31/01/21

Vladimir Nabokov, Intransigenze

Il gioco dell’intervista consiste in una serie di convenzioni: sincerità (anche quando si scherza, viene sempre il momento di “parlare sul serio”); immediatezza (l’intervistatore deve essere capare di “forzare la mano”, di indurre a tradirsi anche il più reticente e dissimulatore degli intervistati: altrimenti perché avrebbe assentito all’incontro?); aneddotica autobiografica che implica narcisismo da una parte e curiosità dall’altra; normalizzazione pur nell’aura dell’ammirazione (anche la persona più bizzarra e autorevole rivela debolezze, piccole manie: diventa “come noi”); risparmio di tempo e fatica connesso alla semplificazione e alla spiegazione, ecc.

Chi rilascia interviste in genere lo sa e sta al gioco, pur non ignorando che già per il fatto di concederle si mette in una posizione di debolezza: vuole dire qualcosa, farsi conoscere meglio, spiegarsi, farsi finalmente capire al di là di ogni equivoco; vuole insomma esibire la versione autorizzata, l’unica corretta, di se stesso e del proprio lavoro. Più che per ciò che di interessante comunicano, è per questo che le interviste piacciono tanto: giustificano le debolezze di chi le legge mediante quelle di chi le concede, inchiodano a terra chi si vuole innalzare e abbassano chi è troppo comodamente innalzato. Ma è anche per questo che possono diventare delle armi sottili e degli schermi illusori nelle mani dei mistificatori più abili.

Come mistificatore Nabokov aveva pochi rivali. Lo si può notare anche da questo libro che, sebbene contenga anche lettere a direttori e articoli letterari e entomologici, è composto in gran parte da interviste rilasciate dopo 1960, quando ormai il grande successo di Lolita aveva portato una notorietà dalla quale lo scrittore poteva finalmente, dopo decenni di precarietà, trarre i numerosi vantaggi, non solo economici, ma che lo esponeva anche ad attenzioni e fraintendimenti che la sua riservatezza da una parte e la consapevolezza del proprio valore dall’altra lo costringevano a rintuzzare. Come dunque aveva fatto con la letteratura, così ha cercato di fare con l’intervista: destruttura il genere, moltiplica gli specchi e gli artifici, finge di concedersi alle convenzioni per sovvertirle, toglie con la stessa mano che concede, come un prestigiatore. Ma il rischio di lasciarci qualche dito sussiste. Tutto sembra svolgersi normalmente, solo che manca il presupposto principale: il faccia a faccia dell’intervistato con l’intervistatore. Ogni intervista infatti consisteva in risposte rigorosamente scritte (come lo erano tutte le sue lezioni universitarie: cfr. per esempio Lezioni di letteratura, Garzanti, 1982), e da riportare esattamente fino all’ultima virgola, a quelle tra le domande inviate dal giornalista di turno che lo scrittore decideva insindacabilmente di volere, bontà sua, scegliere. La motivazione addotta era già un falso: “Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino” (con quella che sembrerebbe una criptocitazione parodica e paradossale di Paolo ai Corinzi), quando era nota la sua grande verve di conversatore e freddurista. Altrettanto ambiguo, quanto ambizioso, era l’obiettivo: dare all’intervista la “forma ideale” di un “saggio suddiviso più o meno elegantemente in paragrafi”. Ma un saggio a sua volta come liberato dalle convenzioni del rigore: una specie di spazio divagatorio, dove alternare citazione, analisi, polemica, provocazioni, giudizi sommari (per i quali Nabokov aveva un debole, come a indicare, di converso, la propria grandezza, di cui era consapevole e che certo non dissimulava) lanciati a destra e manca con grande divertimento, anche del lettore, ma che in più di un caso ritornano come un boomerang su chi li ha espressi.

Così, gli aspetti più interessanti e piacevoli di questo libro sono anche quelli dove meglio si evidenziano i difetti: una meticolosità che in più di un caso sconfina nella pignoleria, quando non nella meschinità; il gusto della polemica contro gli errori e le approssimazioni altrui che rivela le proprie; l’understatement troppo insistito che rivela il suo fondo di snobismo; le precisazioni che, mentre aiutano la lettura dei romanzi con la loro ricchezza di spunti, denotano la volontà di indirizzarla in un’unica direzione, legittimata dall’autore, e così via. Insomma, un libro molto più rivelatore su Nabokov di quanto fosse nei suoi preventivi, tanto più sfuggente quanto più voleva tenerlo sotto controllo, ma coi vantaggi che una grande intelligenza comunque finisce per dispensare e col divertimento, spesso irresistibile, ma anche la tenerezza e la poesia che caratterizzano tutta la sua opera.

 1994

V. Nabokov, Intransigenze, Trad. di Gaspare Bona, Adelphi, 1994, pagg. 396, £. 40.000

 


 

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