o porcellana ecc. (ognuno può aggiungere i suoi stereotipi preferiti), li lasciava esterrefatti, e per un po’, imprevedibilmente, senza parole. O forse erano loro, di formazione modernista con simpatie avanguardiste, che per non indulgere a stereotipi turistico latini (ma anche slavi e centroeuropei, avendo Lucio sangue sloveno e ungherese in circolo nel suo sistema arterioso), si limitavano, all’inizio, a esternazioni di breve durata, per lo più esclamazioni di stupore, brevi fasi incompiute ma creative (di meno non avrebbero potuto accontentarsi), e ad affondi retorici, di fatto, di minino spessore, o volume; ma con il passare del tempo e il ripresentarsi delle felici, per non dire numinose, apparizioni, le parole cercavano percorsi più elaborati e soddisfacenti dal punto di vista narrativo e socio-biologico, per lasciare, alla fine di ogni segmento relativamente autonomo delimitato dal rinvenimento di reliquie o memorie di questo o quel racconto o diario o lettera, di nuovo spazio a silenzi stuporosi e soffusi di una lieve patina di felicità che nel frattempo si era venuta a sovrapporre ai loro lineamenti in qualche modo pacificati, come quelli che assumono i morti, quelli trapassati in modo non violento quantomeno. Poi, alla ripresa dopo il pranzo, il riposo in albergo, la visita al museo o alla sinagoga o al cimitero, ripartiva il pellegrinaggio con le sue litanie ammorbanti, le divagazioni più acrobatiche e gli arresti improvvisi in mezzo al traffico dei ponti o sui binari dei tram, o sulle strisce pedonali, dove perlomeno in un incidente avrebbero avuto la legge dalla loro. La legge! A Praga.

Le considerazioni però erano più vacue e fumose del solito, come disturbate da retropensieri strani, pressanti quanto indefiniti, senza oggetto, o con oggetti abbaglianti ma sempre in via di svanire. E quando si rendevano conto di quali fossero questi fattori di disturbo e si guardavano attorno per focalizzarli e poi chissà che altro, non c’era più niente e nessuno, come fate morgane dissolte tra i fumi del fiume o sull’umidità degli acciottolati, messaggi inviati da qualche emissario superno che si erano persi per strada ma sarebbero certamente arrivati prima o poi. Poi però, prima, arrivava sera, e i due, dopo una cena consumata in qualche locale sempre sbagliato e un’ultima sosta in un bar per un caffè (io) o un whisky (Lucio), stremati per quanto avevano cercato e non trovato, visto senza averlo cercato, trovato senza averlo afferrato, se ne andavano ciascuno nella propria stanza a dormire o leggere, o a prendere appunti che non avrebbero usato, a rincorrere parole che sul momento si erano sottratte, a tracciare percorsi che non avrebbero seguito, né il giorno dopo né mai.