17/11/21

Il sogno di mio nonno Mario

 

Mentre passeggio in questa città sconosciuta capito davanti al cimitero. Il cancello è spalancato. Sulla sinistra vedo arrivare un gruppetto tra cui distinguo un paio di visi noti. Appena oltre l’ingresso c’è una struttura in legno che sembra quelle delle impiccagioni di alcuni disegni di Pisanello o di Annibale Carracci, con una pedana bassa però. Dall’asta trasversale pendono due grossi fagotti biancoazzurri che quando mi avvicino si rivelano due pecore appese a testa in giù da cui colano rivoli di sangue. Erano tre in origine, ora sono sicuro di averle già viste, anche se non lì, chissà dove, ma la terza non so che fine ha fatto. L’avranno venduta, penso. Seppellita no di sicuro. Mentre sto osservando il suo posto vuoto, il gancio da cui pendeva, sento una voce che mi saluta. E’ mio nonno Mario. Ha sui cinquant’anni, tutti i suoi bei capelli neri ondulati, come i miei da giovane (sono il nipote che più gli assomiglia) e la sua bella faccia sorridente. E’ vestito con stretti pantaloni neri, camicia a quadri e un leggero pullover scuro girocollo e si muove con disinvoltura, ma con un che di pesante. Penso che sia venuto a vedere la sua estumulazione e quella della nonna, che devono avvenire proprio in questi giorni, forse giusto oggi, perché il contratto cinquantennale dei loculi è scaduto, e non ci trovo niente di strano. Lo so che è morto, ma adesso è qui con me, vivo, e senza pensarci mi affianco a lui, tranquillo, quando, invece di raggiungere i loculi, usciamo dal cimitero e ci dirigiamo verso l’abitato. La città straniera, anche se mai vista prima, ha un’aria familiare. Dopo un centinaio di metri vedo che il nonno è tornato sui suoi passi e mi dice, ma perché andiamo a piedi che ho qui la mia macchina? Si è infatti fermato accanto a una lunga limousine, o forse un coupé di lusso, di colore grigio, non metallizzato, ma un grigio caldo, un grigio panna se una tonalità del genere esistesse, e vedo che vi entra dopo averne sbloccato le porte con il telecomando che aveva in tasca. Ora che ci penso assomiglia agli ultimi modelli di carro funebre, ma non lo è: è una macchina di lusso, snella e dalle linee morbide, eleganti. Quando mi avvicino per salire anch’io, mi accorgo che dentro, al volante e che si apprestava a scendere dalla portiera semiaperta, c’è una giovane signora dai capelli lisci e chiari, benvestita, con una collana sottile e un braccialetto coordinato, che osserva allibita mio nonno, che la guarda allibito a sua volta. Hanno un identico telecomando con la stessa lunghezza d’onda. Dopo un istante, senza dire niente, mio nonno scende e proseguiamo a piedi su un bel marciapiede, largo e ben lastricato finché arriviamo nelle vicinanze di un grande hotel, tipo Plaza, ma più moderno, con un imponente ingresso vetrato, sull’altro lato della strada, che si direbbe la nostra meta. Di fronte, dove siamo noi, c’è la pensilina della fermata degli autobus, dove sono stipati molti morti che si guardano attorno in silenzio, impazienti e smarriti. Noi attraversiamo la strada e entriamo nell’hotel. Io mi addentro subito in una grande sala che si apre dopo la hall, convinto che mio nonno mi segua. Invece lui prende un corridoio sulla sinistra come se volesse raggiungere gli ascensori per salire ai piani alti, dove Angela mi aspetta nella nostra camera e accanto ci sono quelle di alcuni conoscenti. Lo chiamo e gli dico di aspettarmi, ma non lo vedo più. Allora ritorno al salone per chiamare in camera e lo vedo accomodato in modo alquanto informale in una poltrona accanto al bancone del bar. Deve essere entrato da una porta laterale che comunica con il corridoio, di solito chiusa. Una porta di servizio. Più che accomodato, il nonno è quasi sdraiato, con le gambe allungate leggermente piegate a sinistra, e il resto del corpo, ora avvolto in un cappotto morbido e leggero chiuso da una cintura dello stesso tessuto, ripiegato su se stesso, quasi accartocciato, con la testa messa un po’ di traverso e il cappello scivolato sul viso. Sembra addormentato. Mi avvicino per vedere e sistemargli almeno il cappello. Lo sollevo e vedo che non è più mio nonno. Cioè è ancora lui e non lo è più. E’ Lucio. Mi sveglio.

 

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 Lucio è un carissimo amico del quale, per ragioni che sarebbe troppo lungo spiegare, da anni non so più niente, nemmeno se è ancora vivo. Un dolore che non passa.

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