07/05/18

Jean-Jacques Langendorf, Una sfida nel Kurdistan - & - Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz (28-08-1983)




In un diario che va dal 23 settembre al 24 dicembre 1941, un giovane agente segreto tedesco, teorico dell’intrigo e dell’agitazione e animato da una grande volontà di potenza, narra le vicende della sua missione in Medioriente per attirare le tribù curde, ariane e ostili tanto agli arabi che agli inglesi, sotto l’influenza nazista. Viaggia nel deserto, soggiorna in squallidi paesini, prende contatti, uccide un agente inglese, fa saltare un ponte, ma proprio quando le sue ambizioni stanno per realizzarsi e il suo senso di indipendenza è massimo, la missione è sospesa ed egli, richiamato in patri, viene inviato a Parigi con mansioni di cui non gli importa nulla.
Il 30 novembre 1821, un cappellano militare pronuncia l’elogio funebre di un immaginario generale prussiano, amante della musica e della letteratura, che per primo ha avuto il merito di capire i grandi mutamenti intervenuti nella guerra con la Rivoluzione francese e Napoleone, e di abbozzarne la nuova metafisica. Il cappellano ne ripercorre la vita, gli incontri con grandi personaggi storici e di fantasia (Clausewitz, Napoleone, Goethe, Hoffman, il Bezuchov di Guerra e pace...) e i contrasti con le alte sfere dell’esercito prussiano ancora legate alla vecchia concezione, astrattamente razionale e meccanica oltre che disumana, di Federico II, fino al trionfo delle sue idee, diventate uno dei cardini della rinascita germanica.
Questi, in succinto, gli argomenti di Una sfida nel Kurdistan e di Elogio funebre del generale August-Wilhelm vob Lignitz, due brevi romanzi pubblicati in francese ne 1969 e nel 1973 dal quarantacinquenne ginevrino Jean-Jacques Langendorf, che ora Maurizio Andolfato ha tradotto per Adelphi.

Langendorf è uno studioso di Clausewitz e del pensiero militare prussiano, sul quale sta preparando da anni una monografia, ed è persino troppo ovvio che attorno alla guerra, alla sua concezione e ai suoi episodi, ruotino i suoi romanzi. È noto però che delle cose troppo ovvie è meglio dubitare. Non conoscendo i risultati dei suoi studi, è impossibile specificare influenze o relazioni, tuttavia dalla lettura dei suoi romanzi appare evidente che la guerra, la guerriglia e l’intrico, sono solo i riflessi visibili di altri fuochi assenti, anche se una delle numerose qualità di questi libri, forse la maggiore, consiste nella perfetta corporeità di questi riflessi. Si tratta cioè di testi dall’apparenza felicemente anacronistica e dotati di una leggibilità quasi dimenticata, con personaggi a tutto tondo, una psicologia meticolosa, situazioni esemplari e una trama coerente e compiuta, scritti in una prosa limpida e accurata, e pur ricca di tessere poetiche sottili del tutto amalgamate alla narrazione, ma, anche se già basterebbe, non si fermano a questo: altri piani emergono già nella lettura attenta alla sola diegesi, per imporsi poi con evidenza (quell’evidenza che invano cerca attraverso i suoi gesti, che vorrebbe plasmatori, l’agente nazista) alla fine, verso nuovi significati scaturenti, più che suggeriti, dalla narrazione che sembra esaurirsi in se stessa in una sorta di gioco innocente. (Anche il gioco è un elemento che torna qua e là nella narrazione, come tema non tra i minori, accanto a quello dell’immaginazione e del suo rapporto con l’astrazione presso gli arabi – in Una sfida... –, che culmina in un’affermazione che potrebbe anche essere indicativa per la nostra lettura: “Via via che l’immaginazione fugge davanti all’astrazione, l’ornamentazione si accumula”).
Non si tratta tanto di livelli metaforici e nemmeno di parabole o apologhi come suggeriscono le pur belle quarte di copertina (a meno che non elimini ogni implicazione di insegnamento per limitarsi alla capacità della narrazione di instaurare un doppio significato), quanto di linee tangenziali che il cerchio conchiuso emette, per pura contiguità narrativa, senza cessare di essere conchiuso: la guerra è la guerra cioè, ma nella guerra stessa, e in ciò che la narrazione vi pone attorno, ci sono gli elementi per altro, lo stimolo verso agganci ulteriori che tuttavia non porteranno ad alcun ancoraggio definitivo.
Per individuare, ancorché schematicamente, almeno uno di questi motivi, si potrebbe leggere ambedue i romanzi come le opposte facce, differenti come sempre lo sono, della stessa medaglia, o come variazioni sullo stesso tema, quello dei rapporti tra razionale e irrazionale e tra ordine e caos, che la guerra da una parte e l’avventura dall’altra già implicano e sono. Temi eterni, che Langendorf sviluppa a partire dalla prospettiva romantica che per molti versi sta alla radice del nostro presente: non a caso il generale von Ligntz vive appunto nel periodo romantico, partecipandovi in prima persona con le sue idee, le sue composizioni letterarie e musicali e le sue amicizie, e ancora di fondo romantico sono la personalità e le aspirazioni del giovane agitatore, con tutte le sfumature che ciò comporta in tempi che con il proprio grigiore ne sono la negazione, anche se appunto per questo con maggior forza vi spingono chi non intende assoggettarvisi (salvo poi scoprire di aver giocato con il proprio un gioco di altri: che cioè il burattinaio è solo un impiegato del teatro).

Lignitz sa che la guerra non conosce regole, come vorrebbero invece i federiciani, perché è il luogo dell’irrazionale e dell’instabile, un “gioco” nel quale più essenziale dell’intelligenza è l’attesa, l’adeguamento alle circostanze, l’azzardo e l’entusiasmo per gli ideali, e non intende forzare il destino perché è impossibile sia sovrastare i tempi che circoscrivere una realtà inafferrabile. L’agente nazista invece cerca un’assoluta indipendenza e la propria affermazione individuale, vuole tracciarsi un destino rettilineo forgiando avvenimenti ai quali non dà la sua adesione solo con il gioco vigile della sua intelligenza dell’intrigo, e nemmeno dice di aderire al nazismo nel quale vede solo lo strumento più adatto ai suoi scopi, tutto preso nel culto della giovinezza che implica l’assoluta padronanza di sé e degli altri, lo “stare sulla cresta fino all’estremo” e il rifiutare “anche la più piccola particella di responsabilità”.
A Lignitz “le azioni interessavano solo quando erano sul punto di compiersi. Quelle già compiute lo annoiavano”; egli infatti “aveva fatto propria la massima del Maresciallo di Sassonia. ‘Meglio partire che riuscire nella vita’”. Il giovane agente cerca invece nell’avventura la coincidenza tra sogno e realtà e lascia l’Occidente in preda al caos, ma dominato dall’ordine della tradizione, per realizzarla nell’Oriente, dove l’immane disordine gli permetterebbe l’imposizione di un ordine tutto suo. Ma le sue suddivisioni sono troppo schematiche: Occidente e Oriente, anziché separabile con il coltello, si intersecano, l’uno domina l’altro, e anche partiti non si è mai abbastanza lontani, così che l’avventura si risolve sinistramente nella trama più ampia di ciò che intendeva fuggire. C’è da chiedersi tuttavia, per finire, se von Lignitz, che pure viene presentato come personaggio positivo (ma non potrebbe essere altrimenti in un elogio funebre), non contenga appunto per questo gli elementi ironici della sua critica, e in fin dei conti se proprio delle sue premesse, o di alcune tra esse, sia il romantico agitatore che il mondo che lo produce non siano la logica conseguenza.

Jean-Jacques Langendorf, Una sfida nel Kurdistan, Adelphi, Milano £ 5.000
                          Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz, ib. £ 3.000


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