28/05/23

Arrivi e partenze

 


Mentre l’involucro esterno, dice con malcelato orgoglio, sembra trascurato tanto da non tradire gli anni, se non per minimi dettagli rintracciabili unicamente dai pochissimi che hanno la pazienza, o il malanimo, di scrutarmi a fondo, gli apparati interni, tutti, dal primo all’ultimo, dal più nascosto invisibile bastardo ai capibanda più chiassosi e arroganti, sono impegnatissimi a tracciare strategie imbastendo alleanze provvisorie per saggiare metodi e obiettivi e cospirando per sferrare attacchi che finora si sono limitati a punzecchiare con piccoli fastidi trascurabili, e raramente con effetti di qualche peso, ma passeggeri, quasi solo per segnalare la loro esistenza,  come allenamento  in vista degli assalti ben più maligni che non tarderanno ad assestarmi in massa quando meno me li aspetto, feroci, imparabili, irrimediabili e definitivi. Ma io non sono stupido, e li aspetto, pur sapendo che aspettarli non servirà a niente, perché saranno sempre e comunque una sorpresa.

È una sorpresa arrivare nel mondo, dice sorridendo, e una sorpresa lasciarlo. La stessa meraviglia. Uguale e diversa. Inutile e gloriosa. Fine a se stessa. Come l’arte. Che forse proprio lì ha origine. E sempre lì finisce.


27/05/23

Francesco Furini, Ila e le ninfe


La prima cosa che ho pensato davanti a questo quadro magnifico e conturbante, è stata: “a me non è mai capitata un’avventura del genere”. La seconda è stata chiedermi perché il giovanotto sembra così renitente. La terza perché porta quel cappello. Ma poi, vedendo come il giovane cerca di sfuggire, preso più da spavento che da semplice timore, ho anche pensato che chi l’aveva dipinto, dopo aver covato un desiderio simile al mio, si è messo invece nei panni del ragazzo, che prova in ogni modo a divincolarsi dall’abbraccio e dal desiderio di quei giovani corpi meravigliosi, e che è questa sua attrazione e paura che il pittore ha dipinto e che fa la bellezza dell’opera.

Il quadro, di cospicue misure (230 x 261 cm) che favoriscono un forte impatto di presenza, si intitola Ila e le ninfe e il suo autore è Francesco Furini (1603-1646), che l’ha dipinto agli inizi degli anni ‘30. Molto apprezzato alla sua epoca, la sua fama ha in seguito subito una certa eclisse, ben esemplificata dal giudizio di Argan, che a p. 357 del terzo volume della sua Storia dell’arte italiana (Sansoni, 1968) lo liquida così: “Francesco Furini cerca una troppo facile armonia nello sfumato in cui immerge le sue leziose figure nude”, assieme agli altri pittori toscani del ‘600 “che, fidando nella perennità d’un primato perduto, si astengono dall’affrontare i problemi del loro tempo e si chiudono in un isolamento che diventerà ben presto provincialismo”. Ma negli ultimi tempi, specie dopo la grande mostra del 2007 a Palazzo Pitti, delle cui collezioni il nostro quadro fa parte e dove si possono vedere anche due notevoli affreschi, Furini è stato molto rivalutato, tanto da essere ormai ritenuto uno dei massimi del suo tempo, per quanto la sua notorietà non sia mai approdata al grande pubblico.

 

 

Il soggetto del quadro viene dalla mitologia e dalla letteratura greca, in particolare dalle Argonautiche di Apollonio Rodio e dall’idillio XIII di Teocrito, ma curiosamente le uniche testimonianze plastiche, abbastanza numerose però, sono di epoca romana; poi è stato quasi dimenticato, a parte la breve parentesi seicentesca che ha il suo capolavoro nell’opera di Furini. La sua rinascita arriva nell’ottocento, soprattutto nei paesi anglosassoni, quasi sempre come scusa per la rappresentazione di un tripudio di corpi nudi, peraltro di blando erotismo per quanto molto pruriginoso per gli standard del tempo, ma mai in modo così ambiguo e inquietante.

Le versioni migliori, sono quelle di John William Waterhouse, autore predestinato dal suo stesso nome a trattare questo soggetto, che infatti ne dipinse più d’una. In quella più famosa, le ninfe guardano il giovane estatiche, incantate più che prese dal desiderio, in un clima sospeso, mentre quella più vicina più che afferrarlo, lo invita, come con una carezza, che anche un'altra sta abbozzando.

Il dipinto ha un suo lato di misteriosa e delicata poesia, ma in genere le altre opere ottocentesche, che pure intendono rappresentare il travolgimento dei sensi, la sola passione che lasciano trasparire è quella pallida e voyeuristica dello spettatore (prevalentemente maschio) del XIX secolo, in particolare anglosassone. Che è tutto dire, se mi si concede la licenza.

 
 

La storia narrata è semplice e con poche varianti da un autore all’altro. Figlio di Tiodamante e della ninfa Menodice (come dire che le ninfe sono all’inizio e alla fine del suo percorso, inscritte nel suo destino), Ila viene rapito ancora giovinetto da Ercole, invaghitosi di lui, e condotto come scudiero (come eromenos: trascuro il possibile risvolto omosessuale del tema e del quadro, peraltro abbastanza riconoscibile e non osteggiato, sembra, nella corte medicea del tempo) quando decide di partecipare alla spedizione degli Argonauti. Durante una sosta in Misia però, mentre Ercole va a cercare un tronco adatto a sostituire un remo rotto, Ila viene mandato alla ricerca di acqua dolce con una brocca. Trovata una fonte, o uno stagno, in un luogo appartato, mentre si china per attingere l’acqua con la sua brocca, viene notato dalle naiadi che lo abitano, che se ne innamorano e seduta stante fanno a gara per accaparrarselo.

Le ninfe, come è noto, oscillano tra gli estremi di una pudicizia rigorosa, specie quando sono al seguito di qualche dea che ha fatto della verginità, e in genere dell’inviolabilità persino allo sguardo, il proprio vessillo, e quello di una natura molto incline all’accoppiamento. Di solito la loro lascivia non va troppo per il sottile e si accontenta di esseri non proprio attraenti ma dotati di costante disponibilità, e attributi e vigore non indifferenti, come i satiri per esempio, gente peraltro gioiosa e festaiola, ma la loro propensione diventa attrazione irresistibile quando incontrano qualche esemplare umano di spiccata bellezza: pastori, contadini, marinai, guerrieri in un momento di riposo, viaggiatori smarriti e così via, come appunto Ila. I quali però, se ne sono attratti e tendono a cedere volentieri alle loro lusinghe senza frapporre indugio, dappoiché l’impulso erotico non favorisce la riflessione, e anzi meno è presente e più ne trae giovamento, le temono anche, essendo il loro abbraccio spesso mortale, anche se alcuni si dice accedano a qualche forma di immortalità, cosa peraltro leggendaria, improbabile, dal momento che non sono immortali nemmeno quelle che dovrebbero concederla. Di coloro che hanno goduto delle loro attenzioni pochi sono tornati infatti, e forse nessuno. Le versioni in merito divergono, più che altro per contenere le paure che le forze naturali scatenano sempre, per offrire consolazione. La seduzione, l’impero dei sensi, l’abbandono alla passione che esse inducono, sono sempre pericolosi. Sempre mortali, in fondo. Del resto cosa non lo è?

Quando Ila si china sull’acqua per attingerla con il suo vaso, viene visto dalle naiadi di quello stagno che se ne innamorano. È sempre dall’acqua che viene l’innamoramento, ma stavolta, all’opposto di Narciso per la propria immagine che vede riflessa sulla superficie scambiandola per quella di qualcuno che vi è immerso e ricambia il suo sguardo, a esserne preda sono le abitanti delle sue profondità.

Le naiadi, dunque, vedono Ida, emergono dalle acque per impadronirsene e lo trascinano nelle acque profonde. Dopo di che di lui non si saprà più niente, per la disperazione di Ercole, che lo cercherà invano disinteressandosi dei compagni che partiranno senza di lui.

Il quadro di Furini rappresenta il momento in cui il povero ragazzo viene avvinghiato da due di queste bellissime creature che se lo contendono e lo stanno trascinando in acqua, mentre altre indugiano a guardare in attesa forse di subentrare e un paio se ne stanno più in disparte malinconiche per la forzata rinuncia.

 


Il giovane cerca di divincolarsi, e mentre con gli occhi guarda la ninfa che si allunga per afferrarlo alle spalle, con la mano destra tenta di liberarsi dal braccio di quella che l’ha già avvinghiato, e con la sinistra, in un dettaglio splendido che quasi non si nota, ne allontana la testa che forse vorrebbe baciarlo. Lo fa quasi con delicatezza, come se non volesse farle del male, come se qualcosa in lui volesse cedere per quanto un timore nascosto, l’inesperienza e il sospetto di una minaccia sconosciuta e quindi terribile lo spinga a resistere e scappare.


L’ambientazione notturna, il cielo scuro e nuvoloso, la quasi totale assenza di scenografia vegetale, se non per qualche cespuglio o pianta acquatica, favorisce la concentrazione sulla scena che ne esalta tutta la sensualità e insieme crudeltà, un’onda di carne in molle danza rapinosa, con il suo lato sacrificale, non esibito, ma incombente, da cui il protagonista, la vittima, che ne ha il presentimento, vorrebbe essere esentato.

Sull’attrazione prevale il turbamento, lo sgomento quasi, sia di chi ha dipinto, si direbbe, sia di chi ora osserva il dipinto. Il quale all’inizio è attratto dalla voluttuosità del soggetto, da un naturale impulso voyeuristico, di sana lussuria, ma presto, come Ila, avverte un fondo di timore, inquietante, che viene a turbare le acque di un erotismo mai tranquillo, di sensi mai in pace. Quasi che attorno al giovane fossero convocate l’insieme delle forze che usano la voce suadente del piacere in favore della morte, che ammanta l’attrazione per la morte, disdicevole, inconfessabile, con la lusinga dei sensi. Sinuosa, nascosta, lontana, ma che tutto avvolge e trascina in sé con dolcezza irresistibile. Non solo la tentazione del credente (come era Furini, che a trent’anni, e non solo per motivi di sussistenza, si fa prete), la tentazione come morte, ma anche la tentazione della morte, la seduzione dell’inorganico che prende vita nelle ninfe, della divinità della materia, dell’aria, dei monti, dell’acqua; ma anche qualcos’altro per il giovane Ila, che però è in fondo lo stesso, anche se lui si ritrae: l’uscita dalla giovinezza, l’ingresso nel tempo irreversibile, della perdita dell’innocenza, della maturità, della vecchiaia, che è poi ancora quello della morte, della sua consapevolezza e accettazione, volente o nolente, la caduta fuori dell’illusione dell’immobilità, dell’eterna sospensione fuori dal tempo della perfezione che egli incarna, perché ancora incorrotto, intatto.

Per quanto intatto egli non sia, se non nella sua illusione, in quanto eromenos di Ercole, che comunque lo proietta, finché la relazione dura, finché è sotto la tutela (qui alquanto possessiva e passionale, più che formativa o educativa) del semidio, in un’età sottratta al mutamento e al tempo. Ma qui Ila si è allontanato da Ercole, sia pure per andare a cercare dell’acqua per lui. In un certo senso questo potrebbe significare che la sua formazione è terminata. Forse nessuno, né lui né Ercole, ne è ancora consapevole, ma il destino sì. E la danza è lui che la conduce. Ila entra nella selva alla ricerca dell’acqua, della vita, e la trova. Ma insieme trova anche altro. Lo stesso, a ben guardare nelle sue trasparenze. L’acqua, la morte.

 


 

 


25/05/23

Invece niente

 

Ho questo perverso pudore (ma perverso è dire troppo) di parlare sempre di me, dice quasi arrossendo (o è orgoglio?). Di fare sembiante di non parlare mai d'altro, o di parlarne riconducendolo (riducendolo) a me. Di parlare sempre d'altro rispetto a ciò che invece dovrei dire. A ciò che dovrebbe essere detto. E di dire tutto direttamente (come sembra), tutto schiacciato lì, come se non ci fossero altri modi. Altre vie. Altri sguardi.

E invece...

Invece niente.

24/05/23

Accarezzo i petali

 

 

Mentre passeggiavo per il quartiere dopo cena, ho visto due cespugli di rose sporgere da una recinzione. Con il gesto automatico che di solito riservo alle foglie, ho staccato alcuni petali e li ho accarezzati con i polpastrelli. L'aria era asciutta, i polpastrelli sensibili, i petali lisci e morbidi, freschi. Erano sottili ma resistenti allo sfregamento: si incurvavano senza rompersi né restare piegati, elastici. Molto piacevole. Nell'eseguire queste losche operazioni, sono passato davanti a un glicine con alcuni grappoli residui nascosti tra le foglie: mi è venuta voglia di fare un confronto e ho strappato qualche petalo anche da esso. Non c'era molta differenza con le rose, a parte che i petali erano più piccoli e un po' più sottili, e quindi meno adatti alla palpazione delle mie dita grossolane. Li ho annusati senza sentire niente; ho ripetuto l'operazione con i petali di rosa che avevo conservato nella sinistra, con l'identico risultato. Forse ne avevo abusato al tatto, li avevo strizzati e spremuti troppo e non era rimasto nulla per l'olfatto. Senza gettarli, ho annusato i polpastrelli: mi è parso di sentire qualcosa, ma forse era solo suggestione, effetto della voglia di sentire. Al successivo cespuglio ho strappato qualche nuovo petalo, e prima di sciuparlo l'ho annusato: risultati scarsi. Forse i petali non sono profumati, o lo sono solo quelli vicini ai pistilli e agli stami che ne vengono un po' impregnati, mentre quelli periferici non godono di questo beneficio, o lo perdono subito: meno protetti, disperdono i residui di profumo per la continua aggressione dell’aria. O forse è solo generosità. La periferia è sempre la prima a subire gli effetti negativi e l'ultima a godere di quelli positivi. (Ma non sempre. Mi sa che in qualche modo, da qualche parte e da qualche tempo, qualcosa è già cambiato. Alla fine del medioevo il cambiamento è partito da lì. Per dire...) Poi non ho più incontrato rose per un po', ma in compenso mi sono dedicato a tutti i cespugli e le piante che sporgevano sul marciapiede, perché ormai mi aveva preso la smania della collezione e del confronto. In cuffia avevo una musica soffice, come i petali, e la testa, una volta tanto, era leggera come loro, o forse per merito loro. E' lo stesso. Ho incontrato oleandri (quelli che ho preferito alla fine, insieme alle rose); ortensie, dai petali leggermente rugosi ma troppo piccoli per un giudizio ponderato (allora li ho strappati a manciate e li ho palpati, e giudicati, all’ingrosso); gelsomini: ingiudicabili perché troppo piccoli ma i preferiti per il profumo; margherite giganti, di morbida seta, con rugosità delicate, quasi impercettibili al tatto; campanule (convolvoli) di vario tipo: viola, lisce all'interno ma venate fuori; e arancioni, dai petali rugosi ma carnosi, morbidi. Poiché ero uscito senza biro e taccuino, mi sono messo i petali nel taschino, poi ho strappato fiori interi, per ricordarmi.

Li ho tenuti tra le dita fino a casa con la delicatezza e l'impaccio di un neopapà. Qui li ho mostrati a Angela, chiedendole se sapeva il loro nome. Lei li ha guardati, e senza rispondermi li ha subito disposti in un portauovo e me l'ha messo sul tavolo, accanto al pc. 

 

Opera di Amedeo Martegani, primi anni '90. Sul muro di casa mia

22/05/23

Alla canna del gas


Con questi scritterelli mi sto riducendo alla canna del gas. O a quella fumaria.
La canna fumaria che ricordo con maggiore intensità è quella che fuoriusciva dalla stufa che riscaldava il locale principale della prima vera officina di mio papà. D'inverno, il pomeriggio, quando cominciava a fare buio, scendevo in officina (noi abitavamo al piano rialzato della palazzina a due piani adiacente) e con i miei fumetti o un libro di avventure, mi sedevo lì accanto a leggere. C'era l'odore di acqua chimica, di limatura di ferro e di segatura, i macchinari producevano un ronzio che pian piano mi entrava sottopelle e mi faceva trasalire, e con la loro monotonia mi isolavano dal mondo intero, e io, allora, da bambino ipercinetico, mi bloccavo una specie di morbida estasi e leggevo.
 

Sì, se sono arrivato a scrivere queste cose, sono proprio alla canna del gas.
Un'altra che ricordo era nella cucina dei miei nonni paterni, qualche anno prima, con la stufa che si apriva per metterci la legna e un piccolo vano per tenere calde le vivande. Quando era prossima a spegnersi, mi piaceva abbassare l'usciolo, e infilarci i piedini a scaldare. E' una consuetudine che mi è rimasta per molto tempo, fino a pochi anni fa: rivolgere la sedia o la poltroncina e appoggiare i piedi sopra il termosifone, con la lampada snodabile alle spalle diretta verso la pagina aperta. Però è un altro tipo di caldo, inodore, molto meno buono.
Ne deduco, ora, che ho sempre avuto la tendenza ad avere i piedi freddi e quindi che la mia circolazione ha sempre funzionato male. Potrei continuare così: sono parecchie le cose in me che circolano male. Dopo magari lo faccio, tanto per vedere dove va anche questo treno.
Magari un'altra volta. Prima una precisazione però: io mica ho i piedi sempre freddi. Perché diavolo mi sto calunniando da solo? Eh eh, suscito un po' di empatia e di compassione, e intanto mi tiro vicino qualche lettore, lo abbraccio e mi strofino. Furbissimo!
In realtà scrivo tutte queste cose per non pensare ad altro. O per non pensare e basta. Mi alleggerisco: sì, come una pisciatina al momento opportuno. L'umore cambia. Lo so: in fondo mi disprezzo per queste trovatine; non era questo che mi aspettavo da me, ma intanto che mi concentro su una parola dopo l'altra, va abbastanza bene. Dimenticandomi di me, anche quando di me parlo, mi sopporto di più. Un risultato non da poco.
E intanto il proiettile fila, non rettilineo, angolare; deviato, ma fila lo stesso, imprevedibile. Dove, lo scopro man mano. Anche adesso ho la stufetta ad aria accesa sotto il tavolo. Piedi caldi! Ora è diverso. Invecchio e la circolazione fatica a raggiungere le estremità (fatica ma ci arriva), ma soprattutto la tengo accesa perché, dopo la sigaretta, devo far uscire il fumo dallo studio, che ha una portafinestra che dà su un balconcino, e l'aere maligno si insinua sempre dal basso a gelarmi i piedi.
L'espressione aere maligno mai e poi mai avrei pensato di usarla. E invece eccotela qui! I miei ossequi alla signora.
(Se continuerò con queste pseudoprose, potrei chiamarle "scritti alla canna del gas"; anche perché dovrebbe essere alla canna del gas anche uno a cui interessassero e che li leggesse con il po' di gusto che ci metto io a scriverle. Ma anche "Treni e altri proiettili che attraversano la testa" potrebbe andare bene: in fondo l'idea è la stessa.)
(Avanti! A volte non riesco a capire se sono più gli idioti o i disperati, e in quale categoria rientro io. Sempre che i primi non siano che dei disperati così assoluti, irrimediabili, da non rendersene neppure conto.
O che la disperazione non sia che una forma di idiozia. La peggiore magari.)

19/05/23

Treni e altri proiettili che attraversano la testa



Dovrei davvero mettermi a scrivere tutto quello che mi passa per la testa come un treno e vedere dove va. Mettiamo che ci passi davvero un treno: se fosse uno di quelli ad alta velocità, sfreccerebbe silenzioso incendiando dendriti e sinapsi e non potrei fare altro che seguirlo con lo sguardo mentre se ne va, immaginando mete lontane, meraviglie alle quali non saprei dare un corpo se non etereo, vago; ma se fosse uno di quei locali che ancora sopravvivono nelle linee secondarie, o un merci di quelli scoperti o con la porta di qualche vagone spalancata, che viaggiano lenti, asmatici, seminando ruggine e scorie a ogni sussulto, come per consumarsi giorno dopo giorno per infine dissolversi, potrei saltarci sopra al volo, e via!, descriverlo minutamente, guardare il paesaggio che scorre lento fuori, fumarmi una sigaretta con le gambe penzoloni come i vagabondi dell’epoca eroica, o parlare con la gente stravaccata sui sedili di legno o assiepata nei corridoi. Avrei un po' freddo nella brutta stagione, perché ovviamente non sarebbero riscaldati, e allora il mio vicino mi passerebbe una fiaschetta, e io, nonostante lui abbia le labbra screpolata e un'aria non proprio sanissima, ne berrei un sorso e gli sorriderei. Gli direi grazie, sicuro che non mi capirebbe, in quelle lande lontane, e invece vedrei anche il suo volto farsi sorridente, e dalla sua bocca sentirei uscire un fiume di parole nella mia povera lingua, entrambi sorpresi di incontrare un compatriota proprio lì, in quel posto ai confini del mondo. E subito lui mi racconterebbe la sua storia, di come fosse andato, da giovane, a cercare lavoro all'estero, da dove poi lo avrebbero distaccato in un altro paese, nel quale avrebbe incontrato una donna di un altro paese ancora, e di come l'avrebbe seguita con l'intenzione di vivere per sempre con lei, se non che lei sarebbe stata già sposata, tacendoglielo però al tempo della loro relazione, ma lui, invece di andarsene, sarebbe rimasto nella sua città, e lì avrebbe tirato avanti con lavoretti d'occasione e allacciato nuove relazioni, tutte brevissime e insoddisfacenti, come in attesa che quella donna si liberasse, cedendo infine alla grandezza spropositata del suo amore, e lei incontrandolo per via lo avrebbe guardato con occhi pieni di nostalgia che lo avrebbero incatenato sempre più a quella città povera e sporca ma sarebbe comunque rimasta sempre accanto al marito e soprattutto ai figli, finché lui un giorno non se ne sarebbe andato di nuovo, sempre più lontano, dimenticando tutto, persino la lingua materna, fino ad ora che, sentendo il mio grazie, gli sarebbe di nuovo scoppiata come un fuoco d'artificio, luminosa e intatta, nella testa, chiedendo di essere usata ancora e ancora. E io lo ascolterei, prima partecipe e poi sempre più distratto, cullato da quei suoni familiari ma un po' incerti, e comincerei a girare lo sguardo nel vagone e vedrei una giovane donna che mi fisserebbe, forse attratta dai miei abiti esotici, dalla mia aria insieme familiare e straniera, e io le sorriderei, ma pian piano mi addormenterei per non ritrovarla più al risveglio, mentre l'uomo starebbe ancora parlando e parlando, più a se stesso che a me ormai. E allora io, appena intuito che la sua meta è ancora lontana, scenderei alla prima fermata, dicendo di essere arrivato, a fare cosa in questo posto isolato e deserto?, a cercare anch'io una donna, gli direi, incontrata in altro paese, esattamente come lui, e in realtà solo per sgranchirmi le gambe e vedere il nulla lì attorno, in attesa di un altro treno che mi attraversasse la testa, diretto a qualsiasi destinazione, che mancherei comunque.

E lì mi guarderei attorno, sconcertato e in attesa, senza sapere cosa pensare in quel paesaggio spopolato: lo stesso che mi ritroverei nella testa se non mi mettessi a scrivere tutto quello che ci passa per seguire dove va.

(Però incontrare quel tizio, e sentirmi addosso gli occhi della ragazza, anche così non è dispiaciuto.)


 

16/05/23

Le vecchie talpe son tornate!

 


Le talpe approfittano del disgelo e delle piogge di questi giorni per recuperare l'inverno perduto: la terra è morbida e allora sotto a scavare cunicoli, a incrementare i reticoli sotterranei e le tane elevando al contempo piccoli tumuli al cielo ritrovato. In più fanno ginnastica e si divertono. Sentire i muscoli che tornano a funzionare è una bella soddisfazione. Mica sceme! Credo che sia per questo che oggi il prato tra fiume e canale è costellato di questi informi ziqqurat in miniatura. Scaricano dove gli pare, loro. Tanto un altro po' di pioggia, qualche filo d'erba o rizoma, e torna tutto in ordine. C'hanno il ministero del paesaggio a testa in giù, loro. Proprio come il nostro.

Intanto però la terra mossa sembra una pagina disseminata da una fitta punteggiatura a tre dimensioni. Punti, virgole, due punti... nient'altro. Però a me, nessuno mi toglie dalla testa che le vecchie talpe vogliono dire qualcosa. 

***



(I pesci invece esplorano il pelo dell'acqua; la corrente porta cibo fresco e abbondante. Sono tantissimi, ma ce n'è per tutti. Si abbuffano senza fatica. Poi se la spassano. Saltano!

Gabbiani, cormorani, svassi e aironi assistono e ogni tanto spariscono sott'acqua. Proprio così!)

 

07/05/23

Robert Walser, L'assistente

 


Spesso, leggendo di Robert Walser, si ha l’impressione che se ne parli quasi esclusivamente come di uno strano personaggio, che accidentalmente ha scritto migliaia di pagine, molte delle quali nella seconda parte della sua vita, con una calligrafia sempre più piccola fino a diventare illeggibile, per poi smettere del tutto, dopo essere stato rinchiuso con il suo consenso per oltre vent’anni in un manicomio dove passava le giornate a sbucciare piselli o intrecciare canestri e altre simili attività manuali, pur conservando una lucidità implacabile, quando si degnava di parlare.

La sua figura è affascinante e misteriosa. Come non essere attratti dalla sua storia? Come non identificarsi, impietosirsi o meravigliarsi di questo o quell’altro suo aspetto? Sarebbe meglio evitarlo, però. Fare come se di lui non si sappia davvero niente, come se davvero gli sia riuscito di rendersi invisibile e scomparire, come ambiva. La sua opera suprema, forse, a suo parere. Del resto, come scrisse lui stesso, “Nessuno ha il diritto di comportarsi con me come se mi conoscesse” (La rosa, Adelphi, 1992). Bene, lo asseconderemo, non foss’altro che per buona educazione.

Restano solo le opere scritte allora, dalle quali è comunque difficile scrostare tutte le letture che ne sono state fatte sovrapponendovi la griglia degli enigmi della sua figura. Tanto più che le mille cose di cui esse parlano sono in buona parte ispirate dalle esperienze del loro autore. I personaggi sono in genere dei suoi alter ego, ma alter ego sfuggenti e dispettosi, che molto spesso non “ubbidisc[ono]” al narratore (come afferma quello del capolavoro postumo Il brigante, Adelphi, 2008). Si tratta comunque di materiali grezzi, di poco conto, di una banalità il più delle volte sconcertante, a ben guardare, se non fosse per i romanzi, racconti, poesie e saggi in cui hanno subito le più sorprendenti metamorfosi. Walser infatti parte quasi sempre da uno spunto autobiografico, uno qualsiasi, ma non appena si mette a scriverne, la scrittura lo porta altrove, a passeggio, sulle proprie strade e stradine, tracciando sentieri nell’erba o nella neve, scie nell’acqua, che prima non c’erano e presto si richiudono man mano che la penna procede finché il narratore viene a trovarsi, un po’ smarrito e stordito ma colmo di meraviglia, al pari dei suoi personaggi, in mezzo a un paesaggio insieme familiare e sconosciuto, nel punto in cui l’essersi perso lo consegna a casa, al luogo che riconosce come proprio, sia pure per un attimo. Perché subito i passi riprendono, la penna prosegue, arriva un altro spezzone di ricordo, o un abbaglio che gli ricorda un ricordo che lui ricorda solo di aver dimenticato, forse una fantasia, un desiderio trattenuto nell’orizzonte del suo sorgere a cui non aveva dato seguito, ma che ora, appena fatto capolino, reclama di essere ripreso, tanto che lui non può esimersi dal seguirlo, ripartendo da quella interruzione e rinuncia, finché ancora… e così via.


 Anche L’assistente, da poco riproposto da Adelphi nella nuova traduzione di Cesare De Marchi, a sessant’anni da quella storica di Ervino Pocar per Einaudi, parte da dati autobiografici, che troviamo anche in un’altra recente riedizione del primo libro approdato in Italia del grande e allora sconosciuto scrittore svizzero, Una cena elegante, appena licenziata da Quodlibet nella sua recente collana “Storie”. Ma mentre questa è una raccolta di racconti, brevi prose e “saggi” tratti da due libri del 1913 e ‘14, in cui gli alter ego si rifrangono in decine di figurine memorabili, L’assistente (1908) si presenta come un romanzo all’apparenza piuttosto tradizionale. Scritto a Berlino nella brevissima, prodigiosa stagione in cui tra i ventinove e i trentun anni Walser ci ha dato tre grandi libri (gli altri sono I fratelli Tanner, 1907, e Jakob von Gunten, 1909, entrambi editi da Adelphi) che da soli sarebbero bastati a collocarlo nel ristretto novero dei grandi del XX secolo, come peraltro è stato presto riconosciuto da Hesse, Benjamin, Kafka, tanto per fare qualche nome, il libro narra la storia di Joseph Marti, un giovane di ventitré anni, nei sei mesi in cui diventa assistente dell’ingegner Tobler, un inventore, che lo accoglie nella sua casa e famiglia. Con questo libro Walser prova a fare un romanzo “tradizionale”, con una vicenda strutturata e personaggi con caratteri ben costruiti, lui che era accusato di non saper raccontare, ma solo divagare, seguire gli estri lirici o riflessivi che gli venivano da qualche minimo aspetto della realtà o dell’esperienza, o della fantasia. Anche qui l’andamento è quello solito dei Fratelli Tanner e delle brevi prose precedenti (che, dopo Jakob von Gunten, e a eccezione di Il brigante, diventeranno poi l’unica forma, con le poesie, da lui adottata), ma a ben guardare una storia la racconta, quella della rovina della famiglia Tobler, del disastro a cui va incontro un sognatore che vuole avere successo nella realtà senza prendersi la briga di obbedire alle sue leggi, o addirittura di provare a conoscerle, lui pure, come il suo assistente, catturato da un’emozione, che lui chiama idea, anche interessante in linea di massima, che però segue senza preoccuparsi di quanto costerà realizzarla, aspettandosi profitti improbabili, diversamente dall’assistente, e da tutti i protagonisti di Walser, che invece del profitto non si curano, se non per quel poco che serve alla sopravvivenza e per un periodo limitato, pensato sempre come a termine ancor prima di iniziarlo.

Ancor più che affascinato, il personaggio di Walser è calamitato da tutto ciò che esiste in presenza (al presente). Non appena una cosa, un paesaggio, una parola, viene ad essere davanti a lui, già lo possiede, lo consegna allo stupore, all’accettazione senza riserve; tutto gli va bene; e solo in un secondo tempo matura una reazione, per lo più sbagliata, o poco o tanto sfasata, che lo fa riflettere negativamente su di sé, e talvolta anche sugli altri, ma mai fino al punto di rifiutarli, persino quando gli rinfaccia i loro difetti e limiti, che presto però dimentica o riassorbe nella complessiva, generale accettazione. Nessuna rabbia, nessun rancore, nessun rimpianto. Come fa con la Signora Tobler e con Wirsch, il suo predecessore nell’impiego, che anzi solleciterà la sua generosità e simpatia a dispetto di tutte le sue debolezze.

Contano tutti così poco! Vivono così precariamente! Perché sottrarre loro quel minimo di accoglienza e di benevolenza che concedere non costa niente e anzi colma di gioia? Per questo, quando parla, può anche essere diretto e rude, e persino offensivo, a volte. Ma senza cattiveria. Quasi senza emozione. Così stanno, in quel momento, le cose, e dunque perché non dirle? C’è dietro, o attorno, qualcos’altro? No. È tutto lì. E quindi, finché lì è, va detto. Avvenga quel che avvenga. Poi arriva altro e si sposta l’attenzione e la parola su quello. Via uno, l’altro, senza soluzione di continuità, orizzontalmente. Come una pura superficie. Che però continua a scintillare, a mandare bagliori e a catturare anche il lettore. “C’è forse una voce nelle profondità del lago”, scrive Magris, come in ogni cosa e paesaggio del resto, “ma non si può udire né esprimere”. Resta la brillanza della pelle del mondo. E tanto basta. Goduta, sparisce. Annichilita.

Per questo i personaggi di Walser ricordano le cose ma non ne fanno esperienza (non ne traggono profitto). Joseph non impara nulla (come Simon in I fratelli Tanner, come Jakob in Jakob von Gunten). Non matura. Resta sempre quello. Accumula senza fare spessore. Consuma senza metter su ciccia né muscoli. Anzi, verrebbe da dire che consumando un evento, un incontro, uno sguardo via l’altro, è sé che consuma: tanto che prima ha periodicamente bisogno di fermarsi, di agire facendosi comandare e guidare (di agire da agito), e poi rinuncia anche quello: agisce non come pausa tra un obiettivo o uno spostamento e l’altro o in vista di una ripresa (ripartire, fuggire, scrivere) ma per se stesso, per qualsiasi cosa, meglio se umile, insignificante, che necessiti un po’ di concentrazione, ma non troppa. Abbastanza da tener lontano tutto il resto, senza confessarlo nemmeno a se stesso. Tanto più che “prestare attenzione ha un che di assai vivificante. La disattenzione spossa” (Il brigante, p. 21)


Non solo niente di quello che Joseph fa gli porta profitto, ma nemmeno gli importa davvero. E infatti non riceve mai lo stipendio, né lo rivendica veramente, al massimo qualche moneta la domenica che subito spende, sperpera o regala. Non accumula, non progetta, non risparmia in vista d’altro. Gode di ciò che gli viene offerto (cibo, sigari, caffè, persino un abito) nel presente, come fa con un luogo, un bagno, una passeggiata, che hanno in se stessi la propria ragion sufficiente. La sua è una sfera extra- o addirittura anti-economica. Come quella del suo signore e padrone (più che datore di lavoro), l’ingegner Tobler che, – sia pure, lui, con l’obiettivo di guadagnare; e tanto –, non fa che spendere e accumulare i debiti che lo porteranno al fallimento, per la realizzazione dei prototipi delle sue strampalate invenzioni e ancor più in spese smodate e superflue che inaspriranno le rivalse dei suoi creditori (grotta nel parco; decorazioni, feste, cibi e abiti di qualità, visite all’hotel del Veliero, viaggi di lavoro non si sa dove né con chi, su treni a cui arriva sempre in ritardo). Tutto si regge sull’economia, nell’industre Svizzera appena fuori dalla villa, ma non lì. E non loro. Tutto viene tenuto fuori, si costruiscono argini in cui però non tardano ad aprirsi crepe da ogni parte. Delle quali la principale è l’oblio, la dimenticanza volontaria, il fare ‘come se’, continuando nel brillante tran tran di sempre, sperando che l’esterno, il mondo, gli altri si adeguino, ipnotizzati da una messinscena di naturalezza che tende a dimenticare di essere tale. Nemmeno la signora Tobler, che pure avverte sempre più l’imminenza della rovina, fa nulla per sottarsi a questa deriva e finirà per esservi trascinata a sua volta, consenziente.

Si cerca soprattutto di tener fuori il tempo, principale elemento dell’economia (Joseph, come Simon Tanner, nel loro atteggiamento antiborghese di fondo, amano solo sperperarlo, considerandolo precipuamente come tempo della natura, della meteorologia e delle stagioni, fonte inesausta di gioia e di incanto), eccetto alcune scadenze liturgiche religiose e civili, cioè il non tempo delle ricorrenze, della ripetizione della routine, fingendo che l’angoscia dello scorrere sia così bloccata, azzittita per un po’, se non proprio sconfitta. Quando torna si sprofonda, ma poi ci si aggrappa alla prima occasione esteriore per allontanarla di nuovo, come se non esistesse. Anche la prosa di Walser è costruita su questa strategia, ed è questo che conferisce il particolare tono alla malia che ne promana, di grazia smaltata su una cancellazione; una successione di guarigioni momentanee che devono in continuazione rinnovarsi, spesso riuscendoci, per non dover risprofondare nella malattia, per quanta fatica questo sforzo costi (Benjamin lo aveva capito subito). Fatica che però molti personaggi di Walser, come Joseph, tentano di evitare, scaricandone il peso sul “padrone”, a cui spetta prendere le decisioni e dirigere la vita, anche quando il servo svicola o lazzaroneggia (tanto le decisioni sono prese, le cose avviate e seguiranno il proprio corso anche da sole). Per questo Joseph gli è persino grato. Meno pensa meglio è, felice quando può dedicarsi a attività servili e fisiche, per le quali sospetta di essere nato. Ma talvolta prende anche appunti o scrive riflessioni su foglietti (come farà più tardi Walser nella sua vita) che si affretterà a distruggere subito. A volte tuttavia una diversa consapevolezza lo assale. “Anche qui egli era un bottone ciondolante che non ci si dà la briga di riattaccare, ben sapendo che la giacca non la si porterà più per molto. Sì, la sua esistenza non era che una giacca provvisoria, un vestito che non calza bene.” Ma sono attimi. Il resto sfavilla.

La tela è preparata con un fondo nerissimo, ma lo scrittore la ricopre interamente di colori smaglianti, a più velature, che però crescendo, anziché cancellare il sostrato, lo rendono sensibile. L’eccesso di deviazioni, a guardare da fuori, si configura come una fuga, un rifiuto. Ma finché si scrive, e si legge, si è dentro, e resta solo lo scintillio, la vertigine dell’orizzontale. Per questo non si deve tornare indietro, ricollegare, connettere, stratificare, correggere. Avanti!, finché non sopraggiunge la stanchezza (e un po’ di nausea).

Il presente regna sovrano (o così sembra, finché poi il tempo presenta il suo conto). Assorbiti da esso, il passato non esiste, non fa nemmeno in tempo ad essere dimenticato, perché ciò che si presenta (ai sensi, all’immaginazione, alla lingua, alla penna) richiama tutta l’attenzione, immediatamente, senza che si possa pensare a cosa precede né a cosa seguirà, al luogo da cui si proviene né verso dove ci si dirige. Quando la catastrofe arriva (o l’illuminazione), la meraviglia e lo sgomento hanno sempre lo stigma di una irrelata necessità: non c’è sorpresa, perché questa presuppone una diversa attesa. C’è la parusia, il prodigio. O l’abisso, la paralisi.

Non c’è neanche più un soggetto (che vede, sente o parla) ma un’istanza che si conviene chiamare “io” o “Joseph” o “Jakob” che viene ad essere nel preciso momento in cui vede, sente o parla, ad opera di ciò che si presenta alla vista, ai sensi e alla parola, il cui statuto diventa allora indecidibile.

Questo fa sì che anche il lettore sia sedotto, aspirato, incantato mentre legge, e disorientato, non appena alza gli occhi e tira il fiato, e chiude la bocca rimasta troppo a lungo spalancata. Tutto appare “normale”, o comunque accettato senza batter ciglio; anche i comportamenti più bizzarri o irrazionali al massimo suscitano un attimo di sconcerto, e subito entrano nell’alveo del quotidiano. Ma come è veramente, si chiede allora? È davvero solo così, o c’è qualcosa d’altro, sotto o sopra? Un altro senso? dell’ironia? allusioni, allegorie, secondi e terzi livelli di lettura? 

Allora si muove un passo indietro, ci si stacca, si guarda da fuori. Ma nel fare questo, si assiste, e quindi si torna in qualche modo a identificarsi con Joseph. Assistente nel romanzo vale come aiutante, subordinato, servitore, impiegato; ma è anche colui che si prende cura, che dà una mano; e infine colui che assiste, che guarda, che è fuori, distaccato anche quando è dentro, coinvolto. “La dipendenza assicura l’estraneità”, del resto, come osserva ancora Magris, e favorisce l’osservazione. Questo almeno per “assistente” in italiano. Ma senza dubbio vale per Walser e i suoi personaggi, e per il protagonista del romanzo con questo titolo in particolare.

I “suoi personaggi si trovano sempre sulla soglia dell’età adulta, ma non la superano”, dice V. Ottoboni (“Verso l’insignificante”, in Robert Walser, ed. Joker, 2016). È vero, al più giocano a fare i grandi, ma vorrebbero quasi saltare la maturità a piè pari per trasbordare dall’infanzia, scansando regole e responsabilità, con pochissimi vincoli (almeno nel desiderio), tutti provvisori e presto abbandonabili, alla vecchiaia che da quei vincoli si è liberata, recuperando uno sguardo vergine sul mondo: non originario, ma di una verginità riconquistata, quella che disfa formule schemi e sapere perché li ha conosciuti e può liberarsene a ragion veduta, direi quasi con una leggerezza di secondo grado, una leggerezza al quadrato. Anche in Una cena elegante è possibile trovarne esempi.

Quando osservano il mondo, protagonisti e narratore, e ne tessono incantati le lodi, si ha talvolta il sospetto che ci stiano prendendo in giro, e che prendano in giro anche se stessi, perché le vispe Terese che essi allora sono, covano le più nere depressioni e impotenze, a cui reagiscono a volte con una breve deviazione che tuttavia basta a portarli lontano, con lo stesso effetto di una fuga, a cui però si concedono in modo discreto. Evitare di affrontare le situazioni, le pressioni esistenziali e psicologiche, i problemi relazionali e economici, infatti, non è una fuga: è il modo più efficace che essi hanno a disposizione per affrontarli, in assenza di altri. Anche per fuggire occorre coraggio. Di fronte a questo spropositato idillio, si sta in precario equilibrio sul filo (sulla lama) che divide incanto e disincanto, tra il sorrisetto malizioso di chi la sa lunga, da un lato, con il sospetto magari di essere a sua volta lo sciocco della situazione, e, all’opposto, il desiderio di lasciarsi cadere dall’altra parte, nel versante fiorito, luminoso, morbido, dove il mondo ci vuole bene e la natura non è mai stata una matrigna.

Ci si adagia, come Joseph su un prato davanti al lago, in questa prosa tranquilla, distaccata, governata sapientemente, con ironia, sovrana, nel mentre viene ad essere svolgendosi come un nastro sotto gli occhi sorpresi, e persino meravigliati, di colui che scrive e si guarda lasciandosi scrivere, quasi che la scrittura sia autonoma, indipendente da lui, come sempre in gran parte è; e invece è percorsa, la prosa dico, da una sottile, invisibile quanto intensa, inquietudine, da incertezze quasi mai palesate, da sussulti e scarti in ogni direzione, ma tutti e sempre orizzontali, mai verticali. È un continuo susseguirsi, un trapasso, un dimenticare l’appena scritto o un negarlo, non esplicitamente, ma tramite la semplice successione, la banale contiguità e alterità di ogni nuova frase, delle parole che una dopo l’altra vengono a disporsi sul foglio, che si affacciano alla mente o mettono in moto, senza poterla arrestare, la voce.
Sappiamo tutti che è così sempre, quando si scrive davvero, quando non ci si limita, o ci si illude di limitarsi, a “comunicare” o a esporre il già pensato, l’acquisito, il consolidato (ma anche lì, poi…), salvo alla fine cercare di dare una specie di logica, di costruire – come argine contro l’informe, contro il formicolio frenetico dell’incertezza, lo sgretolarsi inarrestabile di ogni stabilità –, un’armatura di coerenza, di disegnare un filo, imbastire una forma, con rattoppi e rammendi a posteriori, spostamenti, montaggi, tagli e riempitivi, come se il vuoto potesse essere colmato da noi stessi, mentre chi può farlo, semmai, è solo un altro, chi legge, e anche lui solo per un po’, con tutte le incertezze del caso, nel timore di sfumare egli stesso, e di dissolversi. Come se questa non fosse la cosa migliore che può capitare.

Mi piace leggere L’assistente come una specie di precedente (o di prequel) del Castello di Kafka, che pure preferiva Jakob von Gunten. Mentre l’agrimensore arriva al villaggio ai piedi del castello, il romanzo di Walser inizia con il suo protagonista, Joseph Marti, che è appena stato assunto tramite l’agenzia di collocamento, davanti al cancello di una villa (anche I fratelli Tanner iniziava con Simon che va a cercare lavoro). Piove. E in anticipo, ma suona lo stesso e gli viene aperto, all’opposto di quanto accade all’agrimensore K. Tutta la vicenda, della durata di qualche mese, si svolgerà all’interno della casa e del piccolo parco che la circonda, a parte alcune uscite domenicali, fino a che Joseph dovrà lasciarla. Sarà quindi la vita nel castello a esser raccontata. Un castello che ha poco o nulla di metafisico, materialissimo nella sua quotidianità, e nonostante questo un piccolo pur se traballante paradiso. Almeno per Joseph, che, pur non ricevendo mai uno stipendio, gode dei vantaggi della partecipazione alla vita della famiglia che lo ospita, in balia degli umori di un padrone e signore burbero e benevolo, a volte iroso come il Dio dell’Antico Testamento ma anche pasticcione, sognatore con ambizioni concrete, creatore inconcludente quanto puntigliosi sono i progetti delle sue creazioni (invenzioni), che sembra concentratissimo su di esse, ma poi si distrae, si allontana non si sa a far cosa, per affari dice, e resta giornate e notti intere al bar, impegnato a giocare a carte (a dadi sarebbe troppo), e a discutere con avventori che non lo prendono sul serio; un signore che quando serve non c’è, mentre gli affari che dice di curare vanno a rotoli e i creditori si fanno sempre più esigenti e feroci, nonostante lui li disprezzi e cerchi di rintuzzarli con motivazioni risibili e arroganti.

Se si guarda dal punto di vista del cosiddetto solido buonsenso borghese (proprio ciò che Walser sbeffeggia e rifiuta sia pure senza accenti plateali), c’è sempre un’ombra di idiozia nei suoi personaggi; e a volte anche più di un’ombra. Prima o poi tutti, a partire dai protagonisti, fanno qualcosa di cui qualsiasi persona dotata di un minimo di buon senso percepirebbe immediatamente l’insulsaggine e la dannosità. Ma è appunto qui che sta la peculiarità di Walser: il buon senso, la ragionevolezza non solo non hanno corso nelle sue storie, e se a volte vengono rigettati come un che di mostruoso, non lo sono mai in modo vistoso, ma semplicemente non li si prende in considerazione, come non pertinenti, quando non proprio controproducenti, e vengono lasciati (in modo un po’ beffardo) ai loro detentori, come un tesoro inutile, di cui non si sa che farsene.

Ai personaggi di Walser in fondo tutte le cose e le attività e relazioni appaiono insensate. Ciò che tuttavia non impedisce loro di acquisire senso. Se tutto è insensato, infatti, tutto è suscettibile di senso infinito; se tutto è separato, solo, spezzato, ogni più piccola cosa diventa, fosse pure per poco, assoluta. Che sta a sé e vale per sé, totale, completa, che non rimanda a niente e non ha bisogno di connettersi a nient’altro. Niente è più, e niente è meno. Per comodità, e finché è comodo, si accettano le regole e le gerarchie (quelle borghesi, con tutte le loro piccole virtù, della piccola patria svizzera, della comunità in cui ci si ritrova a nascere o a vivere), e al contempo le si guarda con ironia, le si irride, senza che questo conduca a nessun cambiamento e ribaltamento. Ci si sta bene dentro, si lascia agli altri l’onore e l’onere delle scelte, le responsabilità e i loro vantaggi. A loro basta il poco che hanno, finché non si stancano o qualcosa li spinge via. Non importa. È tutto lo stesso: importa (se importa) finché lo si fa, e poi torna al suo nulla, come giusto.

Le risibili invenzioni, le fantasie e gli entusiasmi di Tobler, non lo sono più di ogni altra cosa a cui consuetudini, necessità e regole economiche e sociali hanno appiccicato un valore.

La famiglia, la casa, gli affetti, possono essere oggetto di desiderio o di rimpianto, ma non abbastanza da doverli cercare ad ogni costo o da non poterli abbandonare senza troppo sforzo né rimpianto. Si mette nella valigia il poco che si possiede, e si parte. Da qualche parte si andrà. In qualche posto, per un po’, ci si fermerà. Qualcosa si troverà. Qualcosa si farà.

 


 

01/05/23

Attenzioni eccessive

 


Guarda tutto con occhi avidi, timoroso che qualcosa possa sfuggirgli, e non solo il particolare più o meno curioso, ma anche il comune e l'identico, come interrogando un reticente che si lascia sfuggire qualcosa di importante proprio nel modo in cui tace o devia dall'interrogazione, quasi che tutto sia portatore di un significato tanto evidente da sfuggire all'attenzione. Ma in questa attenzione concentrata gli sfugge tutto, come se sconfinasse nell'allucinazione, perché la successione lo trascina in un dimenticare che si ignora, nel quale il dimenticato non ritorna mai, trovando sempre ogni posto occupato da qualcosa che subito è destinato a raggiungere la sua tombale compagnia. Fortunatamente talvolta è lo sguardo medesimo a interrompere questa catena di distruzione: se il suo fuoco è sempre evidente nella sua immediatezza  ("Ah, le cose stanno proprio così!", si meraviglia), talvolta ai suoi margini si insinuano movimenti strani, figure inaspettate che fanno capolino e subito di dissolvono non appena tenta di focalizzarle, accenni di eventi in qualche modo minacciosi che annunciano il loro poter-essere e, soddisfatti del solo annuncio, si adattano a loro volta all'immediata tranquillità e paciosità dell'evidenza, o della scomparsa, non appena gli occhi si spostano dalla loro parte. Non ci sono più, ma anche ciò che ora viene visto comincia a venir meno: lo sguardo intravvede la propria disfatta, e se quasi sempre reagisce incollandosi a nuovi oggetti, in altri casi vi si abbandona con sollievo, cullato dalla nuova attenzione alla quale ha lasciato spazio, senza curarsi della sua provenienza.

 

Lorenzo Lotto, Ritratto di gentiluomo, dettaglio (non è di lui che si parla qui, però...)