27/04/18

Dino Garrone, Prose scelte (ed Sestante, 1993)



È bello poter parlare di un libro come questo, che non solo è la testimonianza della fedeltà alla memoria di un uomo morto giovane e che in vita non aveva pubblicato nemmeno un libro, una memoria che continua a rinnovarsi propagandosi, senza clamori ma tenace, da coloro che lo avevano conosciuto e amato ai loro amici e da questi ai propri e così via, ma permette anche a un pubblico più ampio di conoscere un’opera finora nota quasi ai soli specialisti. Altrimenti il nome di Dino Garrone, nato a Novara nel 1904 e morto di setticemia a Parigi nel 1931, avrebbe corso il rischio di confondersi tra i tanti citati più o meno di sfuggita nei capitoli che le storie letterarie dedicano alle riviste minori e regionali del ventennio fascista.
Dai frammenti citati nella sua intensa introduzione dal curatore di queste Prose scelte, Francesco Scarabicchi, e in un saggio posto da Luigi Russo in appendice a La critica italiana contemporanea, sarebbe anzi auspicabile anche una riedizione delle Lettere, pubblicate per la prima volta nel 1938 a cura di Berto Ricci e Romano Bilenchi, che ha poi parlato di Garrone anche nel suo libro Amici.
La figura che risulta anche da queste testimonianze è tanto interessante da obbligare quasi ad una lettura bifocale di queste prose, sovrapponendo alla sorpresa e agli stimoli che esse suscitano, l’inutile gioco del vagheggiamento di come avrebbe potuto evolvere un’opera già valida di per sé. Ma, per quanto comprensibile, sarebbe un errore, perché, oltre a distogliere da esse l’attenzione che meritano, quando la morte lo colse, la parabola di Garrone era in qualche modo già compiuta, e non tanto perché la morte proietta sempre retrospettivamente una forma compiuta sulla vita che interrompe, quanto perché Garrone stesso sembrava aver prefigurato nei propri testi, quando non desiderato, questa conclusione che a noi appare prematura.
Lo si vede  sia da numerosi passaggi delle sue lettere, sia soprattutto dal ricorrere di fantasie apocalittiche in molte delle sue prose, tanto che sono proprio esse a fornire loro il tono dominante che permea anche gli altri motivi ricorrenti, quelli del viaggio (qui i treni, le macchine della Mille miglia, le navi della gente marchigiana; nella sua vita il sogno di viaggi lontani e la realizzazione della traversata su un cutter dell’Adriatico in tempesta, oltre che l’emigrazione a Parigi alla ricerca di un ampliamento dei propri orizzonti culturali e esistenziali) e della patria, che non ha niente dell’oratoria fascista e rileva invece di un radicamento ad una terra e ai segni, di carattere e moralità, che essa imprime in chi la abita e che niente potrà mai cancellare.
Questo senso di una fine sempre imminente non contrasta con quella che il Russo chiamò una “ritardata avidità romantica” di vita, ricca di “gusto veloce e bruciato, di esperienze e avventure molteplici, generosamente indistinte”, pur nella consapevolezza che “la vita è uno sbatter di teste, è un patimento oscuro infinito, è un bere l’acqua nera.”
E allo stesso modo questa consapevolezza non smorza, e al contrario esalta impulsi ideali che se lo indussero a partecipare alla vita del suo tempo (basti pensare all’adesione entusiastica al fascismo, mai rinnegata  neppure quando onestà e rigore intellettuale lo avevano portato su posizioni critiche e osteggiate dalle gerarchie) secondo istanze di “verità” “coraggio” e “purezza” che se ai nostri orecchi mandano un suono fesso e dubbioso, nondimeno per lui si manifestarono come assenza di piccinerie e compromessi e soprattutto in un inflessibile impegno nei confronti della scrittura, inteso all’obbiettivo precipuo di “dipanare la propria musica”.
Le prose e i racconti di questo libro sono, di questo impegno, l’effetto e la testimonianza anche quando non del tutto compiuti sono i risultati, quando cioè spuntano debiti non ancora risolti con aspetti della letteratura che altri suoi contemporanei si erano già lasciati alle spalle, come una certa propensione per la prosa d’arte e per l’abbozzo di “caratteri” e certa vena popolareggiante patetica. Ma non qui va cercato Garrone; come scrive Scarabicchi, Garrone va “individuato dove la parola è essenziale, dove il referto aderisce alle cose, dove la nominazione si infittisce (...) e dove l’ascolto (...) si fa “stile e “sostanza” opponendosi alla grammatica calligrafata, alla “maniera”, alla verosimiglianza, all’imitazione”. E soprattutto va cercato nell’espressione tesa della “coscienza senza sonno” (B. Ricci) di “un uomo e di uno scrittore, “nomade e dissipato” (Russo) quanto accorto e sorvegliato sulla pagina tenuta al morso del talento”.

Dino Garrone, Prose scelte, ed. Sestante, p. 155, £ 17.000



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