31/05/18

Louis-Ferdinand Céline, I pamphlets (1982) & Robert Poulet, Il mio Céline (1993)





Louis-Ferdinand Céline, I pamphlets
(scritto nel 1982;  magari oggi non scriverei le stesse identiche cose; o quanto meno non allo stesso modo...)

A negare che Louis-Ferdinand Céline sia uno dei più grandi scrittori del nostro secolo non è rimasto più nessuno. Constatazione banale, ma che giova ribadire, soprattutto oggi, dopo che più d’uno si è scandalizzato dell’audacia dell’editore Guanda che, primo al mondo dal tempo della loro pubblicazione, sta riproponendo al pubblico, ottimamente tradotti e curati, i suoi libri maledetti (manca ancora La scuola dei cadaveri, per il momento). Io penso invece che sia scandaloso che nessuno, nemmeno in Francia, ci abbia pensato prima, in un’epoca in cui di autori anche molto meno importanti si pubblicano anche i quaderni di aste dell’asilo.
L’editore si è preso i suoi rischi, anche giudiziari, e se a compenso ha fatto conto su un successo di scandalo, tanto meglio: saranno molti di più a leggere i libri e a discuterne. Senza contare la soddisfazione che si prova nel rilevare che qualche occasione di scandalo, nonostante l’andazzo generale, rimane pur sempre. Tanto non c’è pericolo che Céline diventi uno scrittore di moda, se non per gli inevitabili sciagurati che snobbano tutto quanto oltrepassa i confini della loro combriccola di birichini. I letterati con un minimo di preparazione Céline dovrebbero già esserselo studiato da tempo.
Per tornare ai pamphlets di Céline, è ovvio che presentino problemi, e tanti anche, così che solo enumerarli in una breve segnalazione come questa sarebbe ridicolo. Ancor più suggerirne possibilità di soluzione o di uscita. Sarei stupido e pretenzioso come quelli che in due pagine ti danno la chiave del Finnegans Wake. (Ma io sto esagerando, suppongo.) Del resto ambedue i volumi sono corredati di due ottimi saggi di U. Leonzio e J.P. Richard, e per chi vi fosse interessato, la letteratura su Céline sta diventando così sterminata che sarebbe impossibile che ciascuno non trovasse ciò che fa al caso suo. Ultimo in ordine di apparizione da noi è il libro di J. Kristeva Poteri dell’orrore, tradotto da Spirali Edizioni.
Dice bene Leonzio che la materia di questi pamphlets (il riferimento è soprattutto all’antisemitismo, ma credo possa essere esteso anche agli altri argomenti: la denuncia dello stalinismo, la rivolta contro il potere, l’odio puro e semplice ecc.) “più che ributtante è intrattabile, impermeabile a qualsiasi giudizio che non pretenda di usarla”, tagliando corto con le varie forme di motivazione, spiegazione, giustificazione, accusa ecc. Il suo enunciato è tuttavia bifronte, dato che potrebbe suonare come un’abdicazione di fondo, sebbene valga certamente meglio interpretarlo come un invito ad un impegno.
Non si tratta cioè di rinunciare ad un giudizio di qualsiasi natura che ad ogni buon conto nessuno può evitare di formulare (se a qualcuno interessa il mio, dirò che soprattutto Bagatelle per un massacro – nonostante varie imperfezioni e lungaggini peraltro forse giustificabili nel discorso céliniano ma che comunque ci sono –,  è un grande libro, di tremenda forza, con pagine mirabolanti, descrizioni e resoconti straordinari, una sfrenata invenzione verbale benissimo ricreata dal traduttore Giancarlo Pontiggia, e uno dei repertori più succosi di insulti di tutta la storia della letteratura, sulla scia non a caso di Rabelais) e nemmeno di sminuzzare e tritare l’insieme del testo, come ancora ciascuno fa per i suoi fini personali, quanto ovviamente interpretare i pamphlets, singolarmente presi e nei rapporti non solo reciproci ma anche con i romanzi, per trovarne possibili usi. Ciò che è già una bella avventura. Facciamo conto di aver smarrito ogni istruzione allegata e di essere di fronte ad un potenziale strumento che si tratta di imparare a impugnare, di sperimentare per poterlo conoscere, e magari poi decidere di gettarlo via. Nessuno intonerà geremiadi per eventuali deliri interpretativi e isterie varie.
Certo è difficile leggerli con una certa serenità, dimenticare dove ha portato la violenza antisemita, e per molti aspetti serve tanto poco strologare su chi fosse veramente l’ebreo per Céline e dire con Richard, magari avendo ragione, che l’ebreo per Céline non esiste ed è solo una specie di “meticcio archetipico”, quanto mitigare escludendo responsabilità dirette o risolvere tutto con acrobazie psicologistiche o rigetti sdegnati. D’altronde chi ha mai detto che si deve leggere sempre con serenità o che in letteratura è d’obbligo l’esclusione della morale? Tanto più che Céline stesso, a modo suo (eccome!), un moralista lo è sempre stato, fin dai tempi del Viaggio al termine della notte.
Come sorvolare su qualche forma di approccio morale quando il motivo centrale di questi libri è l’odio? Sempre Leonzio, alla fine del suo saggio, sostiene che “l’odio è la forma più profonda e incomunicabile dell’amore”. Può anche essere, ma io, se fossi l’odio, odierei Leonzio. C’è qualcosa nell’odio che non gli deriva soltanto dall’essere un amore criptico e indicibile. L’odio, e non credo solo per Céline, è una delle più forti ragioni di vita, e di fare letteratura: come al paradosso del mentitore cretese è impossibile sfuggirgli, che lo si ami o lo si odi (a meno che, direbbe qualcuno, non si entri in un altro spazio o in un altro gioco...). La straordinaria (o terribile... o vergognosa...) epigrafe di Mea culpa dice infatti: “C’è ancora qualche motivo di odio che mi manca. Sono sicuro che esiste”. E nel Viaggio il narratore si lamenta che a New York non ci siano portinaie, munifiche dispensatrici “a coloro che sanno prenderlo e riscaldarlo, ben vicino al cuore, dell’odio tuttofare e per niente, abbastanza per far saltare il mondo. A New York ci si trova atrocemente sprovvisti di questo pimento vitale, ben meschino e vivente, irrefutabile, senza il quale lo spirito sprofonda e si condanna a sparlare solo vagamente e a farfugliare pallide calunnie. Niente che morda, ferisca, incida, tormenti, ossessioni, senza portinaia, e venga ad aggiungere con certezza all’odio universale la scintilla dei suoi mille dettagli innegabili”. (Si dovrebbe forse aggiungere che, subito nella pagina successiva, è scritto anche che “bisognerebbe decisamente fermare il mondo per almeno due o tre generazioni se non ci fossero più menzogne da raccontare”.)

Louis-Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, Guanda, Milano, 1981, p. 306 £ 15.000
Id, Mea culpa – La bella rogna, ibid., 1982, p. 200, £ 10.000

 

  
 Robert Poulet, Il mio Céline, ed. Sestante, p. 103, £ 17.000  
 (poi riedito da Elliot edizioni e da Castelvecchi)

  Quando Robert Poulet si reca per la prima volta a Meudon a visitare il vecchio amico che non vedeva da anni, è il 1956. Tornato in Francia da cinque anni dopo le polemiche, il processo per collaborazionismo e l'amnistia, Céline vive isolato, con la compagna Lucette Almanzor, in una villetta sbreccata, circondata da un giardino incolto abitato  da un numero imprecisato di grossi cani e altri animali. Nel frattempo ha pubblicato i due volumi di Féerie pour un autre fois (ora inclusi nel terzo volume delle opere della Pléiade con 500 pagine inedite) e Colloqui con  il professor Y (ed. it. Einaudi) presso Gallimard, che ha anche fatto ristampare i due romanzi d'anteguerra, ma dal pubblico e dalla critica non è venuta altra risposta che quella dell'indifferenza, inequivocabile come una seconda e forse più amara condanna.
   Come scrive l'ottimo traduttore e curatore Massimo Raffaelli, "è un uomo distrutto nel morale e devastato nel fisico, un'ombra solitaria, cenciosa e vacillante", uno scrittore che tutti giudicano finito e che, nonostante i tentativi di risalire la china (si vedano le lettere e le interviste raccolte nel primo e nel settimo dei Cahiers Céline), sembra ormai destinato al dimenticatoio, se si esclude una piccola coorte di fedeli che tuttavia poco o niente riesce a fare per lui. È un uomo dimenticato ma che non dimentica; il silenzio, che ha seguito e perfezionato le vecchie "persecuzioni", ha anzi esacerbato il suo umore di innocente vittima sacrificale degli errori e delle invidie altrui: è un perseguitato che, anche se confessa di sentirsi "un essere indegno", si è confinato in volontario esilio ma è sempre pronto a far esplodere le sue ragioni e a contrattaccare.
   Suo coetaneo, Poulet aveva tutto per essere la miccia di questa esplosione: la sua storia, parallela a quella di Céline sia dal punto di vista letterario e umano (era stato il suo editore, Denoël, a dargli in lettura le bozze del Voyage favorendo così la successiva amicizia), che nelle scelte politiche e nella sorte giudiziaria (anche lui condannato a morte e poi amnistiato), e il suo carattere, aperto e entusiasta, lo rendevano l'interlocutore ideale per spezzare le difese del segregato di Meudon senza farsi scoraggiare o risentirsi davanti agli sbarramenti che questi avrebbe potuto opporgli. È così che sono nati questi "incontri familiari con L.-F. Céline" (come suona il titolo originale) che verranno pubblicati nel 1958, cioè dopo che una famosa intervista a "L'Express" e la pubblicazione di D'un chateau l'autre, primo volume della trilogia tedesca (che sarà riedita da G. Guglielmi nella collana Eianudi-Pléiade  - cfr. "il manifesto" di domenica 16 gennaio) avranno riportato alla ribalta il caso Céline.
   Dopo un inizio titubante, le dighe si aprono e Céline ripercorre le tappe della sua esistenza e della sua opera, ne legge a Poulet dei brani "molto lentamente, staccando bene le singole parole, mettendoci più solennità ed autocompiacimento di quanto non si crederebbe." Parla del suo lavoro quotidiano di scrittura, alla fine del quale, come dice Lucette, "ha il sangue alla testa, le mani che tremano, le gambe barcollanti, da far paura." Se la prende ovviamente con tutti i romanzieri, da Balzac a Proust, che "hanno idee politiche, rispettano il potere costituito, amano tanto la mamma." Racconta la genesi del Voyage, torna a spiegare anche a Poulet, che è convinto della "completa buona fede delle spiegazioni", che i suoi famigerati libelli più che antisemiti erano diretti contro la guerra imminente, non teorie ma "frutto della collera e della paura" (sul problema dello studio dei libelli si veda quanto dice R. Tettamanzi nel numero di gennaio di "Magazine littéraire", interamente dedicato a Céline, dove si troverà anche una rassegna dei testi celiniani, degli studi e delle biografie più recenti o di prossima pubblicazione in quest'anno del centenario).
    Col passare degli incontri Poulet si eclissa sempre di più e si limita, senza inventare nulla ("non un verbo, un dettaglio; lo giuro"), a riportare i discorsi dello scrittore nella loro cadenza magmatica e ripetitiva, furiosa e ilare.  Il suo è un "Céline stilizzato", ma fedele, fedele almeno alle emozioni che suscita in un interlocutore che non esita a considerarlo non solo il più grande scrittore francese da Rabelais in qua, ma in tutto e per tutto un "eroe", l'anticonformista per eccellenza, "un anarchico [che] ha orrore delle ideologie e dei luoghi comuni." Poulet insomma, trascinato dalla sua simpatia e dalla sua ammirazione, finisce per accettare tutto quanto esce dalla bocca di Céline (anche le imprecisioni oggettive che tuttavia Raffaelli opportunamente rettifica nelle note), e per identificare acriticamente, con un candore che suscita tenerezza, l'immagine romanzata che Céline offre di sé con la realtà incontestabile.
   Ma, accanto a certe uscite memorabili dell'autore di Morte a credito, è forse questo l'aspetto più interessante del libro: la costruzione del mito Céline, in primo luogo, forse, per Céline stesso. È come se col tempo quelle che potevano essere boutades, depistaggi, sovrapposizioni di caratteristiche dei personaggi a quelle dell'autore, e anche delle meschine difese, siano doventate verità in cui il primo a credere è proprio il loro inventore. Ma più probabilmente è Céline stesso che gioca a confondere le acque e a far perdere le tracce nell'indistinguibilità del dato romanzesco con quello biografico, che del resto contrassegna tutto il suo percorso sia artistico che esistenziale. Da causa o occasione, il dato biografico si trasforma in effetto dell'opera, che a sua volta incide sulle vicende della vita e sulla persona in modi che di nuovo incideranno e verranno trasformati dalla pagina scritta, e così via. Tra le molte trappole in cui sarà rimasto preso, e nonostante l'affermazione e talvolta l'esibizione di una totale indipendenza, quella tesagli dalla sua stessa opera sarà per Céline la meno districabile e la definitiva. È il destino di molti scrittori, sognato talvolta da quelli che se ne sentono esclusi come un difetto di vita che sarebbe anche difetto d'opera, ma spesso subito come una condanna da coloro vi si sono trovati invischiati pur essendone gli artefici. Ed è la trappola in cui spesso cade anche il lettore di Céline che, sospeso tra l'amore per i suoi grandi romanzi e l'orrore oggettivo delle sue scelte politiche, quali che fossero le motivazioni soggettive, oscilla tra emozioni e giudizi opposti cercando di far quadrare conti che non quadrano mai, se non con razionalizzazioni semplicistiche, talvolta le stesse in cui cadeva Céline ogni volta che il desiderio di spiegare prevaleva sulla volontà, e le capacità, di capire.




                                                   


                                                   

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