08/01/21

Primo Levi. Necessità (da Riga 13, 1997)

 


 Sul treno che lo riporta a Torino dopo il lungo periplo iniziato mesi prima a Auschwitz, Levi sente il bisogno irreprimibile di raccontare a chiunque incontri l’enormità degli orrori che ha vissuto e visto. Bisogno naturalissimo, che poi lo spingerà a scrivere di questa esperienza tornandoci a più riprese fino al termine della sua vita, che avrà infine diviso tra il duplice mestiere di chimico e di scrittore. Eppure il bisogno di raccontare non è poi così naturale: i casi di coloro che hanno scelto il silenzio sono ben più numerosi; e ancor meno naturale è che questo bisogno abbia fatto di chi lo provava uno scrittore per il resto della sua esistenza. In rapporto alla natura della tragedia vissuta, tra gli scampati ai lager nazisti sono pochi coloro che lo sono diventati. Alcuni lo erano già; pochissimi lo sono diventati dopo. Levi è tra questi, anche se qualcosa aveva già scritto prima della deportazione (ma poteva trattarsi benissimo di prove giovanili che magari non avrebbero avuto seguito, come a molti è capitato e capita; e comunque non è questo che importa: importa ciò che il lungo dopo proietta sull’inizio, e anche su ciò che prima dell’inizio c’era stato: e all’inizio c’è Se questo è un uomo). E poi Levi è diventato scrittore a tutto campo, e in particolare romanziere, non si è limitato a portare testimonianza. Come mai? Come mai proprio romanziere (e non storico, memorialista, saggista o politico)? Eppure non aveva iniziato con questo proposito. All’inizio c’era solo il bisogno di far partecipi gli altri di ciò che aveva vissuto, di farlo conoscere a tutti, di non lasciare che venisse dimenticato o rimosso. Io credo che sia proprio in relazione a ciò di cui voleva parlare e a ciò che aveva bisogno di dirne che la narrazione (il romanzo e il racconto, con tutto il carico di finzione che comportano) è stata per lui una necessità, indispensabile alle verità che doveva arrivare a comunicare, che era già da subito qualcosa di più della pur importante verità dei fatti.

Non sussistendo infatti quello del “cosa dire”, il problema che subito si presenta a Levi è quello del “come dirlo”, e subito Levi si accorge che non si tratta tanto di scegliere tra tanti modi o forme, ma che proprio lì si mette in gioco ciò che per lui è essenziale. Per lui fin dall’inizio (e a me sembra poi fino all’ultimo dei suoi testi), il problema non è quindi solo “come parlare di ciò che non è stato (mai, ancora) detto”, come capita, in diversa misura, ad ogni scrittore, ma anche, e soprattutto, “come parlare di ciò che non può essere detto”, inteso nel duplice senso del divieto (perché è vietato, perché non sarà creduto, perché provoca reazioni angosciose e tocca corde troppo sensibili che quindi sarebbe meglio lasciare dove e come sono, e che andrebbero anzi protette, isolate, per non innescare processi troppo dolorosi, specie se affrontati in pubblico, che finirebbero per infrangere un equilibrio troppo delicato, il cui precario raggiungimento è costato compromessi, razionalizzazioni e sensi di colpa dolorosissimi già di per sé), e dell’indicibile (di ciò che, alla lettera, si sottrae a ogni dire, perché non esistono parole che possano dirlo, e a ogni pensiero, impensato e impensabile, perché la sua pensabilità, a cose fatte, è talmente legata alla logica che le ha prodotte che sarebbe solo un altro modo di riprodurle). Impossibilità che però si scontra con quella, opposta, del non poter non dire, che è insieme necessità di portare testimonianza dell’indicibile e di capire l’incomprensibile.

È un problema che, sorto per Se questo è un uomo, si ripresenta ad ogni nuovo libro di Levi, sia che lo riprenda sia che cerchi di allontanarsene; in ogni caso è sempre lì; un problema non tanto di veridicità e credibilità di una testimonianza che corrisponda ai fatti, ma di definizione dei fatti stessi in relazione ad una esperienza che deve ora, nelle parole, essere quanto più possibile completa quando è proprio il suo parziale rifiuto che ha reso possibile che ora se ne possa parlare, in quanto farne esperienza “allora” sarebbe stato insostenibile: chi l’ha fatta (i mussulmani, i sommersi) ne è stato infatti la prima vittima, vi è sprofondato e nessuna testimonianza può ora recare, da una parte; mentre dall’altra chi può ora recarla, o si è costruito una barriera tale da permettergli, allora, di sopravvivere (specie di insensibilità da cui deriva, anche, il senso di colpa) o ne è rimasto, di poco o di tanto, ai margini (in quelli che a lui sembrano i “veri” margini, per quanto abissale sia stata la sua stessa condizione: altra fonte di colpa, derivante da un presunto, ma non per questo vissuto come meno reale, privilegio; e il dovere di portare testimonianza è anche un modo di riparare a questa “colpa”, come a far dimenticare che lui è sopravvissuto mentre tantissimi altri sono morti, che lui è sopravvissuto vedendoli morire, nonostante che li abbia visti morire, e morire “al suo posto”).

È quindi un problema che è insieme di “cosa” e di “come”, e che, se a Levi sembra nascere in relazione al “cosa” (Auschwitz), immediatamente si scontra con l’essenzialità del “come” (linguaggio, forme), e come tale si sposta, restando centrale, in ogni suo libro. Per affrontarlo bisogna farsi, già da subito, scrittore: l’enormità stessa di ciò di cui si vuole parlare rende insufficiente la parola “referenziale”; pretendere di dire le cose “come sono state” si rivela subito impossibile; il linguaggio oggettivo, analitico e descrittivo, quello che a Levi verrebbe, per urgenza e formazione, più spontaneo adottare, tradisce immediatamente il suo deficit sostanziale, e quindi inutilizzabile, perché inaffidabile, parziale, tanto più menzognero quanto più si pretende veritiero e diretto. Se non che per Levi è altrettanto impossibile rinunciarvi del tutto (questo linguaggio lo protegge, “garantisce” la sua parola), e quindi si rende necessaria una deviazione, la sua subordinazione, più o meno mascherata, a una logica in apparenza opposta, quella della narrazione con tutto il suo carico di finzione (ovviamente non delle singole cose che vengono dette, ma della loro organizzazione e costruzione), che però, di fatto, invece di depauperarlo ne esalta le potenzialità. L’atteggiamento “distaccato”, da scienziato, diventa allora una finzione metodologica, necessaria all’effetto che si vuole ottenere di oggettività della testimonianza, ma attiva solo all’interno di un impianto che per essere non può che ricorrere al soccorso della narrazione.

L’impianto figurale inerente a ogni narrazione, anche a quella apparentemente più immediata, invece di essere l’ultima spiaggia a cui si fa ricorso quando la parola scientifica e oggettiva vengono meno, diventa il solo spazio in cui esse possono aver luogo. La peculiare esigenza di chiarezza di Levi, la sua volontà di descrivere e spiegare anche ciò di cui “non c’è perché”, se non di capire fino in fondo ciò che è senza fondo (perché lui il fondo non l’ha toccato, e quello toccato dagli altri può solo immaginarlo, anche se non del tutto arbitrariamente), riesce a instaurarsi, e a funzionare, solo in quanto si dispiega a partire dal senza fondo da cui la narrazione si forma e continua ad essere abitata, nutrendosene per poter essere. Ma proprio questo conduce paradossalmente uno scrittore al quale innovazione e sperimentalismo non interessano (o interessano solo più tardi, e sempre relativamente) a scontrarsi fin dall’inizio (e poi per sempre) con la necessità di sperimentare e di innovare molto più di coloro che di queste pratiche hanno fatto il loro credo. Il lavoro operato da Levi sulla lingua, analizzato con dovizia di esempi da Pier Vincenzo Mengaldo, ne è una dimostrazione. Il modo in cui sono costruiti i suoi libri, un’altra.

Per questo, per dire ciò che non poteva non dire (che è per lui la cosa più importante: la testimonianza), Levi deve essere più scrittore, anzi: più romanziere, di gran parte di coloro che sul romanzo e sulle sue implicazioni hanno incentrato le loro preoccupazioni primarie e l’aspetto forse più significativo del loro lavoro. Non che Levi fosse inconsapevole per lo meno di alcune di queste implicazioni, ma non le ha quasi mai poste esplicitamente in primo piano, eccetto in alcune interviste e in alcuni articoli nei quali, peraltro, sembra rivolgersi altre direzioni (Dello scrivere oscuro) e assumere posizioni di denegazione. “Non ho più niente da dire”, affermava quando era in crisi, come se il “cosa” continuasse per lui ad essere l’unico fattore decisivo; eppure era proprio il resto, l’apparentemente secondario o accessorio a creargli le principali difficoltà (si vedano anche le “sperimentazioni” e le “ibridazioni” dei generi, più evidenti nei racconti ma attive anche in quella che solo per semplificare si potrebbe chiamare la sua “saggistica”, in particolare I sommersi e i salvati).

Dal momento inoltre che scrivere per Levi è anche una continua terapia, il necessario, ma continuamente reiterabile e reiterato tentativo di guarire da ciò da cui non si può guarire (per il semplice motivo che l’enormità del suo esserci stato non può essere medicato, e tanto meno cancellato, ma nemmeno spiegato, una volta per tutte: i suicidi dopo la liberazione ne sono la desolante conferma, e ancor di più quelli avvenuti a distanza di molti anni), la chiarezza a cui lo scrittore si appiglia diventa comprensibile anche in termini di difesa personale, come una forma di rimozione (come è stato detto) quanto mai giustificabile, ma che come tale non può del tutto riuscire a sostituire, né a cancellare, ciò che essa si sforza insieme di chiarire e di allontanare continuando però a tenerlo in vita. Levi non vuole cancellare nulla, ma non può nemmeno affrontare e fare i conti fino in fondo (un fondo che, ripeto, non c’è) con ciò di cui vuole conservare una memoria di cui qualcosa, che per lui è essenziale, non fa che sfuggirgli, rinnovandogli però ad ogni passo la segnalazione della sua esistenza. Ed è proprio qui che si situa la peculiare tragicità della sua testimonianza (e della sua opera), al di là di quella degli eventi che ha vissuto al pari di altri, che anzi talvolta è stata, se possibile, anche più insostenibile della sua.

Mentre altri hanno scelto il silenzio, o la parola “privata” (aggettivo che andrebbe inteso in tutti i suoi sensi: anche come privazione della parola nel momento stesso in cui viene detta), da non dire nemmeno ai figli, Levi non ha mai lasciato affievolirsi la volontà di dire. La testimonianza da sola non poteva bastare; niente che tenga viva la memoria dell’Olocausto è inutile, ma a Levi non bastava: estendendo a tutti i suoi libri ciò che ha detto George Steiner a proposito di I sommersi e i salvati, il suo lavoro “scaturisce dal convincimento (...) che la nuova marea montante di libri, film e lavori teatrali sull’Olocausto non ne ha comunicato l’essenza, che ha banalizzato o ambiguamente appiattito ciò che si trova assai vicino al limite del dicibile, ma che deve essere colto se si vuole che la storia umana abbia il diritto di proseguire”. C’era sempre, per Levi, qualcosa che restava non detto, non capito; e questo qualcosa era per lui, ed è per noi, l’essenziale, verso cui ogni nuova sua parola doveva costituire un passo di avvicinamento. Levi non voleva girargli attorno, bensì andargli incontro, per quanto questo potesse costargli (come è costato, ciascuno a modo suo, a Jean Améry e soprattutto a Paul Celan). Ogni volta che riprendeva a parlare si rendeva vulnerabile; ogni volta il dolore, invece di diminuire, cresceva, tanto più che egli se ne vietava l’espressione diretta. Non di quello doveva parlare, ma era quello ad assalirlo ogni volta che doveva cercare le parole esatte per dire e il modo per dirle. “Comunicare”, come lo intendeva lui, non era condividere il proprio dolore (il pudore, e la vergogna, oltre che la sua morale, glielo impedivano), ma anzi poteva aver luogo solo quando lui, da questo luogo, fosse assente, spazzato via, eliminato (come furono eliminati quelli di cui doveva parlare): l’oggettività dell’osservatore, l’atteggiamento “scientifico”, lo sguardo da “antropologo” può manifestarsi solo quando l’osservatore è esterno, non c’è (non c’entra e non conta); solo che l’osservatore non poteva, nel caso di Levi meno che mai (e senza far ricorso agli insegnamenti della scienza moderna), scomparire. Messo tra parentesi nelle cose che racconta, o in disparte (come con Cesare che si esibisce nella Tregua, come lo spettatore ai numerosi eventi teatrali che in quasi tutti i libri ricorrono), il presunto osservatore ritorna nel raccontare: è il racconto.


 


 

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