31/01/21

Vladimir Nabokov, Intransigenze

Il gioco dell’intervista consiste in una serie di convenzioni: sincerità (anche quando si scherza, viene sempre il momento di “parlare sul serio”); immediatezza (l’intervistatore deve essere capare di “forzare la mano”, di indurre a tradirsi anche il più reticente e dissimulatore degli intervistati: altrimenti perché avrebbe assentito all’incontro?); aneddotica autobiografica che implica narcisismo da una parte e curiosità dall’altra; normalizzazione pur nell’aura dell’ammirazione (anche la persona più bizzarra e autorevole rivela debolezze, piccole manie: diventa “come noi”); risparmio di tempo e fatica connesso alla semplificazione e alla spiegazione, ecc.

Chi rilascia interviste in genere lo sa e sta al gioco, pur non ignorando che già per il fatto di concederle si mette in una posizione di debolezza: vuole dire qualcosa, farsi conoscere meglio, spiegarsi, farsi finalmente capire al di là di ogni equivoco; vuole insomma esibire la versione autorizzata, l’unica corretta, di se stesso e del proprio lavoro. Più che per ciò che di interessante comunicano, è per questo che le interviste piacciono tanto: giustificano le debolezze di chi le legge mediante quelle di chi le concede, inchiodano a terra chi si vuole innalzare e abbassano chi è troppo comodamente innalzato. Ma è anche per questo che possono diventare delle armi sottili e degli schermi illusori nelle mani dei mistificatori più abili.

Come mistificatore Nabokov aveva pochi rivali. Lo si può notare anche da questo libro che, sebbene contenga anche lettere a direttori e articoli letterari e entomologici, è composto in gran parte da interviste rilasciate dopo 1960, quando ormai il grande successo di Lolita aveva portato una notorietà dalla quale lo scrittore poteva finalmente, dopo decenni di precarietà, trarre i numerosi vantaggi, non solo economici, ma che lo esponeva anche ad attenzioni e fraintendimenti che la sua riservatezza da una parte e la consapevolezza del proprio valore dall’altra lo costringevano a rintuzzare. Come dunque aveva fatto con la letteratura, così ha cercato di fare con l’intervista: destruttura il genere, moltiplica gli specchi e gli artifici, finge di concedersi alle convenzioni per sovvertirle, toglie con la stessa mano che concede, come un prestigiatore. Ma il rischio di lasciarci qualche dito sussiste. Tutto sembra svolgersi normalmente, solo che manca il presupposto principale: il faccia a faccia dell’intervistato con l’intervistatore. Ogni intervista infatti consisteva in risposte rigorosamente scritte (come lo erano tutte le sue lezioni universitarie: cfr. per esempio Lezioni di letteratura, Garzanti, 1982), e da riportare esattamente fino all’ultima virgola, a quelle tra le domande inviate dal giornalista di turno che lo scrittore decideva insindacabilmente di volere, bontà sua, scegliere. La motivazione addotta era già un falso: “Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino” (con quella che sembrerebbe una criptocitazione parodica e paradossale di Paolo ai Corinzi), quando era nota la sua grande verve di conversatore e freddurista. Altrettanto ambiguo, quanto ambizioso, era l’obiettivo: dare all’intervista la “forma ideale” di un “saggio suddiviso più o meno elegantemente in paragrafi”. Ma un saggio a sua volta come liberato dalle convenzioni del rigore: una specie di spazio divagatorio, dove alternare citazione, analisi, polemica, provocazioni, giudizi sommari (per i quali Nabokov aveva un debole, come a indicare, di converso, la propria grandezza, di cui era consapevole e che certo non dissimulava) lanciati a destra e manca con grande divertimento, anche del lettore, ma che in più di un caso ritornano come un boomerang su chi li ha espressi.

Così, gli aspetti più interessanti e piacevoli di questo libro sono anche quelli dove meglio si evidenziano i difetti: una meticolosità che in più di un caso sconfina nella pignoleria, quando non nella meschinità; il gusto della polemica contro gli errori e le approssimazioni altrui che rivela le proprie; l’understatement troppo insistito che rivela il suo fondo di snobismo; le precisazioni che, mentre aiutano la lettura dei romanzi con la loro ricchezza di spunti, denotano la volontà di indirizzarla in un’unica direzione, legittimata dall’autore, e così via. Insomma, un libro molto più rivelatore su Nabokov di quanto fosse nei suoi preventivi, tanto più sfuggente quanto più voleva tenerlo sotto controllo, ma coi vantaggi che una grande intelligenza comunque finisce per dispensare e col divertimento, spesso irresistibile, ma anche la tenerezza e la poesia che caratterizzano tutta la sua opera.

 1994

V. Nabokov, Intransigenze, Trad. di Gaspare Bona, Adelphi, 1994, pagg. 396, £. 40.000

 


 

25/01/21

Cristo catalano


      


C'è questo Cristo di scuola catalana che così, staccato dalla croce, sembra un danzatore che ringrazia dopo l'esibizione, fermo sull'ultimo passo. Ogni traccia di dramma cancellata, le stimmate e le ferite sono come lavate, ridotte a segni. E' elegante, ma non lezioso. I lunghi capelli sulle spalle, la barba e i baffetti curati, le sopracciglia arcuate dalla linea perfetta, la testa appena piegata di lato, le braccia aperte come se stesse per inchinarsi per ringraziare gli spettatori, il genere umano che gli ha dato modo di sacrificarsi per redimerlo, capovolgendo i termini come solo chi è superiore sa fare con naturalezza. Ancora concentrato, eppure già sereno, già altrove.

 

 


19/01/21

Vergogna

Non è mai stato molto intelligente. Certo, non è colpa sua, eppure si vergogna ad ammetterlo. Da bambino, siccome era piuttosto sveglio e vivace, tutti pensavano che lo fosse, invece. Tanti, dai parenti agli amici agli insegnanti, e in tanti modi glielo avevano ripetuto, che aveva finito per convincersene anche lui: gli sfuggiva la fragilità del nesso, e forse gli andava anche bene, sotto sotto. E’ vero che ci sono delle persone molto intelligenti che da piccole erano delle zizzanie come lui, ma è altrettanto vero che nei bambini una grande intelligenza può accompagnarsi ad atteggiamenti che rilevano di una certa ottusità e frignoneria. Magari per timidezza, chi lo sa? Introversi. Precocemente segnati da esperienze amare quanto fruttifere in prospettiva futura. Alchimie spesso riscontrabili anche negli adulti, del resto. La vita è bella perché è varia. Ma ci sono persone vitali quanto cretine, se è per questo. Non sembrerebbe il suo caso, comunque.

La sua vivacità si manifestava nell’afferrare al volo le cose e nel raggiungere in breve tempo un’apprezzabile capacità di manipolazione, una versatilità e un’abilità che non mancavano di stupire, in un bambino: bastava che qualcosa lo stimolasse perché lui vi si gettasse a capofitto, senza perdere con ciò le sue precedenti acquisizioni, che ritornavano intatte allorché se ne presentasse l’occasione e la necessità, anche se difficilmente riusciva ad integrare organicamente le nuove con le vecchie, come se ciascuna vivesse separatamente.

Ma nessuno faceva caso a questa deficienza, lui meno di tutti. Poca concorrenza, attenzione e metri di giudizio instabili, benevolenza diffusa, non contribuivano che a meglio illustrare le sue successive prestazioni, confermando la sua eccellenza e spingendolo a prove sempre differenti e sempre brillantemente, ma allo stesso modo, superate. Si rammarica solo di essersi fermato, così crede ed è inutile non credergli, a quel livello. Anche adesso coglie al volo molte cose e altrettante ne sa fare abbastanza bene, e gli è rimasta un’apparenza di vitalità che lo spinge ad affrontarne molte. Il suo cruccio è che tutto si infranga contro il limite dell’”abbastanza bene”.

E’ quasi insuperabile nel cogliere le superfici, ma questo è anche il suo più grave difetto. Di capire veramente non è capace. E nemmeno di darlo a vedere. Fingere è un’astuzia troppo superiore alle sue forze. Capita sì che, siccome cambia spesso, di capire dia l’impressione, ma è per l’appunto un’impressione che si fanno gli altri: lui, quanto a sé, è rigorosamente vero, sempre. E così ancora oggi alcuni persistono nel giudicarlo molto intelligente, le prime volte che lo incontrano. Se lo frequentano più a lungo però, prima o poi fatalmente si accorgono dell’abbaglio. A meno che non siano ancora più stupidi di lui, come pure capita. Ragion per cui ha una tendenza imperiosa, quasi una coazione, a legare esclusivamente con quest’ultima categoria. Gli altri non li frequenta più dopo le prime volte: gli piace lasciare di sé il miglior ricordo. Per delicatezza. O altrimenti fa in modo di incontrarli sempre dopo lunghi intervalli, onde permettere alla buona impressione di sedimentare e che vengano dimenticate invece le basi fragilissime su cui era fondata. Allora dà una spolveratina al suo lustro, piccolo o grande che sia, senza correre inutili rischi, e per un po’ torna a dileguare. Non è bello, né per lui né per loro, che lo prendano per un idiota, moralmente ed esteticamente parlando. Anche loro, che figura farebbero se scoprissero di aver commesso un errore tanto madornale?

Ovviamente soffre a vivere sempre in mezzo a dei perfetti cretini solo perché qualcosa in lui esige una posizione di dominio, rifiutandosi di vederlo sistematicamente soccombere o servire. Ineliminabile atra dell’infanzia, l’abitudine ad essere il capo, così facile in cerchie ristrette e limitate come quella in cui è cresciuto lui! Poi, maturando, le occasioni per ricredersi abbondano addirittura, ma sempre qualcosa, in fondo, si ribella al cedimento definitivo, seppur non corroborato dalla benché minima carica aggressiva. Nel suo ottimismo lui spera che proprio questa possa rivelarsi la sua via verso la saggezza. Ma non si illude.

Del resto la tentazione di comandare è molto forte: basta averla assaggiata anche una sola volta per restarne intossicati per sempre. Altro che comodità dell’asservimento! Ci piace dipendere in tutto e per tutto dalla mamma solo in quanto siamo assolutamente certi che è lei ad obbedire in tutto e per tutto al nostro volere. Sei disposto a servire qualche volta solo se sei tu a decidere quando e come, e se puoi comandare il resto del tempo, così hai la sicurezza di comandare anche quando servi. Servi allora, inoltre, persino volentieri: sfuggi alla presunta cattiva coscienza del despota. Anche i despoti hanno una coscienza, è d’uopo attribuirgliela; e come potrebbe non essere cattiva, d’altronde, dal momento che è una coscienza?

L’astinenza dalle compagnie geniali e dalle frequentazioni intellettualmente stimolanti, tuttavia, alla lunga riesce un po’ frustrante. Così col tempo ha escogitato un semplicissimo sistema rotatorio che gli assicura una certa costanza negli incontri, ma sempre con gente differente.

Il numero di persone degne di frequentazione non è alto purtroppo, ma basta fare una scaletta tenendo conto delle date, e assiduità e ripetizioni non si sovrapporranno. Ci sono due pericoli tuttavia, di natura uno oggettiva l’altro soggettiva. Il primo si verificherebbe se, durante i reciproci incontri tra i suoi interlocutori, il discorso venisse a cadere su di lui: si accorgerebbero, confrontando ricordi e opinioni, che si ripete e non oltrepassa mai la soglia della pura suggestione momentanea. Ma non è un vero pericolo a ben guardare, perché lui fa sempre in modo, quando porge o parla, di ritrarsi o di far pensare, come difatti è in ogni caso, che le sue parole sono suggerite dalle loro o da quanto essi fanno o hanno fatto. E’ inoltre raro che nelle conversazioni si oltrepassi quella soglia, e quindi è difficile farci caso, tanto più se vitalità e varietà nella ripetizione vengono a giustificare le interruzioni. E poi perché quegli importanti personaggi dovrebbero occuparsi proprio di lui, quando ciascuno può benissimo, con un tasso ben superiore di soddisfazione e di utilità, riferirsi a sé e agli interlocutori del momento?

Più preoccupante invece il secondo pericolo, specie in quanto consustanziale alla sua persona, che anzi ne dipende come da un principio trascendente: il suo spirito mimetico cioè. Non tanto per la tendenza a identificarsi con qualsiasi persona oggetto o situazione, quanto soprattutto perché lui stesso riconosce di essere solo in e attraverso queste successive identificazioni. Ha riconosciuto cioè che tutti i cambiamenti e gli entusiasmi cui va soggetto non dipendono da qualche sua voracità o desiderio di estendere le proprie capacità e cognizioni, ma che al contrario è lui, nella sua identità, a dipendere totalmente da essi. Ecco la ragione di tutti gli interessi e di tutte le successive prove di abilità che lo hanno caratterizzato fin da bambino: la versatilità non era l’espressione delle sue qualità, ma una necessità costitutiva. E difatti niente è mai stato scelto da lui o lo ha coinvolto in un’interessenza profonda, e sempre egli ha colto solo, e bene, la superficie: solo essa ha sempre visto e lo concerne. Al di sotto e al di là non c’è per lui, lui non è niente. Colta, la superficie è come esaurita, non è più, e quindi non è più nemmeno lui.

E’ come se egli fosse ridotto ad un grande occhio e basta, o ad uno specchio, tutto definito da una dimensione visiva: balbetta al telefono e gli piace la pittura. Per sua fortuna c’è sempre qualcosa di diverso che gli si offre, o una diversa superficie che magari è ancora la stessa cosa di prima, ma non per lui che non distingue la diversità di prospettiva e non afferra le relazioni. Tutto procede secondo una legge di pura contiguità che non conduce ad accumulazione né a condensazioni, e scivola da un’impeccabile evidenza all’altra in un treno né casuale né causale. Senza nessi né misteri. Se ci sono articolazioni o rapporti deducibili lui non li coglie, e lo stesso mutamento di oggetto lo sfiora soltanto allorché il nuovo gli si impone e i predecessori gli sono diventati assolutamente estranei. Non li può richiamare, come da piccolo, secondo l’occasione o la necessità, sia perché troppi ne sono succeduti nel tempo, sia perché, ora, è il cambiamento stesso a costituire l’unica occasione e necessità. E’ come se non fossero mai stati, ormai: l’uno ha allontanato l’altro per sempre, nomenclatura di personaggi che hanno nel nome la sola testimonianza, in una lingua per il resto indecifrata. Pensa ed esiste, lui, solo in presenza. Ecco perché di quegli interlocutori e dei loro sostituti ha un sempre rinnovato bisogno.

Va da sé che ha bisogno anche della sua cerchia abituale: in quanto tale, ogni superficie è buona. Alcune però, il criterio è puramente quantitativo, durano decisamente poco e suscitano reazioni scarnificate, troppo lisce, omogenee, limitate… Né egli dubita che possano celare insospettate ricchezze, oltre la porta stretta della loro apparenza, solo che il passaggio a lui non è noto. E concede pure che coloro che reputa geniali lo siano solo di facciata; vale però lo stesso discorso. Per non sbagliarsi si attiene all’attrazione che subisce e ai valori socialmente riconosciuti, specialmente quando si presentano nuovi oggetti. Ma se fortunatamente il mondo è vario, non è però infinito, almeno quello a sua disposizione. Di qui la necessità di sostituti e di aggiunte.

Questo potrebbe spiegare, per esempio, la sua passione per la lettura, la coazione, anzi, a passare da un libro all’altro senza soluzione di continuità. Anche se, quando legge, avviene spesso che non legga: guarda se stesso leggere, come prodotto della lettura, e non fa troppo caso a ciò che gli occhi scorrono. Naturale che non capisca, che slitti sulla comprensione, sbigottito a fissare il proprio sbigottimento. Ovvero capisce quel che legge, ma solo quello: leggere è ciò che lo avvicina di più al pensiero, ma non può pensare finchè legge, esattamente come non può una volta che di leggere ha terminato. E così continua a non capire. Quando ha finito di leggere può solamente dire: ho letto. In certi casi aggiunge, in perfetta incoscienza: bello!, o tira un sospiro: anche questo è andato, posso cominciare altro. Ma ‘altro’ che cosa? Ancora leggere: la ricerca della catatonia. Per poco forse, ma almeno quella la raggiunge, talvolta: sospeso, bloccato, escluso da tutto, impedito a qualsiasi parola o movimento, eppure sicuro che quello è il massimo di vita consentitogli. Non che lui lo sappia, prima durante e dopo; ma perché compulsivamente ricercarla altrimenti? Una sicurezza inspiegabile quando non c’è, indiscutibile quando c’è.

Finisce sempre, quando legge così come in ogni cosa che fa in solitudine, che tutto ciò che gli sta di fronte determini e si identifichi con ciò che gli passa per la testa, e che ciò che gli passa per la testa, altro non serva che a fornirgli un’immagine di sé, per quanto provvisoria. Ad attività terminata, egli resta solo con la propria immagine più recente, che si limita a seguire, impotente, nel suo inarrestabile svanire: pura constatazione che l’impotenza si sforza per chissà quale deriva di rivestire di sembianze razionali e causali a loro volta puramente sintattiche, così che il tenore stesso della constatazione si fa sempre più remissivo e incolore, fèsso e senza oggetto, perché lui è l’oggetto, impassibile e senza soggetto perché lui è il soggetto.

Può solo, per ovviare, contrapporre alla propria immagine che scompare, un’altra già scomparsa, che ne occupa provvisoriamente il luogo in mancanza di una nuova che niente e nessuno è in grado di fornirgli al momento. Immagine naturalmente incerta e sfumata, evocata dalla mancanza e affiorante per pura differenza, dato che il puro vuoto se da un canto è la realtà, dall’altro non può ammettere che lo si riconosca, pena la definitiva scomparsa di tutti i sostituti nei quali solamente trova sussistenza, ma immagine nella quale soltanto si sprigiona per lui una scintilla di emozione. L’emozione è nel passaggio.

Principio di alternanza e di contrapposizione laterale, la nuova immagine sorge più facilmente in compagnia, tuttavia per ondate mimetiche. E’ la contrapposizione stessa delle identificazioni materiali e momentanee che lo soccorre allora, e lo rinvigorisce innescando talvolta persino uno scatto di aggressività, l’impulso prelibato alla polemica. Una cosa nasce dall’altra: allitterazioni; si appoggia sull’altra e vi si contrappone, poiché nessuna vive di forza propria: negazioni, antitesi, paralogismi se è il caso. La polemica presupponendo una forte identificazione, si comprende che lui la prediliga: gli sembra di vivere con maggiore intensità. Si rammarica solo che sia tanto rara: sempre quelle scipite rivendicazioni indirette, le invidie taciturne, gli sfoghi domestici!

Quando si manifesta però, fosse pure in sordina, lui vi si getta a corpo morto, la raccoglie, la coccola e la cresce con tutto il suo amore: diventa allora accesa, spumeggiante, addirittura virulenta, estrema, subdola o sfacciata a seconda dei casi, pronta ad usare qualsiasi arma, lecita o meno, come appunto conviene che ogni sana polemica sia. Quanto evanescente tuttavia! Tutto dipende da dove si trova e con chi.

L’aggressività non origina mai da lui; e come potrebbe? Va in un posto, vede gente e aspetta. E’ gentile, mansueto, potrebbe facilmente sembrare saggio nel suo distacco, a uno sprovveduto, o la vittima designata, allo smaliziato. La verità è che lui ancora non sa chi è né in che modo verrà ad essere. Ma se appena l’atmosfera si turba, le voci si alzano e le posizioni si irrigidiscono, prende il via anche la sua mutazione, verso il crescendo e poi il fortissimo.

Caricata la pila, è impossibile fermarlo: diventa settario, intransigente, assoluto. Un vero leader, per un po’. Nemmeno lui riesce più a controllarsi, tanto che in più di un’occasione si è spinto fino a causar disagio anche in coloro stessi che difendeva o per i quali parteggiava. Non che non se ne rendesse conto, ne era dispiaciuto anzi, ma più forte di lui era la sicurezza di sapersi da qualche parte. Gli altri però, quando si vedono imitati, rifiutano inorriditi la sua totale assimilazione e, pur evitando di cedere ai vecchi avversari, si distolgono dall’oggetto su cui convergevano le loro opposte idee e le di lui imitazioni e tutti insieme gli si rivolgono contro, lo aggrediscono da ogni lato, costringendolo a combattere su tutti i fronti. Lui allora difende a oltranza l’oggetto, cioè il loro desiderio che è diventato suo, e si fa tanto più aggressivo quanto più gli altri ripetono che in fondo ‘non è niente’.

Poi, col passare del tempo, tende ad assumere tutte le posizioni contemporaneamente nella loro versione più vigorosa, quella negativa cioè, che meglio evidenzia le pecche di ogni antagonista, e finisce col disprezzarli tutti con la stessa forza. Quando è finita, naturalmente si vergogna di se stessa e delle altre, che ha contribuito a smantellare e dalle quali è stata smantellata, e lui stesso diventa, è la Vergogna.

E’ la vergogna che gli mostra quanto inconsistenti fossero le sue prese di posizione, tanto più marcata quanto più accese quelle, diventando vergogna degli spazi vuoti tra ognuna di esse. E lui stesso si sente svanire come non mai, si nega fino alle radici della propria inconsistenza, e negandosi si riconosce e si afferma, mentre fluttua in quelle intercapedini nelle quali trova infine una dimora.

 

(da Cosa dicono i morti, metà anni '80 circa)

 

 


12/01/21

Bello come l'assenza di paragoni - Un progetto di mostra (1990)



Prima di tutto, non una parola di spiegazione (e tanto basti a proposito di “arte e politica” e di “politica dell’arte”).

Allargare il mercato a ciò che non esiste, altro che ridimensionarlo o negarlo: guadagnare col niente, le pure intenzioni, notoriamente di costo zero, senza lasciare neppure dei resti.

Ridurli al minimo, per lo meno: per economia di spazio, per delicatezza.

Alla galleria, centrale, si accede direttamente dal marciapiede sempre affollato, attraverso una porticina che si apre verso l’esterno, ricacciando indietro per un momento il visitatore a intralciare le traiettorie dei passanti, che credevano di essersi liberati di lui e ora lo guardano un po’ scocciati come se l’avesse fatto apposta. D’altronde come saperlo?

Oltre la soglia, illuminato da un tubo di neon che percorre tutto il soffitto, c’è un corridoio largo un metro e lungo quattro, o cinque, a seconda della versione adottata per l’opera da esporvi o dei ripensamenti dell’ultima ora, che è comunque consigliabile evitare: per rispettare il progetto, intoccabile una volta licenziato; per serietà.

Se si fa qualcosa, fosse per la prima e l’ultima volta, occorre farla bene, da professionista consumato: di tener conto dello spazio e della galleria, quindi, non se ne parla nemmeno. Se bisogna rifare i muri si rifanno, o si ricoprono con pannelli.

I pannelli però devono essere dipinti come i muri e arrivare fino al soffitto: non vanno riconosciuti come tali.

Lungo i muri del corridoio (i muri veri, o quelli finti dipinti da muri veri), si fronteggiano, tutti della stessa grandezza (cm 70 x 100), alla stessa distanza di 30 cm e con la stessa cornice (o anche senza; anzi: senza è meglio), prima due coppie di specchi (o una, nella versione più spartana e meno patetica, che adotterò tuttavia, perché che ci sia un tocco di patetico, con o – meglio – senza ironia, proprio per la sua lieve nota stonata, mi piace, da vero snob), poi una coppia di tele e infine un’altra di specchi. Sul primo specchio di destra, al centro esatto, scritto nei caratteri Pica comuni a tutti i testi della mostra, neri in questo caso e alti 10 cm, c’è il sostantivo: “NIENTE”; su quello di fronte, il sintagma: “CHE SI RIFLETTE”. Il “si” è scritto in corsivo e le linee sono tracciate con qualche approssimazione; non di mia mano, ovviamente (non mi riuscirebbe di fare qualcosa di approssimativo neanche a volerlo).

In basso sul secondo specchio di destra è incollata una foto qualsiasi di me bambino (quella col pagliacceo magari, che ho già utilizzato al liceo per la copertina del giornale studentesco: una citazione che nessuno potrà riconoscere); su quello di fronte, nella stessa posizione, un’altra foto mia, ancora da bambino, ma di due anni più vecchia, oppure niente (in questo caso ci sarà una foto per terra, voltata sul dorso, incollata al pavimento in modo che non possa essere raccolta, anche se un angolo spiegazzato inviterà qualcuno a tentare di farlo, strappandola con conseguente mortificazione mista a stizza repressa: la foto verrà ogni volta sostituita e reincollata allo stesso modo.  (Questa idea della foto incollata per terra potrei utilizzarla comunque).

Poi ci sono due tele bianche con le stesse scritte nere (o viceversa, come un negativo) della prima coppia di specchi, e infine l’ultima coppia di specchi senza scritte né foto (già mi ci vedo, che controllo il nodo della cravatta e ravvivo i capelli, evitando di fare smorfie solo perché non visto, o che spio le reazioni dei visitatori: per niente divertenti).

Superata questa prova il visitatore, che vorrebbe tornare indietro ma non può, perché altri, in fila indiana, premono alle sue spalle, accede all’unico locale della galleria, un quadrato di m 5x5, miserello per la verità, se paragonato alla lunghezza del corridoio. Ahimè, il locale è quasi vuoto e ai muri c’è appeso poco o niente. I muri, oltretutto, non sono veri, ma pannelli, muri finti, dipinti da muri veri però, o muri veri, non si capisce, ma dipinti da pannelli dipinti in modo da sembrare muri veri.

Bianchi, come bianche, cioè vuote, sono le due (semi) pareti ortogonali al corridoio (anche se pensare a quel vuoto un po’ mi fa male).

Sulla parete di sinistra invece sono affiancate, a dieci centimetri l’una dall’altra, due tele bianche. Quella di sinistra è della stessa misura degli specchi e porta scritto al centro, sempre a carattere Pica, lo rammento, alti10 cm, ma stavolta bianchi, della stessa tonalità dei muri o pannelli che dir si voglia (non è il caso di sottilizzare), l’aggettivo qualificativo: “BELLO”; su quella di destra sono allineate, sempre in bianco ma alte la metà (per necessità di impaginazione?), le parole: “COME L’ASSENZA DI PARAGONI”. Questa seconda tela è alta come la prima ma larga il doppio, così che il dittico assomma alla misura, a mio parere davvero ragguardevole, di m 1 x 1,40.

La parete di destra, che sembra ribadire il vuoto delle prime due, a ben guardare presenta due file di quattro fogli per macchina da scrivere formato A4, del tipo extra strong, appese una quasi raso terra, a 20 cm, dal pavimento, l’altra a 20 cm dal soffitto. Sui fogli in basso, scritta in corpo 10, con qualche sforzo si può leggere una frase così segmentata: “Ciò che stai leggendo”, “è diverso”, “da ciò che è scritto” e “SOPRA”; su quelli in alto invece: “Ciò che stai leggendo”, “è diverso”, “da ciò che è scritto” e “SOTTO”.

(Queste minuscole parole, come tutte quelle della mostra, sembrano scritte a macchina o utilizzando lettere adesive già pronte, mentre in realtà sono il frutto del paziente e abilissimo lavoro di contraffazione di qualcuno versato in simili performances che non mi sarà difficile reclutare da qualche parte.)

Sulla parete di fondo infine spicca un trittico di tele bianche della misura di cm 70x30 ciascuna, disposte l’una sopra l’altra alla distanza di 5 cm. Procedendo dall’alto verso il basso, scritte in nero e alte10 cm, incontriamo le seguenti, perentorie, asserzioni: “LO POSSO FARE”, “LO SO FARE” e, da ultimo, “NON VOGLIO FARLO”.

Invece di uno solo tuttavia, la parete potrebbe essere ricoperta di quanti trittici il gallerista ritiene opportuno, con le tele e le parole dei colori più diversi, purché la forma delle parole rimanga inalterata. È possibile usare anche tele sagomate, se il gallerista pensa che siano facilmente smerciabili: tanto non è importante.

Del resto il gallerista può chiedermi tutto ciò che vuole, dal momento che, quand’anche ne trovassi uno disponibile, io non ho nessuna intenzione di realizzare questo progetto: ciò che intendo fare, infatti, non è una mostra, ma venderne l’intenzione a qualcuno che mi paghi per non realizzarla. Alla Banca di Oklahoma per esempio, con la quale sono già in contatto.



 

 

 

 

                           

 

 

 

 

 

                           

08/01/21

Primo Levi. Necessità (da Riga 13, 1997)

 


 Sul treno che lo riporta a Torino dopo il lungo periplo iniziato mesi prima a Auschwitz, Levi sente il bisogno irreprimibile di raccontare a chiunque incontri l’enormità degli orrori che ha vissuto e visto. Bisogno naturalissimo, che poi lo spingerà a scrivere di questa esperienza tornandoci a più riprese fino al termine della sua vita, che avrà infine diviso tra il duplice mestiere di chimico e di scrittore. Eppure il bisogno di raccontare non è poi così naturale: i casi di coloro che hanno scelto il silenzio sono ben più numerosi; e ancor meno naturale è che questo bisogno abbia fatto di chi lo provava uno scrittore per il resto della sua esistenza. In rapporto alla natura della tragedia vissuta, tra gli scampati ai lager nazisti sono pochi coloro che lo sono diventati. Alcuni lo erano già; pochissimi lo sono diventati dopo. Levi è tra questi, anche se qualcosa aveva già scritto prima della deportazione (ma poteva trattarsi benissimo di prove giovanili che magari non avrebbero avuto seguito, come a molti è capitato e capita; e comunque non è questo che importa: importa ciò che il lungo dopo proietta sull’inizio, e anche su ciò che prima dell’inizio c’era stato: e all’inizio c’è Se questo è un uomo). E poi Levi è diventato scrittore a tutto campo, e in particolare romanziere, non si è limitato a portare testimonianza. Come mai? Come mai proprio romanziere (e non storico, memorialista, saggista o politico)? Eppure non aveva iniziato con questo proposito. All’inizio c’era solo il bisogno di far partecipi gli altri di ciò che aveva vissuto, di farlo conoscere a tutti, di non lasciare che venisse dimenticato o rimosso. Io credo che sia proprio in relazione a ciò di cui voleva parlare e a ciò che aveva bisogno di dirne che la narrazione (il romanzo e il racconto, con tutto il carico di finzione che comportano) è stata per lui una necessità, indispensabile alle verità che doveva arrivare a comunicare, che era già da subito qualcosa di più della pur importante verità dei fatti.

Non sussistendo infatti quello del “cosa dire”, il problema che subito si presenta a Levi è quello del “come dirlo”, e subito Levi si accorge che non si tratta tanto di scegliere tra tanti modi o forme, ma che proprio lì si mette in gioco ciò che per lui è essenziale. Per lui fin dall’inizio (e a me sembra poi fino all’ultimo dei suoi testi), il problema non è quindi solo “come parlare di ciò che non è stato (mai, ancora) detto”, come capita, in diversa misura, ad ogni scrittore, ma anche, e soprattutto, “come parlare di ciò che non può essere detto”, inteso nel duplice senso del divieto (perché è vietato, perché non sarà creduto, perché provoca reazioni angosciose e tocca corde troppo sensibili che quindi sarebbe meglio lasciare dove e come sono, e che andrebbero anzi protette, isolate, per non innescare processi troppo dolorosi, specie se affrontati in pubblico, che finirebbero per infrangere un equilibrio troppo delicato, il cui precario raggiungimento è costato compromessi, razionalizzazioni e sensi di colpa dolorosissimi già di per sé), e dell’indicibile (di ciò che, alla lettera, si sottrae a ogni dire, perché non esistono parole che possano dirlo, e a ogni pensiero, impensato e impensabile, perché la sua pensabilità, a cose fatte, è talmente legata alla logica che le ha prodotte che sarebbe solo un altro modo di riprodurle). Impossibilità che però si scontra con quella, opposta, del non poter non dire, che è insieme necessità di portare testimonianza dell’indicibile e di capire l’incomprensibile.

È un problema che, sorto per Se questo è un uomo, si ripresenta ad ogni nuovo libro di Levi, sia che lo riprenda sia che cerchi di allontanarsene; in ogni caso è sempre lì; un problema non tanto di veridicità e credibilità di una testimonianza che corrisponda ai fatti, ma di definizione dei fatti stessi in relazione ad una esperienza che deve ora, nelle parole, essere quanto più possibile completa quando è proprio il suo parziale rifiuto che ha reso possibile che ora se ne possa parlare, in quanto farne esperienza “allora” sarebbe stato insostenibile: chi l’ha fatta (i mussulmani, i sommersi) ne è stato infatti la prima vittima, vi è sprofondato e nessuna testimonianza può ora recare, da una parte; mentre dall’altra chi può ora recarla, o si è costruito una barriera tale da permettergli, allora, di sopravvivere (specie di insensibilità da cui deriva, anche, il senso di colpa) o ne è rimasto, di poco o di tanto, ai margini (in quelli che a lui sembrano i “veri” margini, per quanto abissale sia stata la sua stessa condizione: altra fonte di colpa, derivante da un presunto, ma non per questo vissuto come meno reale, privilegio; e il dovere di portare testimonianza è anche un modo di riparare a questa “colpa”, come a far dimenticare che lui è sopravvissuto mentre tantissimi altri sono morti, che lui è sopravvissuto vedendoli morire, nonostante che li abbia visti morire, e morire “al suo posto”).

È quindi un problema che è insieme di “cosa” e di “come”, e che, se a Levi sembra nascere in relazione al “cosa” (Auschwitz), immediatamente si scontra con l’essenzialità del “come” (linguaggio, forme), e come tale si sposta, restando centrale, in ogni suo libro. Per affrontarlo bisogna farsi, già da subito, scrittore: l’enormità stessa di ciò di cui si vuole parlare rende insufficiente la parola “referenziale”; pretendere di dire le cose “come sono state” si rivela subito impossibile; il linguaggio oggettivo, analitico e descrittivo, quello che a Levi verrebbe, per urgenza e formazione, più spontaneo adottare, tradisce immediatamente il suo deficit sostanziale, e quindi inutilizzabile, perché inaffidabile, parziale, tanto più menzognero quanto più si pretende veritiero e diretto. Se non che per Levi è altrettanto impossibile rinunciarvi del tutto (questo linguaggio lo protegge, “garantisce” la sua parola), e quindi si rende necessaria una deviazione, la sua subordinazione, più o meno mascherata, a una logica in apparenza opposta, quella della narrazione con tutto il suo carico di finzione (ovviamente non delle singole cose che vengono dette, ma della loro organizzazione e costruzione), che però, di fatto, invece di depauperarlo ne esalta le potenzialità. L’atteggiamento “distaccato”, da scienziato, diventa allora una finzione metodologica, necessaria all’effetto che si vuole ottenere di oggettività della testimonianza, ma attiva solo all’interno di un impianto che per essere non può che ricorrere al soccorso della narrazione.

L’impianto figurale inerente a ogni narrazione, anche a quella apparentemente più immediata, invece di essere l’ultima spiaggia a cui si fa ricorso quando la parola scientifica e oggettiva vengono meno, diventa il solo spazio in cui esse possono aver luogo. La peculiare esigenza di chiarezza di Levi, la sua volontà di descrivere e spiegare anche ciò di cui “non c’è perché”, se non di capire fino in fondo ciò che è senza fondo (perché lui il fondo non l’ha toccato, e quello toccato dagli altri può solo immaginarlo, anche se non del tutto arbitrariamente), riesce a instaurarsi, e a funzionare, solo in quanto si dispiega a partire dal senza fondo da cui la narrazione si forma e continua ad essere abitata, nutrendosene per poter essere. Ma proprio questo conduce paradossalmente uno scrittore al quale innovazione e sperimentalismo non interessano (o interessano solo più tardi, e sempre relativamente) a scontrarsi fin dall’inizio (e poi per sempre) con la necessità di sperimentare e di innovare molto più di coloro che di queste pratiche hanno fatto il loro credo. Il lavoro operato da Levi sulla lingua, analizzato con dovizia di esempi da Pier Vincenzo Mengaldo, ne è una dimostrazione. Il modo in cui sono costruiti i suoi libri, un’altra.

Per questo, per dire ciò che non poteva non dire (che è per lui la cosa più importante: la testimonianza), Levi deve essere più scrittore, anzi: più romanziere, di gran parte di coloro che sul romanzo e sulle sue implicazioni hanno incentrato le loro preoccupazioni primarie e l’aspetto forse più significativo del loro lavoro. Non che Levi fosse inconsapevole per lo meno di alcune di queste implicazioni, ma non le ha quasi mai poste esplicitamente in primo piano, eccetto in alcune interviste e in alcuni articoli nei quali, peraltro, sembra rivolgersi altre direzioni (Dello scrivere oscuro) e assumere posizioni di denegazione. “Non ho più niente da dire”, affermava quando era in crisi, come se il “cosa” continuasse per lui ad essere l’unico fattore decisivo; eppure era proprio il resto, l’apparentemente secondario o accessorio a creargli le principali difficoltà (si vedano anche le “sperimentazioni” e le “ibridazioni” dei generi, più evidenti nei racconti ma attive anche in quella che solo per semplificare si potrebbe chiamare la sua “saggistica”, in particolare I sommersi e i salvati).

Dal momento inoltre che scrivere per Levi è anche una continua terapia, il necessario, ma continuamente reiterabile e reiterato tentativo di guarire da ciò da cui non si può guarire (per il semplice motivo che l’enormità del suo esserci stato non può essere medicato, e tanto meno cancellato, ma nemmeno spiegato, una volta per tutte: i suicidi dopo la liberazione ne sono la desolante conferma, e ancor di più quelli avvenuti a distanza di molti anni), la chiarezza a cui lo scrittore si appiglia diventa comprensibile anche in termini di difesa personale, come una forma di rimozione (come è stato detto) quanto mai giustificabile, ma che come tale non può del tutto riuscire a sostituire, né a cancellare, ciò che essa si sforza insieme di chiarire e di allontanare continuando però a tenerlo in vita. Levi non vuole cancellare nulla, ma non può nemmeno affrontare e fare i conti fino in fondo (un fondo che, ripeto, non c’è) con ciò di cui vuole conservare una memoria di cui qualcosa, che per lui è essenziale, non fa che sfuggirgli, rinnovandogli però ad ogni passo la segnalazione della sua esistenza. Ed è proprio qui che si situa la peculiare tragicità della sua testimonianza (e della sua opera), al di là di quella degli eventi che ha vissuto al pari di altri, che anzi talvolta è stata, se possibile, anche più insostenibile della sua.

Mentre altri hanno scelto il silenzio, o la parola “privata” (aggettivo che andrebbe inteso in tutti i suoi sensi: anche come privazione della parola nel momento stesso in cui viene detta), da non dire nemmeno ai figli, Levi non ha mai lasciato affievolirsi la volontà di dire. La testimonianza da sola non poteva bastare; niente che tenga viva la memoria dell’Olocausto è inutile, ma a Levi non bastava: estendendo a tutti i suoi libri ciò che ha detto George Steiner a proposito di I sommersi e i salvati, il suo lavoro “scaturisce dal convincimento (...) che la nuova marea montante di libri, film e lavori teatrali sull’Olocausto non ne ha comunicato l’essenza, che ha banalizzato o ambiguamente appiattito ciò che si trova assai vicino al limite del dicibile, ma che deve essere colto se si vuole che la storia umana abbia il diritto di proseguire”. C’era sempre, per Levi, qualcosa che restava non detto, non capito; e questo qualcosa era per lui, ed è per noi, l’essenziale, verso cui ogni nuova sua parola doveva costituire un passo di avvicinamento. Levi non voleva girargli attorno, bensì andargli incontro, per quanto questo potesse costargli (come è costato, ciascuno a modo suo, a Jean Améry e soprattutto a Paul Celan). Ogni volta che riprendeva a parlare si rendeva vulnerabile; ogni volta il dolore, invece di diminuire, cresceva, tanto più che egli se ne vietava l’espressione diretta. Non di quello doveva parlare, ma era quello ad assalirlo ogni volta che doveva cercare le parole esatte per dire e il modo per dirle. “Comunicare”, come lo intendeva lui, non era condividere il proprio dolore (il pudore, e la vergogna, oltre che la sua morale, glielo impedivano), ma anzi poteva aver luogo solo quando lui, da questo luogo, fosse assente, spazzato via, eliminato (come furono eliminati quelli di cui doveva parlare): l’oggettività dell’osservatore, l’atteggiamento “scientifico”, lo sguardo da “antropologo” può manifestarsi solo quando l’osservatore è esterno, non c’è (non c’entra e non conta); solo che l’osservatore non poteva, nel caso di Levi meno che mai (e senza far ricorso agli insegnamenti della scienza moderna), scomparire. Messo tra parentesi nelle cose che racconta, o in disparte (come con Cesare che si esibisce nella Tregua, come lo spettatore ai numerosi eventi teatrali che in quasi tutti i libri ricorrono), il presunto osservatore ritorna nel raccontare: è il racconto.


 


 

02/01/21

Pietà

Il vecchio signore che per anni ho incrociato mentre pedalava lento, non so se assorto o dolente, o solo affaticato, e che una volta nella sala d’attesa del mio medico condotto (una stanzaccia di cui un robivecchi si vergognerebbe) e un’altra in ferramenta, solo qualche settimana fa, si è rivolto, a me direttamente come se mi conoscesse (a meno che io non abbia avuto un lieve episodio di paranoia), o più genericamente agli astanti, parlando in modo forbito, a volte alludendo e altre riferendosi direttamente a conoscenze non banali, non tutte almeno…, oggi l’ho visto avanzare curvo strascicando i piedi, appoggiandosi ingobbito al manubrio della bici per reggersi in equilibrio, lo sguardo a terra, senza nemmeno accennare ad alzarlo ogni tanto verso la salita che cominciava poco più in là, breve ma dura, e mi è venuto da pensare che forse allora non voleva esibire la propria cultura per farsi ammirare, come avevo frettolosamente, con la mia solita (quella sì) supponenza, ipotizzato, ma che probabilmente chiedesse, a modo suo, solo un po’ di attenzione, qualcuno che gli rispondesse e scambiasse qualche parola con lui, e ho provato pietà. Ma per me stesso.