31/05/18

Louis-Ferdinand Céline, I pamphlets (1982) & Robert Poulet, Il mio Céline (1993)





Louis-Ferdinand Céline, I pamphlets
(scritto nel 1982;  magari oggi non scriverei le stesse identiche cose; o quanto meno non allo stesso modo...)

A negare che Louis-Ferdinand Céline sia uno dei più grandi scrittori del nostro secolo non è rimasto più nessuno. Constatazione banale, ma che giova ribadire, soprattutto oggi, dopo che più d’uno si è scandalizzato dell’audacia dell’editore Guanda che, primo al mondo dal tempo della loro pubblicazione, sta riproponendo al pubblico, ottimamente tradotti e curati, i suoi libri maledetti (manca ancora La scuola dei cadaveri, per il momento). Io penso invece che sia scandaloso che nessuno, nemmeno in Francia, ci abbia pensato prima, in un’epoca in cui di autori anche molto meno importanti si pubblicano anche i quaderni di aste dell’asilo.
L’editore si è preso i suoi rischi, anche giudiziari, e se a compenso ha fatto conto su un successo di scandalo, tanto meglio: saranno molti di più a leggere i libri e a discuterne. Senza contare la soddisfazione che si prova nel rilevare che qualche occasione di scandalo, nonostante l’andazzo generale, rimane pur sempre. Tanto non c’è pericolo che Céline diventi uno scrittore di moda, se non per gli inevitabili sciagurati che snobbano tutto quanto oltrepassa i confini della loro combriccola di birichini. I letterati con un minimo di preparazione Céline dovrebbero già esserselo studiato da tempo.
Per tornare ai pamphlets di Céline, è ovvio che presentino problemi, e tanti anche, così che solo enumerarli in una breve segnalazione come questa sarebbe ridicolo. Ancor più suggerirne possibilità di soluzione o di uscita. Sarei stupido e pretenzioso come quelli che in due pagine ti danno la chiave del Finnegans Wake. (Ma io sto esagerando, suppongo.) Del resto ambedue i volumi sono corredati di due ottimi saggi di U. Leonzio e J.P. Richard, e per chi vi fosse interessato, la letteratura su Céline sta diventando così sterminata che sarebbe impossibile che ciascuno non trovasse ciò che fa al caso suo. Ultimo in ordine di apparizione da noi è il libro di J. Kristeva Poteri dell’orrore, tradotto da Spirali Edizioni.
Dice bene Leonzio che la materia di questi pamphlets (il riferimento è soprattutto all’antisemitismo, ma credo possa essere esteso anche agli altri argomenti: la denuncia dello stalinismo, la rivolta contro il potere, l’odio puro e semplice ecc.) “più che ributtante è intrattabile, impermeabile a qualsiasi giudizio che non pretenda di usarla”, tagliando corto con le varie forme di motivazione, spiegazione, giustificazione, accusa ecc. Il suo enunciato è tuttavia bifronte, dato che potrebbe suonare come un’abdicazione di fondo, sebbene valga certamente meglio interpretarlo come un invito ad un impegno.
Non si tratta cioè di rinunciare ad un giudizio di qualsiasi natura che ad ogni buon conto nessuno può evitare di formulare (se a qualcuno interessa il mio, dirò che soprattutto Bagatelle per un massacro – nonostante varie imperfezioni e lungaggini peraltro forse giustificabili nel discorso céliniano ma che comunque ci sono –,  è un grande libro, di tremenda forza, con pagine mirabolanti, descrizioni e resoconti straordinari, una sfrenata invenzione verbale benissimo ricreata dal traduttore Giancarlo Pontiggia, e uno dei repertori più succosi di insulti di tutta la storia della letteratura, sulla scia non a caso di Rabelais) e nemmeno di sminuzzare e tritare l’insieme del testo, come ancora ciascuno fa per i suoi fini personali, quanto ovviamente interpretare i pamphlets, singolarmente presi e nei rapporti non solo reciproci ma anche con i romanzi, per trovarne possibili usi. Ciò che è già una bella avventura. Facciamo conto di aver smarrito ogni istruzione allegata e di essere di fronte ad un potenziale strumento che si tratta di imparare a impugnare, di sperimentare per poterlo conoscere, e magari poi decidere di gettarlo via. Nessuno intonerà geremiadi per eventuali deliri interpretativi e isterie varie.
Certo è difficile leggerli con una certa serenità, dimenticare dove ha portato la violenza antisemita, e per molti aspetti serve tanto poco strologare su chi fosse veramente l’ebreo per Céline e dire con Richard, magari avendo ragione, che l’ebreo per Céline non esiste ed è solo una specie di “meticcio archetipico”, quanto mitigare escludendo responsabilità dirette o risolvere tutto con acrobazie psicologistiche o rigetti sdegnati. D’altronde chi ha mai detto che si deve leggere sempre con serenità o che in letteratura è d’obbligo l’esclusione della morale? Tanto più che Céline stesso, a modo suo (eccome!), un moralista lo è sempre stato, fin dai tempi del Viaggio al termine della notte.
Come sorvolare su qualche forma di approccio morale quando il motivo centrale di questi libri è l’odio? Sempre Leonzio, alla fine del suo saggio, sostiene che “l’odio è la forma più profonda e incomunicabile dell’amore”. Può anche essere, ma io, se fossi l’odio, odierei Leonzio. C’è qualcosa nell’odio che non gli deriva soltanto dall’essere un amore criptico e indicibile. L’odio, e non credo solo per Céline, è una delle più forti ragioni di vita, e di fare letteratura: come al paradosso del mentitore cretese è impossibile sfuggirgli, che lo si ami o lo si odi (a meno che, direbbe qualcuno, non si entri in un altro spazio o in un altro gioco...). La straordinaria (o terribile... o vergognosa...) epigrafe di Mea culpa dice infatti: “C’è ancora qualche motivo di odio che mi manca. Sono sicuro che esiste”. E nel Viaggio il narratore si lamenta che a New York non ci siano portinaie, munifiche dispensatrici “a coloro che sanno prenderlo e riscaldarlo, ben vicino al cuore, dell’odio tuttofare e per niente, abbastanza per far saltare il mondo. A New York ci si trova atrocemente sprovvisti di questo pimento vitale, ben meschino e vivente, irrefutabile, senza il quale lo spirito sprofonda e si condanna a sparlare solo vagamente e a farfugliare pallide calunnie. Niente che morda, ferisca, incida, tormenti, ossessioni, senza portinaia, e venga ad aggiungere con certezza all’odio universale la scintilla dei suoi mille dettagli innegabili”. (Si dovrebbe forse aggiungere che, subito nella pagina successiva, è scritto anche che “bisognerebbe decisamente fermare il mondo per almeno due o tre generazioni se non ci fossero più menzogne da raccontare”.)

Louis-Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, Guanda, Milano, 1981, p. 306 £ 15.000
Id, Mea culpa – La bella rogna, ibid., 1982, p. 200, £ 10.000

 

  
 Robert Poulet, Il mio Céline, ed. Sestante, p. 103, £ 17.000  
 (poi riedito da Elliot edizioni e da Castelvecchi)

  Quando Robert Poulet si reca per la prima volta a Meudon a visitare il vecchio amico che non vedeva da anni, è il 1956. Tornato in Francia da cinque anni dopo le polemiche, il processo per collaborazionismo e l'amnistia, Céline vive isolato, con la compagna Lucette Almanzor, in una villetta sbreccata, circondata da un giardino incolto abitato  da un numero imprecisato di grossi cani e altri animali. Nel frattempo ha pubblicato i due volumi di Féerie pour un autre fois (ora inclusi nel terzo volume delle opere della Pléiade con 500 pagine inedite) e Colloqui con  il professor Y (ed. it. Einaudi) presso Gallimard, che ha anche fatto ristampare i due romanzi d'anteguerra, ma dal pubblico e dalla critica non è venuta altra risposta che quella dell'indifferenza, inequivocabile come una seconda e forse più amara condanna.
   Come scrive l'ottimo traduttore e curatore Massimo Raffaelli, "è un uomo distrutto nel morale e devastato nel fisico, un'ombra solitaria, cenciosa e vacillante", uno scrittore che tutti giudicano finito e che, nonostante i tentativi di risalire la china (si vedano le lettere e le interviste raccolte nel primo e nel settimo dei Cahiers Céline), sembra ormai destinato al dimenticatoio, se si esclude una piccola coorte di fedeli che tuttavia poco o niente riesce a fare per lui. È un uomo dimenticato ma che non dimentica; il silenzio, che ha seguito e perfezionato le vecchie "persecuzioni", ha anzi esacerbato il suo umore di innocente vittima sacrificale degli errori e delle invidie altrui: è un perseguitato che, anche se confessa di sentirsi "un essere indegno", si è confinato in volontario esilio ma è sempre pronto a far esplodere le sue ragioni e a contrattaccare.
   Suo coetaneo, Poulet aveva tutto per essere la miccia di questa esplosione: la sua storia, parallela a quella di Céline sia dal punto di vista letterario e umano (era stato il suo editore, Denoël, a dargli in lettura le bozze del Voyage favorendo così la successiva amicizia), che nelle scelte politiche e nella sorte giudiziaria (anche lui condannato a morte e poi amnistiato), e il suo carattere, aperto e entusiasta, lo rendevano l'interlocutore ideale per spezzare le difese del segregato di Meudon senza farsi scoraggiare o risentirsi davanti agli sbarramenti che questi avrebbe potuto opporgli. È così che sono nati questi "incontri familiari con L.-F. Céline" (come suona il titolo originale) che verranno pubblicati nel 1958, cioè dopo che una famosa intervista a "L'Express" e la pubblicazione di D'un chateau l'autre, primo volume della trilogia tedesca (che sarà riedita da G. Guglielmi nella collana Eianudi-Pléiade  - cfr. "il manifesto" di domenica 16 gennaio) avranno riportato alla ribalta il caso Céline.
   Dopo un inizio titubante, le dighe si aprono e Céline ripercorre le tappe della sua esistenza e della sua opera, ne legge a Poulet dei brani "molto lentamente, staccando bene le singole parole, mettendoci più solennità ed autocompiacimento di quanto non si crederebbe." Parla del suo lavoro quotidiano di scrittura, alla fine del quale, come dice Lucette, "ha il sangue alla testa, le mani che tremano, le gambe barcollanti, da far paura." Se la prende ovviamente con tutti i romanzieri, da Balzac a Proust, che "hanno idee politiche, rispettano il potere costituito, amano tanto la mamma." Racconta la genesi del Voyage, torna a spiegare anche a Poulet, che è convinto della "completa buona fede delle spiegazioni", che i suoi famigerati libelli più che antisemiti erano diretti contro la guerra imminente, non teorie ma "frutto della collera e della paura" (sul problema dello studio dei libelli si veda quanto dice R. Tettamanzi nel numero di gennaio di "Magazine littéraire", interamente dedicato a Céline, dove si troverà anche una rassegna dei testi celiniani, degli studi e delle biografie più recenti o di prossima pubblicazione in quest'anno del centenario).
    Col passare degli incontri Poulet si eclissa sempre di più e si limita, senza inventare nulla ("non un verbo, un dettaglio; lo giuro"), a riportare i discorsi dello scrittore nella loro cadenza magmatica e ripetitiva, furiosa e ilare.  Il suo è un "Céline stilizzato", ma fedele, fedele almeno alle emozioni che suscita in un interlocutore che non esita a considerarlo non solo il più grande scrittore francese da Rabelais in qua, ma in tutto e per tutto un "eroe", l'anticonformista per eccellenza, "un anarchico [che] ha orrore delle ideologie e dei luoghi comuni." Poulet insomma, trascinato dalla sua simpatia e dalla sua ammirazione, finisce per accettare tutto quanto esce dalla bocca di Céline (anche le imprecisioni oggettive che tuttavia Raffaelli opportunamente rettifica nelle note), e per identificare acriticamente, con un candore che suscita tenerezza, l'immagine romanzata che Céline offre di sé con la realtà incontestabile.
   Ma, accanto a certe uscite memorabili dell'autore di Morte a credito, è forse questo l'aspetto più interessante del libro: la costruzione del mito Céline, in primo luogo, forse, per Céline stesso. È come se col tempo quelle che potevano essere boutades, depistaggi, sovrapposizioni di caratteristiche dei personaggi a quelle dell'autore, e anche delle meschine difese, siano doventate verità in cui il primo a credere è proprio il loro inventore. Ma più probabilmente è Céline stesso che gioca a confondere le acque e a far perdere le tracce nell'indistinguibilità del dato romanzesco con quello biografico, che del resto contrassegna tutto il suo percorso sia artistico che esistenziale. Da causa o occasione, il dato biografico si trasforma in effetto dell'opera, che a sua volta incide sulle vicende della vita e sulla persona in modi che di nuovo incideranno e verranno trasformati dalla pagina scritta, e così via. Tra le molte trappole in cui sarà rimasto preso, e nonostante l'affermazione e talvolta l'esibizione di una totale indipendenza, quella tesagli dalla sua stessa opera sarà per Céline la meno districabile e la definitiva. È il destino di molti scrittori, sognato talvolta da quelli che se ne sentono esclusi come un difetto di vita che sarebbe anche difetto d'opera, ma spesso subito come una condanna da coloro vi si sono trovati invischiati pur essendone gli artefici. Ed è la trappola in cui spesso cade anche il lettore di Céline che, sospeso tra l'amore per i suoi grandi romanzi e l'orrore oggettivo delle sue scelte politiche, quali che fossero le motivazioni soggettive, oscilla tra emozioni e giudizi opposti cercando di far quadrare conti che non quadrano mai, se non con razionalizzazioni semplicistiche, talvolta le stesse in cui cadeva Céline ogni volta che il desiderio di spiegare prevaleva sulla volontà, e le capacità, di capire.




                                                   


                                                   

22/05/18

Comprare anime



 Ci sarebbe questo tizio furbissimo e cattivissimo, particolarmente interessato a comprare una merce immateriale nota in certi ambienti con il nome di anima. La sua idea sarebbe di averne il monopolio, ma sembra che abbia un potentissimo avversario, molto abile e altrettanto avido, che glielo contende in tutti i modi. Il risultato sarebbe tendenzialmente un duopolio fifti fifti, ma al momento gli esperti assicurano che a prevalere sia quest’ultimo, variamente denominato a seconda dei tempi e dei luoghi, che ha molte risorse a sua disposizione, la principale essendo la nomea di essere molto generoso e buonissimo, oltre i limiti previsti dalla legge. Una vera arma impropria, perché è noto che alla bontà non si resiste. Gira gira, la bontà alla fine vince. Su questo c’è pieno accordo. I bastian contrario non li prende sul serio nessuno. Allora lui, il tizio furbissimo dico, deve studiare altre strategie, ampliare la sua offerta, se no col cavolo che i suoi potenziali clienti gli vendono la loro merce. (Ci sarebbero anche quelli che non se ne curano e la buttano nei fossi o nelle discariche più o meno legali, e allora gli agenti dei due contendenti scatenano invisibili lotte grandguignolesche per accaparrarsele, anche se è materiale di infima qualità, ma sono così pochi che assistere a certi spettacoli per guadagni così marginali è piuttosto patetico…)
Non si capisce il perché di tanto accanimento, dal momento che l’anima è una merce molto diffusa, sempre in produzione e senza scadenza, a parte quella naturale del possessore umano, quando dicono che, liberatasi di lui come di una crisalide, in parte cambia natura, nel senso che diventa più pura, senza scorie addosso, come se solo allora raggiungesse la sua vera essenza. Forse è solo avidità. Desiderio di stoccaggio illimitato. Forse in qualche modo per i due contendenti è una forma di nutrimento, una specie di carburante che assicura la loro indefinita perpetuazione. Non so. Lasciamo stare per il momento.
Sono tante le cose di cui poco si sa in questa faccenda, cosa che per alcuni la rende molto interessante. (Per altri invece noiosa, o addirittura insensata, superflua. Gentucola.) Per esempio non si sa da dove l’anima provenga né di cosa sia veramente composta: fatto sta che ogni uomo (ogni essere vivente, secondo le teorie di certi entusiasti: ma questo al nostro compratore non interessa, e forse si radica proprio qui il suo destino, che è la sconfitta), ogni uomo, dicevo, riceve in dote la sua alla nascita e se la tiene fino alla dipartita, quando diventa completamente disponibile per in due contendenti senza l’intralcio del possessore originario che in qualche modo però ne ha determinato la destinazione.
Essendo così diffusa, in certe occasioni la si può comprare a stock di milioni alla volta, ma chissà perché, in altre si ingaggiano lotte furibonde a proposito di qualcuna in particolare, come alle aste. Forse per questioni di prestigio, per mostrare i muscoli, demoralizzare l’avversario, umiliarlo addirittura! Anche se in questo caso il contendente B, quello buono, una bella figura mica la fa, secondo me.
Di alcune di queste contese viene poi raccontata la storia.
Il nostro simpatico compratore (dico simpatico perché è chiaro fin dall’inizio che alla lunga resterà in braghe di tela e il suo nemico, alla fine, nonostante qualche sconfitta in battaglie marginali, vincerà la guerra e toglierà la merce dal mercato tenendosela tutta per sé) ha elaborato comunque le sue strategie per convincere i possessori a cedergli l’agognata merce in oggetto, che però, per quanto allettanti, sono deficitarie. Formidabili a una considerazione ravvicinata, non saranno mai risolutive in un’ottica complessiva. Prendiamo la sua offerta più attraente: la ricchezza (o il potere: è lo stesso, cambia solo l’apparenza). Qualcuno mi spieghi come può pensare di conquistare più anime del nemico con una furbata del genere. Basta pensarci un momento: si tratta di un’offerta per sua natura limitata, dato che si misura nel rapporto relativo a chi non ce l’ha. È vero che tendenzialmente ne può offrire tantissima anche a tutti, ma se tutti hanno tutto, nessuno è ricco o potente, dato che questo si misura in relazione a un più e a un meno, ai pochi e ai tanti. Tutti non possono avere tutto, e se anche tutti avessero tutto in un modo che non sappiamo capire e inoltre ne fossero tutti contenti, beh, allora cosa distinguerebbe le offerte dei due avversari? Anche il nostro eroe sarebbe buonissimo. E quindi uguale all’altro. Forse sarebbero uno stesso unico tizio, come alcuni sostengono che in effetti siano. Lo stesso che si sdoppia perché non sa cosa diavolo fare e allora inscena questo risiko delle anime in cui incarna tutte le squadre.
Ma da noi le cose non vanno così: per dare una cosa a qualcuno la devi togliere a qualcun altro, per dare molto la devi togliere a molti. Se no è robetta, qualcosa che interessa momentaneamente solo qualche poveraccio, gente che si fa abbindolare per niente (la liberazione dalla suocera, per esempio; le belle ragazze e i bei ragazzi; il successo al festival di Sanremo: miserie del genere…). Per cedere quella dotazione che non si sa perché sarebbe così preziosa (è preziosa perché ambita, asino!), uno avveduto chiede una contropartita consistente, adeguata alla considerazione che se ne ha, o che si ha di sé, al narcisismo, alla superbia, che tuttavia viene indicata dagli esperti come la massima debolezza. Altrimenti nisba!
Certo, il nostro amico ha differenziato l’offerta, o quanto meno il packaging, perché a ben guardare tutto si riduce a quella citata. Anche le gioie del sesso. Che se lo puoi avere, e anche comprare, senza troppi problemi, e anzi (meglio) se induci qualcuno a offrirtelo spontaneamente, uno e poi un altro e poi un altro ecc., magari addirittura con trasporto (con sentimento), è molto preferibile. Se senza problemi lo acquisti, senza problemi lo puoi anche mettere in disparte, o cedere. A parte alcune eccezioni che in quelle storie a cui accennavo fanno sempre da pietra d’inciampo: quando uno cade nella trappola che lui stesso ha teso, o ha nostalgia di qualcosa che ha abbandonato per raggiungere altro ecc. Cose così, da melodramma.
Altro da offrire a ben vedere ce n’è pochissimo. Nel caso che ci interessa un’alternativa è stata individuata, una proposta che si tira fuori dal cilindro nei momenti topici: la conoscenza. Altra cosa però sulla cui natura e utilità il dibattito è ancora in corso, ma che non ha molti estimatori e quindi può essere smerciata con difficoltà. È vero che chi la apprezza ne diventa avido e ne vuole sempre, e sempre di più, fino alla dipendenza, come per l’eroina, ma il loro numero è davvero limitato! Forse per questo proprio di costoro si raccontano le storie. Cosa che però io non farò qui. Semmai un’altra volta. Al momento preferisco dedicarmi ad altre. La metafisica, al momento, mi sembra più attraente.

07/05/18

Jean-Jacques Langendorf, Una sfida nel Kurdistan - & - Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz (28-08-1983)




In un diario che va dal 23 settembre al 24 dicembre 1941, un giovane agente segreto tedesco, teorico dell’intrigo e dell’agitazione e animato da una grande volontà di potenza, narra le vicende della sua missione in Medioriente per attirare le tribù curde, ariane e ostili tanto agli arabi che agli inglesi, sotto l’influenza nazista. Viaggia nel deserto, soggiorna in squallidi paesini, prende contatti, uccide un agente inglese, fa saltare un ponte, ma proprio quando le sue ambizioni stanno per realizzarsi e il suo senso di indipendenza è massimo, la missione è sospesa ed egli, richiamato in patri, viene inviato a Parigi con mansioni di cui non gli importa nulla.
Il 30 novembre 1821, un cappellano militare pronuncia l’elogio funebre di un immaginario generale prussiano, amante della musica e della letteratura, che per primo ha avuto il merito di capire i grandi mutamenti intervenuti nella guerra con la Rivoluzione francese e Napoleone, e di abbozzarne la nuova metafisica. Il cappellano ne ripercorre la vita, gli incontri con grandi personaggi storici e di fantasia (Clausewitz, Napoleone, Goethe, Hoffman, il Bezuchov di Guerra e pace...) e i contrasti con le alte sfere dell’esercito prussiano ancora legate alla vecchia concezione, astrattamente razionale e meccanica oltre che disumana, di Federico II, fino al trionfo delle sue idee, diventate uno dei cardini della rinascita germanica.
Questi, in succinto, gli argomenti di Una sfida nel Kurdistan e di Elogio funebre del generale August-Wilhelm vob Lignitz, due brevi romanzi pubblicati in francese ne 1969 e nel 1973 dal quarantacinquenne ginevrino Jean-Jacques Langendorf, che ora Maurizio Andolfato ha tradotto per Adelphi.

Langendorf è uno studioso di Clausewitz e del pensiero militare prussiano, sul quale sta preparando da anni una monografia, ed è persino troppo ovvio che attorno alla guerra, alla sua concezione e ai suoi episodi, ruotino i suoi romanzi. È noto però che delle cose troppo ovvie è meglio dubitare. Non conoscendo i risultati dei suoi studi, è impossibile specificare influenze o relazioni, tuttavia dalla lettura dei suoi romanzi appare evidente che la guerra, la guerriglia e l’intrico, sono solo i riflessi visibili di altri fuochi assenti, anche se una delle numerose qualità di questi libri, forse la maggiore, consiste nella perfetta corporeità di questi riflessi. Si tratta cioè di testi dall’apparenza felicemente anacronistica e dotati di una leggibilità quasi dimenticata, con personaggi a tutto tondo, una psicologia meticolosa, situazioni esemplari e una trama coerente e compiuta, scritti in una prosa limpida e accurata, e pur ricca di tessere poetiche sottili del tutto amalgamate alla narrazione, ma, anche se già basterebbe, non si fermano a questo: altri piani emergono già nella lettura attenta alla sola diegesi, per imporsi poi con evidenza (quell’evidenza che invano cerca attraverso i suoi gesti, che vorrebbe plasmatori, l’agente nazista) alla fine, verso nuovi significati scaturenti, più che suggeriti, dalla narrazione che sembra esaurirsi in se stessa in una sorta di gioco innocente. (Anche il gioco è un elemento che torna qua e là nella narrazione, come tema non tra i minori, accanto a quello dell’immaginazione e del suo rapporto con l’astrazione presso gli arabi – in Una sfida... –, che culmina in un’affermazione che potrebbe anche essere indicativa per la nostra lettura: “Via via che l’immaginazione fugge davanti all’astrazione, l’ornamentazione si accumula”).
Non si tratta tanto di livelli metaforici e nemmeno di parabole o apologhi come suggeriscono le pur belle quarte di copertina (a meno che non elimini ogni implicazione di insegnamento per limitarsi alla capacità della narrazione di instaurare un doppio significato), quanto di linee tangenziali che il cerchio conchiuso emette, per pura contiguità narrativa, senza cessare di essere conchiuso: la guerra è la guerra cioè, ma nella guerra stessa, e in ciò che la narrazione vi pone attorno, ci sono gli elementi per altro, lo stimolo verso agganci ulteriori che tuttavia non porteranno ad alcun ancoraggio definitivo.
Per individuare, ancorché schematicamente, almeno uno di questi motivi, si potrebbe leggere ambedue i romanzi come le opposte facce, differenti come sempre lo sono, della stessa medaglia, o come variazioni sullo stesso tema, quello dei rapporti tra razionale e irrazionale e tra ordine e caos, che la guerra da una parte e l’avventura dall’altra già implicano e sono. Temi eterni, che Langendorf sviluppa a partire dalla prospettiva romantica che per molti versi sta alla radice del nostro presente: non a caso il generale von Ligntz vive appunto nel periodo romantico, partecipandovi in prima persona con le sue idee, le sue composizioni letterarie e musicali e le sue amicizie, e ancora di fondo romantico sono la personalità e le aspirazioni del giovane agitatore, con tutte le sfumature che ciò comporta in tempi che con il proprio grigiore ne sono la negazione, anche se appunto per questo con maggior forza vi spingono chi non intende assoggettarvisi (salvo poi scoprire di aver giocato con il proprio un gioco di altri: che cioè il burattinaio è solo un impiegato del teatro).

Lignitz sa che la guerra non conosce regole, come vorrebbero invece i federiciani, perché è il luogo dell’irrazionale e dell’instabile, un “gioco” nel quale più essenziale dell’intelligenza è l’attesa, l’adeguamento alle circostanze, l’azzardo e l’entusiasmo per gli ideali, e non intende forzare il destino perché è impossibile sia sovrastare i tempi che circoscrivere una realtà inafferrabile. L’agente nazista invece cerca un’assoluta indipendenza e la propria affermazione individuale, vuole tracciarsi un destino rettilineo forgiando avvenimenti ai quali non dà la sua adesione solo con il gioco vigile della sua intelligenza dell’intrigo, e nemmeno dice di aderire al nazismo nel quale vede solo lo strumento più adatto ai suoi scopi, tutto preso nel culto della giovinezza che implica l’assoluta padronanza di sé e degli altri, lo “stare sulla cresta fino all’estremo” e il rifiutare “anche la più piccola particella di responsabilità”.
A Lignitz “le azioni interessavano solo quando erano sul punto di compiersi. Quelle già compiute lo annoiavano”; egli infatti “aveva fatto propria la massima del Maresciallo di Sassonia. ‘Meglio partire che riuscire nella vita’”. Il giovane agente cerca invece nell’avventura la coincidenza tra sogno e realtà e lascia l’Occidente in preda al caos, ma dominato dall’ordine della tradizione, per realizzarla nell’Oriente, dove l’immane disordine gli permetterebbe l’imposizione di un ordine tutto suo. Ma le sue suddivisioni sono troppo schematiche: Occidente e Oriente, anziché separabile con il coltello, si intersecano, l’uno domina l’altro, e anche partiti non si è mai abbastanza lontani, così che l’avventura si risolve sinistramente nella trama più ampia di ciò che intendeva fuggire. C’è da chiedersi tuttavia, per finire, se von Lignitz, che pure viene presentato come personaggio positivo (ma non potrebbe essere altrimenti in un elogio funebre), non contenga appunto per questo gli elementi ironici della sua critica, e in fin dei conti se proprio delle sue premesse, o di alcune tra esse, sia il romantico agitatore che il mondo che lo produce non siano la logica conseguenza.

Jean-Jacques Langendorf, Una sfida nel Kurdistan, Adelphi, Milano £ 5.000
                          Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz, ib. £ 3.000