06/04/18

Le ombre di Barthes. Un divertimento (I parte)


Ho letto Le plaisir du texte in una piccola libreria di Rue Cujas nel febbraio del 1974. Non male come inizio. Ero a Parigi da due o tre settimane, per preparare la tesi. C’ero arrivato senza prenotazioni e senza conoscere nessuno. Avevo solo l’indirizzo dell’amica di un’amica, che sono andato a cercare appena sceso dal treno per farmi dare qualche suggerimento, o forse per non sentirmi sperduto. Ma non credo: ero spavaldo, allora, e non sentivo il bisogno di raccattare umanità. Era domenica mattina, abbastanza presto probabilmente per gli standard metropolitani, e il quartiere dove abitava la ragazza era deserto. L’unica persona che c’era in giro, la prima che ho visto per le strade di Parigi, la stazione e il metrò non contano, è stato un clochard che frugava in una poubelle. L’incontro con la capitale dei miei sogni è stato un cliché. Mi sono sorpreso: che la realtà imiti la finzione, per me era solo una vaghezza teorica, allora. Ho riaggiustato la visuale immediatamente. Del resto Parigi per me non era mai stata altro che un luogo immaginario. E tale è rimasta, nonostante il tempo in cui ci ho vissuto e le volte che ci sono tornato. Certi quartieri li conoscevo così bene che davo indicazioni ai turisti. Una soddisfazione! Mi accontento di poco, io. C’ho una morale ascetica, in fondo. Di un ascetismo tenue, vago, per niente atletico. Sempre ascetismo, comunque. O così mi piace pensare. Non so perché racconto queste cose. Alcune le ho già scritte e odio ripetermi quando scrivo. Quando parlo è un altro paio di maniche: ma anche allora, per quanto cambi l’interlocutore, ad ogni ripetizione mi ritrovo umiliato. Eppure mi ripeto. Sarà che sto invecchiando? Sia quel che sia, la letteratura che indulge alla memoria non mi piace lo stesso. Va be’, avanti. Concediamoci questa debolezza. Non imparerò mai a essere indulgente con me stesso. Non è il caso di vantarsene, comunque. Per tirare un’ora decente sono entrato in un bar a prendere un caffelatte con un croissant. Prima delusione. Il croissant era caldo ma non buono. Unto, molle, elastico come un chewing-gum. Il caffelatte già me lo aspettavo schifoso, e quindi l’ho bevuto con piacere. C’era le tele accesa, e parlavano, ricordo, del Loto. Non sapevo cosa fosse e l’ho guardata per un po’ senza ascoltare. Che razza di trasmissioni fanno alla domenica mattina in Francia! Nel frattempo ho fumato la seconda Gitanes maïs che mi ero affrettato a comprare in un bar della stazione dove avevo trangugiato un primo caffelatte, dopo la notte in treno senza viveri e bibite. Ho anche sfogliato un giornale. Quando mi sono deciso a suonare alla porta della ragazza c’era un po’ più di gente per strada, saranno state le dieci e mezza, tardissimo per le mie abitudini, ma alla porta è comparso un tizio in pigiama, tutto assonnato, che mi ha guardato con la faccia stranita. Una figura uguale uguale l’avevo già fatta qualche anno prima alla porta di Ugo Carrega. Non mi è servita a niente, a quanto pare. Va detto che allora erano le 8 e mezza! Il giovanotto in pigiama era il compagno della ragazza. Quasi subito è arrivata anche lei, pure in pigiama, e mi hanno invitato a fare colazione con loro. Praticamente era la terza, ma ho accettato per non essere scortese. Già ero in imbarazzo per i pigiami! Quasi quasi toglievo dalla valigia il mio. Volevo limitarmi a un altro caffè. Abbastanza buono questo. Per la contentezza mi sono preso anche una fetta di pane con la marmellata. Il pane era fresco. Come poteva essere fresco se erano ancora a letto? Un mistero. L’avevano comprato all’alba, prima di rientrate a casa? Lo spediscono per posta pneumatica? La ragazza mi ha dato alcune indicazioni che non mi sono servite a nulla e mi ha invitato a tornare a trovarli, o lì, o alla libreria che il suo compagno, un libanese druso, gestiva assieme a un bretone nel quartiere latino. Mi sono arrangiato per conto mio e sono stato un paio di settimane da solo, senza parlare con nessuno, a studiare, a girare la città e i musei e a andare al cinema. Quando ho deciso che era ora di parlare con qualcuno sono andato alla libreria. C’era solo il libanese, un bel ragazzo, gentile, che mi ha invitato a sedere da qualche parte in attesa che la ragazza arrivasse. Lei non era granché, invece. Come dice mia moglie, i bei ragazzi stanno quasi sempre con racchie. Io non sono d’accordo. E’ lei che vede racchie dappertutto. Io no. Io le racchie non le vedo proprio. Forse non ce ne sono. Forse c’è solo carne. Carne in attesa. Ho scordato i nomi di entrambi. Ho spulciato gli scaffali e quando mi è capitato in mano il libretto di Barthes ho cominciato a sfogliarlo, poi mi sono seduto in un angolino vicino alla stufa, come da piccolo con i fumetti nell’officina di mio papà, e l’ho letto tutto. Nelle pause scambiavo qualche parola con il libanese. Tra l’altro mi ha parlato della sua intenzione di tornare in patria, dove la situazione stava peggiorando e una guerra era più che probabile. Davvero? Più che probabile: inevitabile! Non ero molto al corrente. Una guerra! Esattamente quello che è avvenuto. Le guerre avvengono. I verbi mentono. I verbi? Che dire degli aggettivi allora? Mi è tornato in mente, lui, non quando la guerra civile è effettivamente esplosa, ma al ritorno dei miei genitori dalla loro prima crociera, per le nozze d’argento, quando mi hanno raccontato che la loro nave è stata l’ultima a approdare a Beirut proprio a causa del conflitto. Come si distende la sintassi, appena scatta la memoria! Ci dev’essere qualcosa, nel ricordare, che lo esige. A meno che non sia il contrario. La sintassi che presiede al ricordare! Che lo scioglie e costringe. Un nodo! Un groppo. Un’armatura! E allora via, tagliare! Spezzare. Se possibile. La zona turistica era ancora sicura però, hanno detto. Ho tremato per la loro incolumità retrospettivamente. Loro invece si erano divertiti e hanno sempre ricordato Beirut come una città bellissima e piena di vita. Allegra. Solo quello e nient’altro. Lo erano anche loro, a quei tempi. Felici, erano. La loro prima crociera! Il primo vero lusso, la prima vacanza senza figli. Ancora giovani e sani. Mi viene un tuffo al cuore a pensarci. Amen. Così, bellissima e piena di vita, sembra che sia tornata, la città, con tutto quello che è successo poi. Quella guerra e altre e tutto il resto. Sarà vero? Riuscirà a durare? Riusciranno a dimenticare? Chi è lontano lo ha già fatto. D’altronde anch’io ricordo solo scemenze.
 
 
Tornando a Barthes, sarà stato il posto, il momento, la circostanza che per la prima volta leggevo in tutta calma in una libreria senza che nessuno avesse da ridire, il calduccio, l’impaginazione e i caratteri, la carta, tutta roba che conta!, boh, fatto sta che Le plaisir du texte è stato una rivelazione. Avevo letto altri suoi libri, in italiano prevalentemente, già dal liceo. Ricordo Miti d’oggi pappato tutto in classe, durante le lezioni, e poco dopo Il grado zero, entrambi in edizione Lerici mi pare, e mentre il primo non mi aveva molto colpito, ovviamente perché ero troppo acerbo, dal secondo avevo imparato molto di più, anche se a proposito di scrittura avevo un altro riferimento, Derrida, sul quale avevo già deciso di fare la tesi ancora prima di iscrivermi all’università. Anche cose come queste avvengono. Le fissazioni che si hanno a quell’età! Bizzarre. Marchiate a fuoco! Poi restano solo le cicatrici. Il marchio. Vero cuoio. O magari no. In fondo, ma restano. Non le smuove più niente e nessuno. Accipicchia! Per cui Barthes mi sembrava sorpassato. I riferimenti orientano e accecano. Cercavo solo ciò che volevo trovare, o gli immediati paraggi. Solo ciò che mi importava, che mi premeva già prima cioè. Il resto quasi non lo vedevo, a parte quando leggevo poesia e narrativa. Un po’ come Barthes guardava le fotografie. Così è stato anche per gli Elementi di semiologia, che però devo aver letto all’università. Un ripasso, mi è sembrato. Nessun’altra traccia, se non che ero d’accordo sulla tesi di fondo. Bontà mia. Tutti i linguaggi in subordine e relazione a quello verbale, e così il loro studio. Ben detto! Anche queste sono cose che ti segnano. Vizi d’origine. La radice! Marcita quella, marcisce tutto il resto. Op!, e sei fregato per sempre. E così è stato per me. Pazienza. Mi ha fregato ben altro, poi. Di nuovo pazienza. Per Kafka, se non sbaglio, la pazienza è la virtù più grande. Per altri no. Io mi sono ritrovato a esercitarla tutta la vita. Ma con che risultati non saprei. E’ una citazione di Ornella Vanoni. Ci mancava anche questa! Ancora pazienza.
Ma io non dovevo scrivere di Barthes? Non importa. Avanti. Le plaisir du texte è stato la rivelazione di ciò che già sapevo, ma era bello sentirselo confermare in modo così autorevole e convincente. Ciò che già praticavo e credevo di sapere. Potenza degli equivoci! Ciò che ho creduto di sapere già, mentre leggevo quel libro. Qualcosa che autorizzava le mie debolezze. Non cerco altro. La debolezza, il piacere, di leggere tutto quello che mi andava e come mi andava. L’ho detto che era una fregatura. Borges d’altronde sosteneva di essere più orgoglioso dei libri che aveva letto che di quelli che aveva scritto. E bravo Borges! Però lui di libri ne ha scritti di niente male. E’ stato più o meno ai tempi di Miti d’oggi che ho letto Finzioni per la prima volta. Quella sì che è stata una vera rivelazione! La moda di Borges non era ancora esplosa. Che colpo è stato! Un diretto allo stomaco! Di quelli così forti che capisci subito, anche se sei un ragazzo, che devi tenertene alla larga. Pericolo di morte! Come con Kafka e Beckett. Leggere tutto ma non imitare! La civetteria è insopportabile negli uomini, anche in quelli grandi. Nelle donne dipende. Dipende se la sfoggiano per me, o in generale. Se per me, non mi disturba affatto. Ma può essere incantevole anche vista da lontano. O da molto vicino, o da lontano, tertium non datur. In entrambi i casi in modo esclusivo però. In un caso perché ne sono il destinatario, o il bersaglio, nell’altro perché non lo sono. Dovrei stare zitto, perché io per primo mi affanno a affascinare, quando posso. Le contraddizioni della vita. Resta una debolezza. Tuttavia, quando il giochetto mi riesce, vedo che gli altri sono contenti. Allora non è del tutto male, forse. Perché la debolezza diventa la loro. Niente scuse però. Resta anche mia. Vaffanculo.
A volte penso che l’educazione cattolica mi abbia fatto anche bene. Poi passa. C’è questo miscuglio di indulgenza e intransigenza che ritrovo, spesso, anche in Barthes. Intransigente nel suo lavoro e, immagino, grandemente indulgente con coloro che amava. Come potrebbe essere altrimenti? E tuttavia bisognerebbe essere intransigenti anche con loro. Io mi amo? Non ne sono sicuro, a giudicare dall’intransigenza che ho nei miei confronti. Vuol dire che non me lo merito. Gli altri li amo anche senza merito, di solito. L’amore è gratis. Mi piace amare. Con me no, invece. Sarò un cretino! Ma anche l’intransigenza ce l’ho tenue, vaga. Mi fa difetto l’accanimento. Per uno che si occupa di certe cose, è grave. La perseveranza non basta. Barthes invece questo accanimento l’aveva. Secondo me però gli faceva difetto l’abbandono. Secondo me, si abbandonava solo nel privato. E non tanto nemmeno lì. Nel privato più privato, diciamo. Ma in modo molto garbato. Per cenni impercettibili, con dolcezza rattenuta, che capiva solo chi poteva capire. Chi era come lui. Con quella reticenza discreta che ritrovo anche nei suoi scritti quando si avvicina a ciò che veramente importa. Toh, come il sottoscritto e sua mamma. Cribbio, sono proprio in vena di confessioni! Basta però. Per ora. Barthes aveva questo accanimento, questo metodo. Gli dicevano: scrivi di questo, e lui zac!, lo faceva. Scriveva solo su ordinazione, pare. Ma di cose che lo interessavano, sia chiaro. Poteva permetterselo. Se l’era guadagnato. Scrivere su ordinazione, o su invito di amici è una buona cosa. Così uno si costringe a parlare anche quando crede di non avere niente da dire. E’ quasi un verso di Eluard. E magari non ce l’ha sul serio. Se non che, scrivendo, qualcosa ti viene prima o poi. E impari quello che ti importa sul serio. Magari ci vuole tempo, ma se non sei del tutto stupido, prima o poi lo impari. Barthes secondo me l’ha imparato tardi. Non perché era stupido, ma perché non lo era abbastanza. Perché era troppo intelligente e ci teneva a esserlo. Anch’io voglio sempre essere intelligente, ma non essendolo molto, o quanto meno non nella misura in cui vorrei, come Dio per esempio, mi ammanto spesso di stupidità. Me ne incappuccio, direbbero i maligni. Dico e scrivo stupidaggini. Come qui? Non mi importa. Una volta mi sarebbe importato, ora non più. Credo che sia una delle grandi conquiste della mia vita. Un po’ tardiva, ma ce l’ho fatta. Champagne per tutti!
Per esempio: un’altra volta che ricordo quando ho letto Barthes, è stato fuori dalla Fondazione Corrente, a Milano. C’era stato un convegno su di lui a Reggio Emilia credo, a Reggio Emilia i convegni sono di casa, c’hanno la fissa lì, e qualcuno mi aveva procurato i fascicoletti stampati per l’occasione. Erano quattro o cinque, semplici, di colore diverso, tonalità pastello. Belli. Mi sono messo a leggerne uno lì fuori, sul marciapiede. Era da tanto che non lo leggevo. Non era un critico fondamentale, per me. O così era diventato nella mia testa, nel tempo in cui non lo avevo più letto. Avevo appena tenuto una delle mie primissime conferenze, chiamiamole così. Ero insieme eccitato, euforico e, come mi capita spesso, un po’ deluso, con il dubbio di essere stato superficiale, di avere mancato l’essenziale. Forse l’essenziale lo manchi sempre. O forse ti delude quando lo cogli, proprio perché si è lasciato cogliere. Perché allora scopri che non era poi così essenziale. O che un essenziale c’è. Fatto sta che stavo scivolando in una leggera depressione. Omne animal! Avevo in mano i libretti, li ho sfogliati distrattamente e ho cominciato a leggiucchiare quello con gli inediti. Mi sono appoggiato al muro e ho continuato. La depressione incombente è volata subito via. Grazie Barthes! Sempre Borges diceva, grossomodo, che a un vero lettore basta una pagina per dimenticare tutto, problemi preoccupazioni umiliazioni e delusioni, tutta l’enciclopedia del dolore. Non sempre è stato così per me. Molto spesso sì, però. Quasi sempre. Ergo non sono un vero lettore. Sono un lettore quasi vero. Quella volta sì. Ma forse perché la depressione era solo all’inizio. Robetta. Fatto sta che leggere Barthes mi ha fatto bene. Certo, vi vedevo confermato il mio dubbio di avere mancato l’essenziale anche quella volta, ma non mi pesava, prevaleva la gioia di leggere e la leggerezza che ti dà il piacere di ammirare. Ho invertito i sostantivi apposta. Di ammirare senza invidia e riserve. Ogni tanto veniva qualcuno a farmi dei complimenti, e contrariamente al solito non andavo a immaginare sottintesi o cortesie di maniera. Li guardavo semplicemente, come faccio sempre, con sorpresa e gratitudine. Il sospetto, però, dopo poco o tanto affiora sempre. Quella volta dopo tanto, e leggero leggero. E’ la cultura in cui sono nato. La bruma dell’infanzia. Pussa via! Non sono mai sicuro di niente. Uno deve dirmelo chiaro e tondo che mi ama. E non basta. Deve dimostrarmelo, buttarsi dal ponte per me. Poi lo trattengo prima che ci provi davvero. Lo afferro al volo e gli dico, ma sei scemo? Se ci riesco. Se no sono guai. Questo ha qualcosa che non va, mi dico, se mi fa i complimenti per davvero. Non può essere serio. E’ una mezza calzetta, non c’è altra spiegazione. Però mi fanno piacere, i complimenti e chi me li fa. Senza inorgoglirmi più di tanto. Lui resta una mezza calzetta comunque. Un brav’uomo, ma mezza calzetta. Più o meno come me. 


Ecco come funziono io! C’ho un superego davvero super. Ci fossero concorsi, li vincerebbe tutti a mani basse. Lui. Le olimpiadi, vincerebbe! E’ ora il turno della categoria superego, fuori i concorrenti! Tatàaa!!! Ci prende gusto a torturarmi. A mazzolarmi! E’ l’altro lato dell’educazione cattolica. Tutta colpa del mio papà. Una vacanzina ogni tanto, no eh? Sempre al lavoro. Infaticabile! Indistruttibile. Inespugnabile. Proprio come il mio papà, appunto. Chissà se gli ho voluto davvero bene. Ma sì, credo proprio di sì. Ma credo di averlo dimostrato solo quando lui ha mostrato la sua debolezza. Che era mortale. Sarò un cane! Quando si portava in giro la sua morte e io non potevo fare altro che stare con lui. Con lui che mi cercava. Fargli compagnia. Parlare. Ascoltarlo senza riserve né benevolenza. Essere lì e basta. Era contento, allora. E anch’io. Per favore niente commenti insulsi. L’ho sempre amato, ma senza manifestazioni eclatanti. Niente effusioni! Le parole tenere vietate. I gesti pure. Non ci sfioravamo nemmeno. Come con mia mamma del resto. E così loro. Non ce n’era bisogno. C’erano. Erano lì entrambi, per me e i miei fratelli. Erano sempre lì. Mio papà anche quando non c’era. Era al lavoro, ma c’era. E tanto bastava. Non mi chiedevo niente. Non avevo dubbi. Mi amavano e basta. E io loro. Morti, ora. Li amo ancora.
Suo papà, Barthes non l’ha conosciuto. Lui avrebbe detto: mio padre. Per me, padre e madre sono parole che non ho mai usato parlando dei miei genitori. Mamma e papà, e basta. Vorrà dire qualcosa. Fa niente. E anche mamma e papà li usavo solo quando li chiamavo. Mia mamma spesso, mio papà quasi mai. Li penso solo in dialetto. Papà resta uguale. Mè papà. Mamma no: in dialetto suona “mè mama”. Me m’ama. Me, mi ama. Con un raddoppiamento rafforzativo. Ama me. E’ mia e mi ama. Come sono possessivo! Forse avevo bisogno di convincermene. Non si è mai sicuri di essere amati. Anche quando si sa di esserlo. Ma basta un calo di tensione, un istante, e op! ti invade il dubbio. E’ che non lo meriti. Pensi di non meritarlo. E ci sono anche gli altri. Accidenti a loro! Lo so che si può amare più di una persona contemporaneamente. Una mamma lo può. E’ la mamma. Ovvio. Lo so, eppure nessuno riuscirà mai a convincermi del tutto. Ama un altro perché non le basto. Non le basto perché non merito tutto il suo amore. E’ così semplice! Secondo me Barthes questi dubbi li aveva. Cavoli, sua mamma aveva lui, il marito si era tolto di mezzo subito. Lo si poteva onorare  in absentia. Che è il modo migliore. Amarlo perché non era tra i piedi. Troppo bello! E lei cosa ti combina? Va a cercarsi un altro uomo. Che per fortuna tra i piedi non ci viene. Ma che le lascia un ricordino. Un altro figlio! Che poi si dovrà anche amare, per giunta. Come mamma, lei, e come fratello, lui. Amare il guastatore! E’ il colmo! Eppure lo si ama. Perché è lì. C’è. Quanto mi piacciono questi schematismi! Torniamo alle parole. Anche l’ordine di pronuncia è significativo: mamma e papà; padre e madre. Se qualche volta ho usato padre e madre in qualche conversazione è stato per debolezza, per adattarmi a consuetudini altrui. Per debolezza o gentilezza. Ci sta anche questa. E’ bello essere gentili. A me, credo mi venga facilmente. E ne vado fiero. Anche se mi è capitato di usarle, sono parole che non mi appartengono. Non appartengono alla mia sfera privata cioè. Le sento come un indizio di estraneità, come una forma di distacco o di formalismo che non ho mai vissuto con i miei. Il rispetto è un’altra cosa. Ci può essere rispetto anche nella più grande intesa. Come con mia mamma. Ridevamo sempre.
Ecco, un’altra cosa che non riesco a immaginare di Barthes è la sua risata. Secondo me non rideva mai. O poco poco, comunque. Ironico sì. Sorridente pure. Malinconico di preferenza, però. Di quelli che ogni tanto si infiammano. Che si arrabbiano di brutto, anche. Riesco a immaginarlo, perso nei suoi pensieri, che sbotta all’improvviso e fa una scenata o se ne esce con un’osservazione che ti brucia. O magari no. Troppo fine per queste cose. Solo il veleno verbale. Ma pare che si arrabbiasse davvero, ogni tanto. Avrà avuto le sue buone ragioni. Ragioni che magari lasciavano gli altri di stucco. Cose che per lui erano importanti e per gli altri no. Per superficialità, approssimazione. Perché gli interessava chiacchierare più che le cose dette. La gente fa così. Lui no. Ecco cosa succede a essere troppo intelligenti! Ironia sì, risata no. Mi sono fatto quest’idea. Da quello che ho letto, naturalmente. Per certi aspetti è un pregio. Ma io, questo difetto preferisco averlo. A ciascuno i suoi. Per me, uno non può amare davvero la letteratura se non sa ridere. Se uno non sa ridere e dice di amare la letteratura, è perché questa gli serve ad altro. Kafka rideva. Scommetto che rideva anche Beckett. Secondo me, pur con quelle facce così affilate, consunte, quando lui e Giacometti si incontravano si facevano delle grasse risate. Non me lo toglie dalla testa nessuno. Anche quando scriveva, secondo me Beckett rideva. Come capita a me, fatte salve le proporzioni. Lui è meglio come scrittore, ma forse io rido di più. Non è detto però. Anzi, rideva di più lui. Kafka rideva anche quando leggeva. Mi inchino profondamente. Barthes non me lo vedo che ride, tanto meno mentre scrive. Qualche sorrisetto sotto i baffi, al massimo. Tra sé e sé. E chi vuole intendere intenda. Non vuole essere filosofo, ma profondo sì. Profondamente serio. Mi piace per questo. L’attrazione degli opposti. Non che io non voglia essere, qualche volta, profondo. E’ che non ci riesco. Però riesco a vederlo sereno, Barthes. Sereno! Vuoi mettere? Mica poco! Io lo sono stato fino all’adolescenza. Alla tarda adolescenza. Ero un po’ lento. Sereno stabile! Anche dopo lo sono stato. Per lungo tempo, ma non più stabile. Come per un effetto di deriva. Per il capitale che avevo accumulato prima. Abbastanza cospicuo però. Non mi lamento. Ogni tanto mi capita ancora. Sono i doni della grazia. Ti arriva la grazia non si sa da dove, e tu, grato, la accogli. E la consumi. Tanto quella è infinita, e prima o poi ritorna. E se non ritorna, è già bello che sia passata di qui. Grazie grazia!


2 commenti:

  1. Bel ritratto di Roland Barthes, la fortuna di averlo scoperto da giovanissimo. Io molto più tardi. Leggerlo poi vicino a una stufa in una piccola libreria o in piedi a Reggio Emilia...anche a me capita di passare anche più di un'ora in libreria, leggendo un libro che poi compro.

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